La coop sei tu, chi può sfruttarti di più?

di Andrea Bui 

Il magazzino Kamila rifornisce i supermercati Coop Alleanza 3.0 ed è teatro da mesi di una dura battaglia sindacale che vede i lavoratori in vertenza per ottenere condizioni di lavoro almeno rispettose del contratto collettivo. Intendiamoci, un contratto, quello multiservizi, che già di per sé non è molto tutelante, ma la realtà in tanti magazzini della logistica è quella di condizioni di lavoro al di sotto degli standard già bassi di questo settore. Con Potere al Popolo abbiamo sempre sostenuto questa lotta e questa vertenza portata avanti da Adl Cobas, perché le riteniamo molto importanti per il nostro territorio.

Prima di tutto perché illumina una porzione della nostra città che preferiamo non guardare, che non compare nell’immagine che i nostri giornali danno della realtà in cui viviamo, eppure è una parte importante, fondamentale per la vita che conduciamo. È anche grazie alle dure condizioni di lavoro di queste persone che abbiamo le merci sugli scaffali quando andiamo a fare la spesa. Ed è necessario tenerlo a mente quando, girando col carrello, vediamo le offerte promosse da grafiche accattivanti, magari che ci parlano dell’“eticità” della filiera. Alcuni supermercati come Coop fanno della loro supposta etica un marchio distintivo, investono milioni di euro in campagne pubblicitarie promosse da personaggi televisivi di peso. La prima cosa illuminata dalle lotte al magazzino è molto pericolosa, ci dice cioè che il rispetto dell’ambiente e del lavoro si stanno riducendo a marketing. Sono perfettamente consapevole che esistono realtà e realtà, che in alcuni casi il bollino indica qualcosa di reale, purtroppo però in molti casi si tratta solo di un bollino e la situazione è pericolosa proprio perché l’ecosistema e la dignità nel lavoro rischiano di diventare un distintivo fasullo, non valori da tenere vivi ogni giorno.

Tra le parole rubate dal marketing e svuotate di significato troviamo anche la cooperazione. Un tempo e soprattutto dalle nostri parti, avanguardia di un modo di produrre collettivo e che avesse il lavoratore al centro. Un modo che la classe lavoratrice nel nostro paese ha adottato per sottrarsi alle peggiori conseguenze dello sfruttamento, un modo per dare concretezza immediata agli ideali di uguaglianza e giustizia. Penso alle cooperative di muratori romagnole ad esempio, nate per contrastare l’arbitrio padronale. Oggi invece, è una constatazione amara, se si vuole sfruttare il lavoro si fonda una cooperativa e questa parola ha distorto il suo significato: non è più sinonimo di emancipazione ma di lavoro povero, sfruttato. È sufficiente osservare la logistica e la giungla dei suoi appalti e subappalti per osservare come siano proprio le cooperative le protagoniste di quel sistema: sono presenti immancabilmente in ogni vertenza che questo settore ha visto. Sono decenni che è così, non solo nella logistica, ma anche in agricoltura e nel sociale. Sì, anche la pubblica amministrazione ha beneficiato del lavoro povero delle cooperative nel processo di privatizzazione di sanità e servizi sociali. Un esempio per tutti, il primo che mi viene in mente, è quello di chi lavora nelle biblioteche di della nostra città, con il contratto multiservizi, decisamente peggiorativo per stipendi e condizioni di lavoro, rispetto a quello dei bibliotecari.

I conflitti sociali che si sono sviluppati per contrastare lo sfruttamento della logistica, ma che abbiamo visto anche in altre grosse realtà come ItalPizza o alla Castelfrigo, compaiono nella cronaca solo per descrivere eventuali scontri con la polizia o vere e proprie montature giudiziarie: questo conflitto non deve esistere ed è facile intuire che sia così per il peso degli interessi economici che lucrano sulla vita di questi lavoratori.

Rivelatore in questo senso è che un altro grande settore interessato all’utilizzo delle cooperative è un altro fiore all’occhiello della nostra economia, la lavorazione delle carni. Nella città del prosciutto raccontare che esiste una fetta sempre ampia di lavoratori poco tutelati (quando va bene), sfruttati e in condizioni al limite della riduzione in schiavitù è come rendersi colpevoli di lesa maestà. Come raccontare queste storie quando affidiamo la descrizione dei nostri territori agli esperti di comunicazione che parlano di prodotti artigianali, “sapientemente” lavorati su colline brumose al ritmo dolce della provincia? Chi davvero fa il bene del territorio, chi vuol farci credere che la pubblicità sia la realtà o chi prova a guardare in faccia la realtà, per quanto sgradevole, per provare a cambiarla?

La risposta sappiamo bene quale sia, per questo siamo al fianco dei lavoratori del magazzino Kamila senza esitazioni e distinguo, perché per cambiare davvero la realtà occorre prima il coraggio di affrontarla.