Il giornalismo mutante

di Marco Severo

Un giorno, gli insegnanti di una scuola di giornalismo dissero agli allievi che presto sarebbero diventati come Aldo Cazzullo. Ossia brillanti e famosi, molto pubblicati. Gli allievi ovviamente credettero alla promessa e ne furono compiaciuti. Erano là per quello. Per diventare come Aldo Cazzullo. Sarebbe servito solo un po’ di tempo, lo spazio della necessaria gavetta, poi, finalmente, avrebbero dato del “tu” al vecchio Aldo. Né gli insegnanti né gli allievi potevano però immaginare d’essere seduti su una di quelle faglie della storia che da un momento all’altro si attivano stravolgendo per sempre gli scenari sociali.

Era infatti il 2007. Stava per iniziare il 2008. Proprio mentre gli allievi ricevevano a Roma il tesserino da professionisti succedeva che i mercati di mezzo mondo finivano a gambe all’aria e quasi ovunque si estendeva la peggior crisi economica degli ultimi decenni. La grande recessione. Subito, la circostanza non destò i sospetti dei giovani giornalisti. In breve però la faglia sotto i loro piedi si definì come una cesura netta tra un passato di miti luminosi e un presente sciagurato. Nulla, da quel momento, sarebbe stato come prima.

Al pari d’altri settori di produzione, infatti, anche l’industria dell’editoria subì tra il 2007 e il 2008 i contraccolpi della crisi, con la conseguente revisione delle voci di bilancio, con i tagli di posti di lavoro, i contratti di solidarietà, la ricalibratura della qualità e degli obiettivi del prodotto finale. Da allora ad oggi il risultato è stato che i quotidiani cartacei e i settimanali sono pressoché spariti dal lessico e dalla topografia delle nostre giornate. Sulle metropolitane nessuno sfoglia più i giornali, nei bar si scruta il monitor del proprio smartphone, le edicole chiudono e vengono le gru a spiantarle.

La grande estinzione, ancora in corso, sembra inarrestabile. Tra il 2007 e il 2016 la diffusione dei giornali in Italia è calata del 26,5% secondo il Censis e addirittura del 48% secondo Ads – la società che certifica i dati di vendita e diffusione della stampa – precipitando dai 5,8 milioni di copie mensili vendute mediamente nel 2007 ai 3 milioni di unità del 2016 (V. Meloni, Il crepuscolo dei media. Informazione, tecnologia e mercato, Laterza, 2017, p. 9). La ritirata ha riguardato sia i campioni delle tirature nazionali sia i giornali locali, i quotidiani come i settimanali, in Italia e all’estero. Se nel dicembre 2007 il Corriere della Sera vantava una diffusione pari a 671.604 copie – sempre secondo Ads – nello stesso mese del 2017 il quotidiano milanese si fermava invece a 286.707 copie (ultimi dati certificati disponibili). Meno netto ma parimenti significativo è stato lo scarto per un settimanale come L’Espresso, passato nel medesimo periodo da 351.185 a 246.542 copie. E neppure i giornali di provincia hanno tenuto il passo: lo scollamento dei lettori ha intaccato anche il tessuto duro del pubblico più fidelizzato, come dimostra la diminuzione delle copie della Gazzetta di Parma, le cui 42.415 unità del dicembre 2007 sono diventate 29.010 nel dicembre 2017.

Forse mai prima d’ora una pratica sociale e culturale di tradizioni secolari, la lettura del quotidiano appunto, ha esaurito tanto bruscamente la propria spinta vitale. È stata una mutazione antropologica, una rivoluzione. O un’involuzione, dipende dai punti di vista. Vi sono coloro i quali sostengono che siano solamente cambiate le abitudini di lettura ma non, in fondo, la lettura. Che cioè l’informazione abbia semplicemente trasferito la propria residenza altrove, e precisamente sui nuovi devices, come dicono gli esperti, cioè sui dispositivi di accesso a internet e ai social network: pc, tablet, smartphone, smart tv. Si tratta di una scuola di pensiero dal carattere talora spregiudicato, che ostenta entusiasmo e oppone poche riserve al nuovo. Al suo cospetto deve scontare invece un certo stigma di conservatorismo e vacuo romanticismo chiunque manifesti dubbi sulla esatta sostituibilità dei vecchi giornali con i contenitori di news online.

È innegabile, ad ogni modo, che in questo giornalismo mutante la velocità, l’emotività e la compulsione abbiano preso il posto del voltare lento delle pagine. I nuovi devices presuppongono costumi, prestazioni, attivazioni di funzioni intellettive differenti rispetto al passato, con conseguenti ricadute in termini di assimilazione e costruzione di mappe mentali. Tra giornali online, motori di ricerca e social network, in tal senso, non sono molte le differenze. La versione web delle grandi testate è un rullo in moto perpetuo, un interminabile giro sulla ruota panoramica delle news che rimette al lettore il compito della sintesi. La redazione giornalistica – quando c’è – ha una scarsa incidenza sull’assemblaggio delle notizie. La cernita e la gerarchia dei titoli, che in passato erano rivelate dall’ordine delle pagine, è ora una pura questione di cronologia e di marketing. Sul monitor occupano uguale rilievo le vittime di un naufragio nel Mediterraneo e il picnic dei figli dei principini d’Inghilterra. Uno degli obiettivi principali è che i titoli – qualsiasi titolo, meglio se d’intrattenimento – vengano visualizzati da molti lettori. Più visualizzazioni ottiene il sito online più credito l’editore può vantare presso gli inserzionisti, unici finanziatori del sito (giacché resta in una fase di osservazione, specialmente in Italia dove è stato adottato in parte da alcune testate, il pay wall, cioè il portale a pagamento).

Oltre ai giornali online piacciono però sempre di più – in questa epoca di disintermediazione e diffidenza nei riguardi delle élite intellettuali – gli aggregatori di notizie: dai motori di ricerca ai socialnetwork, dalle newsletter ai servizi “customerizzati”, ossia di selezione delle notizie su misura e su richiesta dei lettori. Gli utenti del web si costruiscono così un notiziario personalizzato. Cercano notizie sul web e il web tende a ripresentargli sempre quel genere di notizie, profilate dal sistema dei feed (il flusso di informazioni) sui suoi interessi e solo su quelli. I lettori rilanciano titoli e articoli attraverso i social network, e sui social network il sistema di riscontro articolato attraverso i like, gli emoticon e i commenti è immediato, galvanizzante, autocompiaciuto fino al punto da trasformare questa piazza digitale in un vortice di applausi reciproci che sottrae ossigeno a qualsivoglia possibilità di controcanto e di critica. Mentre nel 2007 gli aspiranti giornalisti professionisti si formavano un curriculum di studi guardando ad Aldo Cazzullo, insomma, in giro, in rete, senza che essi se ne accorgessero, cominciavano a proliferare centinaia, migliaia, milioni di Cazzulli.

Un ruolo sull’innesco del processo di mutazione l’ebbe nel 2008, dunque, la crisi economica globale. A quest’ultima tuttavia si combinò in quella stagione l’azione di un’altra forza, ancora più formidabile. In Italia, in particolare, al 2007 risale la pubblicazione di un bestseller andato a ruba nelle librerie: La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli), il saggio su sprechi e inefficienze delle istituzioni firmato dai giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Un paio d’anni dopo, nel 2009, si costituiva ufficialmente come forza politica in lizza per le competizioni elettorali il Movimento 5 Stelle. Cominciava cioè a montare negli stessi anni della crisi economica quel sentimento di insofferenza e poi di forte ostilità verso le classi dirigenti – classi dirigenti politiche ma non solo politiche – che si sarebbe definito negli anni a venire come rifiuto delle élite, con la parola “élite” che si sarebbe riferita via via a una minoranza sociale privilegiata, colta, ricca, autoreferenziale, lontana nel linguaggio e negli interessi dalla classe media. E se in principio, ad esempio sulle pagine de La Casta, l’oggetto della critica fu in via esclusiva la categoria dei politici o la burocrazia statale, presto il contagio del cattivo umore popolare si estese a qualsiasi altro luogo del potere amministrativo, economico, culturale, ivi compreso – e anzi tra i primi – il settore dell’informazione.

I giornali italiani (tra gli altri) con il loro linguaggio stantio, con il loro gusto per la polemica, con la loro contiguità con le basi di interesse economico e politico presero ad essere percepiti come un sottoprodotto delle élite. Si trattò di un moto collettivo e potente che a sua volta incontrò e si fuse, in quel primo decennio degli anni Duemila, con la corrente ascendente dei nuovi strumenti d’informazione democratici e gratuiti reperibili in internet. Il cerchio della tempesta perfetta per il vecchio sistema mediatico, a quel punto, era chiuso. Problemi di tenuta economica più crescente diffidenza del pubblico nei confronti dei media tradizionali più alternativa a portata di mano, uguale crisi totale dei giornali. Crisi a cui, probabilmente, contribuì pure il calcolo interessato degli editori, che nelle prospettive offerte dai nuovi assetti economici e tecnologici scorsero spiragli a loro favorevoli.

Possiamo ancora, dunque, definire giornalismo, o almeno buon giornalismo – cioè alimento per le funzioni del nostro metabolismo civile – ciò che in ogni momento delle nostre giornate stimola i clic sul monitor di pc e tablet? Nel lungo periodo, questo genere di giornalismo – al netto dei buoni strumenti di informazione che pure esistono nel web! –  favorisce la crescita di una cittadinanza migliore, più matura e consapevole? Aiuta a porre davanti allo specchio l’intero corpo sociale con i suoi difetti, oppure ne accentua le disfunzioni e ne esalta gli umori peggiori?

Il giornalismo è cambiato, ma è indispensabile che il buon giornalismo non cambi. A oltre dieci anni dall’avvio della democratizzazione se ne sente un grande bisogno. Nella convinzione, oltretutto, che di Aldo Cazzullo possa bastarne uno solo.

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