Tre volte Lenin

di Andrea Palazzino

In vista di un corso della Libera Università del Sapere Critico (Lusc) sul pensiero di Lenin ‒ che si svolgerà presso il Centro studi movimenti, tra la fine di gennaio e la metà di febbraio prossimo (info: lusc.csm@gmail.com) ‒ abbiamo pubblicato la settimana scorsa una riflessione di Francesco Antuofermo. A quella segue questa di Andrea Palazzino che approfondisce le ragioni di una riflessione sul pensiero leniniano [ndr].

Quando mi è stato chiesto di partecipare alla realizzazione di un corso della Lusc sulla figura storica e politica di Lenin, a cent’anni dalla sua morte, mi era sembrata inizialmente un’operazione fuori tempo massimo. La figura di Vladimir Ilich Lenin è la cosa più fuori moda che oggi possa esserci. Il sistema degli storici di professione e la vulgata dominante lo ha ormai relegato al museo dei dittatori e dei totalitarismi del Novecento. Eppure ripensare alle vicende storiche e politiche che lo riguardano non è un mero esercizio di stile o materia per inveterati nostalgici. La sua esperienza di teorico della rivoluzione e leader del primo paese che cercò di costruire il socialismo lo rendono un caso da studiare per chi vive con disagio il nostro mondo mercificato.

A mio avviso, sono tre le questioni interessanti che sono emerse nel nostro lavoro preparatorio di gruppo: 1. Lenin come teorico “pratico”; 2. Lenin analista del sistema capitalistico; 3. Lenin e il partito bolscevico come prodotti della loro epoca.

  1. Lenin come teorico “pratico”

Per Lenin «il lavoro teorico risponde solo alle questioni del lavoro pratico». Per tutta la sua vita il lavoro teorico sarebbe stato una risposta ai problemi politici e organizzativi che doveva affrontare e le conclusioni teoriche, se necessarie, dovevano essere rettificate alla luce dell’esperienza. Non significa che Lenin fosse un anti-intellettuale. Oltre ad essere un fine conoscitore della dialettica hegeliana e de Il Capitale di Marx si confrontò teoricamente con tutte le posizioni filosofiche e di teoria politica dell’epoca. Ma per lui il pensiero doveva essere utile alla costruzione di una prospettiva socialista.

Lenin non fu un dogmatico, non fu uno che non cambiò mai idea e, a seconda delle circostanze, mutò il suo pensiero e le sue analisi, restando però sempre fedele alla sua scelta etica di essere dalla «parte dei senza parte» (J. Ranciére).

Se prima della I guerra mondiale riteneva che in Russia ci poteva essere solo una rivoluzione democratica borghese e il compito dei socialisti era quello di favorire questo esito, con lo scoppio della guerra la sua posizione cambiò. In Russia non si trattava più di sviluppare in chiave progressista il Capitalismo, come tappa necessaria della storia umana, ma di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria e socialista. Ancora di più, il Lenin del dopo rivoluzione, nella sua riflessione e nelle sue scelte politiche andò avanti per tentativi, per avanzate e arretramenti, criticando ogni schematismo ed estremismo, attuando quei cambi di rotta necessari per mantenere aperta la prospettiva rivoluzionaria.

  1. Lenin analista del sistema capitalistico

Lenin lo si ricorda come leader politico, ma gran parte del suo lavoro è stato dedicato all’analisi materialistica del sistema economico e sociale del Capitalismo dell’epoca. Nello specifico, le sue analisi delle «formazioni economico sociali» della Russia zarista vennero pensate per capire quali alleanze di classe fossero possibili tra il nascente proletariato russo e le masse contadine. Ma è soprattutto con la sua analisi dell’Imperialismo che Lenin esplicita le motivazioni della guerra imperialista e di come parte del proletariato (la cosiddetta «aristocrazia operaia») appoggiò con i suoi politici di riferimento la guerra. Lenin puntò tutto sullo sviluppo della rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato, in particolare confidò sul proletariato tedesco, ma nel 1921 fu chiaro che questo non sarebbe successo a breve. La delusione per la mancata rivoluzione internazionale lo spinse a volgere lo sguardo verso i popoli colonizzati e le masse contadine che li componevano, rintracciando nella questione delle nazioni oppresse dall’Imperialismo la linfa vitale per un rilancio dell’azione rivoluzionaria.

  1. Lenin e il partito bolscevico come prodotti della loro epoca

La prassi e i metodi di lotta politica di Lenin e dei bolscevichi non possono essere decontestualizzati, tolti dal periodo storico in cui essi si trovarono ad agire.

Ciò che a noi contemporanei colpisce maggiormente è la brutalità, i metodi violenti, a volte spietati, con cui per lunghi tratti venne gestita dai bolscevichi la Russia rivoluzionaria.

Ogni prassi politica è frutto della storia che la precede. Tutto all’epoca era particolarmente “violento”. A confermarcelo e chiarirlo è Nicolas Werth, noto storico anticomunista, che però deve ammettere che: «Nella Russia dell’estate del 1917 la violenza era onnipresente; non che fosse in sé nuova, ma gli avvenimenti di quell’anno avevano consentito che si coagulassero diverse forme di violenza, presenti allo stato latente: la violenza urbana, “reattiva” alla brutalità dei rapporti capitalistici all’interno del mondo industriale; la violenza contadina “tradizionale”; la violenza “moderna” della prima guerra mondiale, che ebbe sui rapporti umani un effetto straordinariamente regressivo e brutalizzante. La miscela di queste tre forme di violenza costituivano un cocktail esplosivo, capace di avere un effetto devastante nella particolarissima congiuntura della Russia rivoluzionaria».

A tutto ciò, va aggiunto che Lenin e i bolscevichi conoscevano molto bene l’esperienza della brutale repressione della Comune di Parigi, la durezza con cui il proletariato parigino venne massacrato per essersi ribellato a un potere ingiusto (le statistiche variano dai 20 mila ai 35 mila morti). Conoscevano cosa fosse la brutale repressione della tentata rivoluzione del 1905, in cui ai cortei pacifici lo zar rispose con i fucili e le sciabole. La repressione dello sciopero di Mosca del dicembre del 1906 conclusosi a cannonate contro i manifestanti venne definita dallo zar Nicola II «esaltante».

I bolscevichi conoscevano molto bene anche la violenza dell’imperialismo contro i popoli colonizzati, come funzionavano lo sterminio e le deportazioni di massa, i campi di concentramento per la popolazione civile. Tutte pratiche affinate e usate da Stati spesso dichiaratisi “liberali”. Impararono molto presto a conoscere le fucilazioni di massa dei prigionieri delle guardie bianche perché erano comunisti, ebrei o di etnie non russe. È sempre così, la violenza fatta dal tuo nemico è barbarica, se la fanno i tuoi è giustificabile. È questo che ogni volta si impone in uno scontro dove la posta in gioco è il potere e la vita stessa. I bolscevichi vinsero queste prove, grazie anche al sostegno che ebbero di gran parte della popolazione civile, ma la brutalità della I guerra mondiale e della successiva guerra civile impose il suo tratto distintivo alla nascente Unione delle repubbliche sovietiche.

Siamo sicuri che il nostro tempo sia immune, estraneo a tutto ciò? Conoscere il pensiero di Lenin e le risposte che diede alla situazione concreta è ancora utile per capire i caratteri profondi della nostra epoca? Per chi ancora oggi vuole riprovare un nuovo «assalto al cielo»? Di questo discuteremo insieme, a partire dal 24 gennaio, alla Lusc.