C’è vita oltre il giornalismo (precario)

di Marco Severo

Sosteneva un vecchio cronista, alla scuola di giornalismo, di saper scrivere in qualsiasi condizione, anche la più critica, persino sospeso «a quel lampadario lassù». Ogni volta, l’intera classe alzava gli occhi al lampadario provandosi a immaginare il vecchio penzolante cronista che batteva alla tastiera. «Oppure – proseguiva quello – scrivo mentre mangio un panino al prosciutto, o mentre avvito il manico della pentola di mia moglie, la quale puntualmente mi domanda: “Non dovevi scrivere un articolo?”, e io: “Certo, infatti lo sto scrivendo. A mente!”». Il tono era compiaciuto, ammiccante. La gag puntava allo stupore e chiedeva ammirazione. La morale era chiara, in qualsiasi situazione il vecchio cronista avrebbe portato a termine il suo lavoro, perché il suo lavoro era scrivere. Scrivere sempre, in ogni caso.

Era il 2006 e il vecchio cronista non poteva immaginare (o forse sì?) che presto i suoi allievi lo avrebbero superato. Oltre a quella del lampadario, si sarebbe presto imposta una nuova performance sulla scena del giornalismo acrobatico: quella del giornalista precario, ossia del lavoratore utilizzato per adempiere a mansioni che richiederebbero ben altro inquadramento contrattuale del normalissimo Co.co.co o della consueta partita Iva. Nel 2009 le statistiche avrebbero infatti registrato un netto aumento in Italia dei professionisti sprovvisti di contratto di categoria. L’Inpgi, l’ente previdenziale del settore, ne avrebbe contati 30.170 a fronte dei 25.781 censiti appena dodici mesi prima, registrandone peraltro il sorpasso sui colleghi in possesso di un regolare inquadramento.

Per la prima volta risultarono quell’anno più numerosi i lavoratori non inclusi nell’accordo nazionale di categoria, quelli cioè che in ambito professionale (e non solo) non sapevano bene cosa essere, quelli del “facciamo che io ero il cronista e tu il mio capo”, cresciuti sognando una redazione e diventati adulti comprando taccuini e telecamere a spese proprie, produttori seriali di servizi pagati 15, 8, persino 5 euro al pezzo. Curioso che proprio in quegli anni andasse diffondendosi il vezzo dei quotidiani online di trasmettere la diretta delle riunioni interne: “Entra con noi in redazione”, le chiamavano. Il tutto, esattamente quando dalle redazioni i giornalisti venivano tagliati fuori. La componente beffarda in questa storia non poteva essere più esplicita.

Sarà stata la crisi del vecchio modello d’informazione, della supremazia di internet, della società liquida dei social network. O sarà stata, più probabilmente, l’intuizione rivelatrice degli editori: fare un giornale senza i giornalisti, o quantomeno senza i giornalisti assunti. Fatto sta che tutt’oggi il grosso dei lavoratori dell’informazione, soprattutto dell’informazione locale, è fatto di individui sospesi, donne e uomini fermi in coda, eterni rincalzi ai quali si deve peraltro la gran parte del materiale messo in pagina dai quotidiani cartacei e online.

Li ha raccontati bene la trasmissione Report, con un’inchiesta andata in onda su Rai 3 lo scorso 29 ottobre. L’autore del servizio Bernando Iovene ha intervistato anche due collaboratori della “Gazzetta di Parma”, i quali hanno accettato di parlare della loro condizione di precariato (minuto 49,29’’ del video) a patto che fosse loro oscurato il volto e modificata la voce. Non sappiamo chi siano. I due affermano di scrivere fra i 100 e i 140 articoli al mese per una retribuzione che si aggira sui mille euro. La condizione delineata nell’intervista ricorda altro che il vecchio cronista pronto a scrivere in ogni circostanza. Piuttosto, il termine di paragone più prossimo è quello dell’operaio massa alla catena di montaggio degli anni sessanta, nonostante si parli, nel nostro caso, di un settore – il giornalismo appunto – che vanta un ruolo di sentinella e di fusibile della democrazia, garante dei diritti, modello trasparente di rispetto del primo articolo della carta costituzionale.

Il servizio di Report si chiudeva con Ivan Grozny Compasso, un giornalista che per anni ha lavorato – in scenari di guerra e terrorismo – come freelance «non per scelta». Oggi Grozny Compasso ha finalmente realizzato «il sogno», come dice, di essere assunto da un quotidiano, a Padova. Guadagna 1100 euro al mese, lavora sei giorni alla settimana e deve ammettere: «Non ho potuto avere dei figli, né farmi una famiglia perché sognavo questa roba qua. Oggi a 47 anni mi ritrovo a dover mettere il sogno in un cassetto, una famiglia non me la sono fatta, un figlio non ce l’ho e guadagno 1100 euro al mese». Tanto che una domanda a questo punto va posta: perché? Perché inseguire fino allo sfinimento un sogno che tale non è più? Vale davvero la pena? C’è un punto di rottura oltre il quale la tenacia diventa ostinazione cieca, il coraggio curva nell’irresponsabilità.

Di cosa hanno paura i giornalisti precari? Di essere messi alla porta? D’accordo. Di non essere mai assunti. Certo. E se anche fosse? Se il sogno d’infanzia è stato domato e cavalcato da approfittatori furbi e cinici, dobbiamo seguitare a farci tenere le briglie? Forse, al contrario, sarebbe il caso di smettere il vittimismo mesto e sospirante che contraddistingue la categoria del “facciamo che io ero”. Di prendere il coraggio a due mani e smascherare, ma davvero, i cinici e approfittatori rinunciando ad una professione che, da tempo, non è più quella vagheggiata. Volevamo una redazione, ci hanno dato un “entra con noi in redazione”. E allora no, grazie. Tenetevelo questo giornalismo. Fateveli da soli i vostri siti online pieni di “temi caldi sui social”. Per noi, c’è vita oltre il giornalismo (precario). Dopotutto, quando il vecchio cronista parlava del lampadario non era serio. Era solo ironico.