Guido Picelli e l’NKVD sovietico. Parte prima

di Franco Ferrari

Pubblichiamo la prima parte di questo lungo saggio di Franco Ferrari che continua a scavare negli ultimi anni di vita di Guido Picelli, animatore degli Arditi del popolo di Parma e delle Barricate del 1922, deputato e dirigente comunista e combattente nelle Brigate Internazionali nella guerra di Spagna [ndr].

L’argomento che ci proponiamo di trattare in questo articolo presenta diverse difficoltà. Innanzitutto manca l’accesso ai documenti che erano, e probabilmente ancora sono, contenuti nell’archivio dei servizi segreti sovietici ovvero l’NKVD, il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, secondo la denominazione della metà degli anni Trenta. In secondo luogo attorno al ruolo di questi servizi sono state diffuse, in relazione alla morte di Picelli, tesi non supportate da documenti o testimonianze verificabili che rendono più difficile separare realtà e leggenda.

Alcune ricostruzioni vorrebbero che l’NKVD fosse particolarmente interessato alla figura di Guido Picelli e che, avendolo seguito nei suoi spostamenti e, come qualcuno ha scritto, “avendogliela giurata”[1], avrebbe messo in piedi una complessa cospirazione per eliminarlo in Spagna. Il che sarebbe effettivamente avvenuto a El Matoral ai primi di gennaio del 1937. Per provare a capire quale possa essere stato l’effettivo ruolo dell’NKVD nell’ultimo anno di vita di Picelli, tra Mosca, Parigi e la Spagna dobbiamo provare a ricostruire tutte le tracce di cui disponiamo e utilizzare le informazioni di contesto sul ruolo e l’azione degli agenti del Commissariato nel corso del 1936.

L’evoluzione del terrore

Se seguiamo lo sviluppo cronologico del terrore staliniano, così come ricostruito dagli storici più attendibili, occorre essere consapevoli che non si tratta di un percorso lineare[2]. L’inizio del terrore viene in genere fatto risalire al 1° dicembre 1934, quando a Leningrado viene assassinato il locale capo del partito e figura di primo piano della dirigenza sovietica, Sergej Kirov. Ma nel corso del 1935 e per gran parte del 1936, la repressione, che pure si fa più diffusa, non è ancora indiscriminata. E almeno in una prima fase i colpiti subiscono condanne a diversi anni di prigione, da scontare nella vasta ragnatela del Gulag, in condizioni di vita estremamente difficili, ma relativamente poche sono le condanne a morte. Lo sterminio di massa di quadri e militanti del partito bolscevico avviene dopo la riunione del Comitato centrale del Partito comunista sovietico del febbraio-marzo del 1937. Sarà fra la primavera del 1937 e per tutto il 1938, quando gradualmente la morsa repressiva si attenuerà, che si conteggeranno diverse centinaia di migliaia di morti per fucilazione, tra cui molti stranieri e, tra questi, un certo numero di italiani.

Alcuni momenti decisivi dello sviluppo del terrore, nel corso del 1936, sono la direttiva segreta del luglio, inviata a tutte le organizzazioni di partito, nella quale si estende la portata e le dimensioni del “complotto” di cui sarebbe prova l’uccisione di Kirov. In particolare, i trotskisti vengono ormai apertamente denunciati come agenti dei servizi segreti stranieri, promotori di azioni terroristiche e di sabotaggio.

Ad agosto si registra il primo dei grandi processi di Mosca, a seguito del quale vengono giustiziati Zinoviev e Kamenev, che erano stati per molti anni tra i principali collaboratori di Lenin. Nell’ottobre successivo viene decisa la sostituzione, alla guida dell’NKVD, di Jagoda, considerato non abbastanza efficiente e determinato nella repressione della presunta rete di terroristi e sabotatori, con Ezov. La sua nomina avviene a metà ottobre del ’36 e determina anche un progressivo cambio del gruppo dirigente dei servizi segreti e di polizia sovietici, oltre all’immissione di centinaia di nuovi agenti. Un mutamento che verrà sostanzialmente completato all’inizio del 1937.

Il contesto nel quale vive Guido Picelli (in quei mesi al lavoro nella fabbrica di cuscinetti a sfera Kaganovic) è certamente quello di un clima di sospetto e di repressione sempre più pesante, ma non ancora di terrore indiscriminato. Fino a quel momento molti pensano che i colpi della violenza di Stato cadano effettivamente sui nemici del sistema e quindi coloro che si erano schierati per la cosiddetta “linea generale”, quella indicata da Stalin e dal gruppo dirigente del Partito comunista sovietico, il VKP(B), sembravano non correre particolari pericoli. Convinzione che dall’anno successivo si dimostrerà del tutto infondata.

La fabbrica di cuscinetti a sfera “Kaganovic” di Mosca, nella quale lavorava Guido Picelli.

Questo quadro vale in gran parte anche per gli emigrati politici presenti in Unione Sovietica e provenienti soprattutto dai paesi confinanti o da quelli dove i comunisti sono costretti ad operare nell’illegalità. Saranno soprattutto i polacchi a subire il maglio implacabile della repressione e questo comincerà ad abbattersi su di loro già alla fine del 1936.

Una nuova “purga”

Con l’inizio del 1936 si avvia una nuova “purga” (cistka o proverka) ovvero una verifica della situazione di tutti gli iscritti al partito sovietico. Nella precedente del 1933 sarebbe stato coinvolto senza problemi anche Picelli, secondo quanto scrive egli stesso nella sua scheda autobiografica[3]. In quel caso la “cistka” avveniva sul posto di lavoro e in pubblico. Chiunque poteva sollevare dubbi sul comportamento di un iscritto al partito sovietico sia che riguardassero il suo atteggiamento politico che il comportamento lavorativo come anche le vicende private. Sulle modalità della “purga” del ’33 alla Kaganovic, dove Picelli lavorava, abbiamo una testimonianza di Dante Corneli:

Negli ultimi mesi del 1933, portata a termine la collettivizzazione nelle campagne e realizzato il Primo piano quinquennale, Stalin aveva epurato il partito dai burocrati corrotti e dalla gente insicura o pusillanime. Anche nella nostra fabbrica l’epurazione aveva avuto luogo, tra grandi assemblee e con l’attiva partecipazione di tutti gli iscritti al partito. L’operato di ciascuno di noi era stato minuziosamente vagliato da una commissione di controllo presieduta da Zorin. Tra noi gli ex oppositori erano parecchi (…) Tuttavia, (…) nel ’33 né a me né agli altri nelle mie condizioni era stato fatto alcun rimprovero riguardo al nostro passato trotzkista[4].

Al termine di questa sorta di “processo” pubblico, una commissione decideva se l’esaminato poteva restare iscritto al Partito comunista sovietico. Questa procedura non aveva intenti direttamente repressivi ma puntava soprattutto a mettere ordine in un partito che era numericamente cresciuto negli anni precedenti. Uno sviluppo quantitativo che aveva accentuato gli elementi di disorganizzazione e consentito l’ingresso di ogni tipo di persona, in cui evidentemente non mancavano opportunisti e carrieristi.

La verifica del 1936 avvenne in modo diverso e con diversi obbiettivi. Si accertava chi avesse ancora titolo per restare iscritto al partito e l’esame si compiva in una riunione ristretta nella quale era presente solo la commissione che poi doveva decidere se confermare o meno l’appartenenza al VKP(B). L’incombere del clima repressivo faceva sì che l’esito di queste commissioni potesse dare adito ad un ulteriore intervento dell’NKVD e quindi con conseguenze ben più gravi che non il solo ritiro della tessera di iscrizione al partito al potere. Evento che già di per sé poteva creare difficoltà e problemi nella vita quotidiana dell’escluso.

Nel valutare le vicende che coinvolsero Picelli in quei mesi dobbiamo considerare che le operazioni di verifica erano diverse e in parte venivano condotte parallelamente da soggetti diversi.

Il Comitato di fabbrica della Kaganovic procede ad un esame del comportamento degli iscritti al partito sovietico che vi lavorano e tra questi evidentemente anche degli emigrati italiani. In un caso questa verifica coinvolge indirettamente Picelli. Il Comitato di Partito esamina un caso di presunta indisciplina di quattro italiani (Baldi Alberto, Sallustio Salvatore, Sarti Marco e un quarto il cui nome non è esattamente identificabile, forse Lenti F.), tutti iscritti al Partito sovietico dal 1931, nei confronti dei quali decide anche di assumere dei provvedimenti disciplinari di diversa gravità[5].

I quattro si sarebbero trovati a casa di “Ferro” (ovvero Picelli), definito “compagno senza partito” in quanto risulterebbe non iscritto al Partito sovietico ma “membro del Partito Comunista Italiano”, il 6 gennaio 1936 per incontrare Masi (ovvero Michele Donati), anch’egli membro del PCI ma non del VKP(B), proveniente da Tashkent. In questo incontro venne “discusso della decisione del Comitato di Partito in merito alla questione Visentin”. Il documento ricorda che “in occasione della riunione del Comitato di Partito del 14.12.35 [ Visentin] è stato accusato da tutti i succitati compagni di far parte dell’opposizione trotskista, cosa che non è stata confermata dal Comitato di Partito”. Baldi e gli altri sono rimproverati per aver discusso del problema nell’abitazione privata di Picelli, alla presenza di Donati e delle rispettive mogli, anziché di rivolgersi all’istanza superiore, ovvero il Comitato di Quartiere (Rajkom) del VKP(B).

Baldi, Sarti e Lenti (?) vennero quindi condannati per il loro comportamento “contrario ai principi e alla disciplina del partito” perché avrebbero discusso di questioni interne al VKP(B) in un incontro privato alla presenza di non iscritti al partito stesso. Alberto Baldi venne quindi escluso dal VKP(B); Marco Sarti venne rimproverato; a F. Lenti (?) essendosi sinceramente accorto dell’errore ci si limitò a “paventargli la possibilità di punizione”, mentre Salvatore Sallustio, che se n’era andato prima che venisse trattata la “questione Visentin”, ma avrebbe cercato di “coprire il comportamento contrario al partito dei compagni”, veniva solo minacciato di punizione.

Guido Picelli negli anni Trenta.

Picelli era indicato in questo documento come “senza partito”, ovvero non iscritto al Partito sovietico. Il che contrasta con quanto in generale si è ritenuto finora. Ovvero che la sua partecipazione alla “purga” del ’33 (di cui riferisce egli stesso nella scheda autobiografica compilata all’inizio del ’36 e a cui abbiamo accennato sopra) e la presenza di una contestuale lettera di raccomandazione di Mario Montagnana, cognato di Togliatti, attesterebbero la sua iscrizione al Partito sovietico[6].

Picelli affronta direttamente la situazione che si è determinata in fabbrica con due lettere. La prima inviata al segretario del comitato di partito della Kaganovic, la seconda, del 2 febbraio 1936, a Ercoli (Togliatti). Nella prima, scritta in italiano, nella quale conferma anche che non è riuscito ad imparare il russo (ragione per la quale non aveva potuto accedere ad una scuola militare al suo arrivo in Unione Sovietica) afferma:

Trasmetto copia della mia biografia perché da parte del compagno Kamonisov, segretario del Comitato di Partito della 1° GPZ [la fabbrica Kaganovic], sono state dette delle inesattezze sul mio conto, forse, per la ragione che la difficoltà di imparare la lingua mi ha sempre impedito di parlare direttamente col compagno Kamonisov stesso, e di farmi meglio conoscere. Alla mia biografia unisco questa lettera per un maggior chiarimento. Si è detto che io non sono un operaio, ma un ufficiale di chissà quale origine sociale. No, io sono operaio e figlio di operai. Durante la guerra del 1915-18 ero ufficiale, ma di complemento, non di professione né di carriera; ufficiale di complemento come lo furono molti miei compagni. Perciò cessata la guerra venni congedato insieme a tutti quelli della mia classe, e inviato a casa perché, come ripeto, non ero ufficiale effettivo. L’essere stato ufficiale di complemento non solo non costituisce una colpa, ma i partiti dell’Internazionale Comunista, per il lavoro di disgregazione e di infiltramento nelle file dell’esercito borghese, affermano che un comunista, quando gli si presenta l’occasione deve accettare il grado, non rifiutarlo. Che io sono un operaio è molto noto in Italia, ma a coloro che avessero dei dubbi o fossero male informati sul mio conto, io potrò dire: Chiedete di me alle popolazioni operaie e contadine delle province di Parma, di Reggio, di Piacenza, di Modena, di Bologna, di Ferrara. Chiedete di me alle masse lavoratrici di tutta l’Emilia, del proletariato di Roma e di gran parte d’Italia. Sfogliate qualche giornale del lungo periodo di lotte che va dal 1919 al 1926, quando dal Parlamento, dalla piazza, dalle barricate, io mi battevo contro la guerra, contro il fascismo, per il pane, per la libertà della classe operaia e per la difesa dell’U.R.S.S.[7]

Pur non essendo direttamente coinvolto nel “processo” ai quattro italiani, a seguito del conflitto che si è aperto all’interno della fabbrica dove lavora, sono state evidentemente fatte circolare informazioni non veritiere su Picelli dai suoi “accusatori”, tale da metterlo in cattiva luce. L’origine non proletaria e la partecipazione alla prima guerra mondiale, tanto più con ruoli da ufficiale, sono considerate “tare” tali da rendere più difficile o impedire l’accesso al partito sovietico, come racconta Teresa Noce nelle sue memorie.

Sulla vicenda, Picelli informa, protestando, Ercoli (Togliatti), allegandogli sia la lettera scritta al Comitato del partito sovietico alla Kaganovic, che la sua scheda autobiografica. Nella lettera Picelli scrive:

Compagno Ercoli, vi trasmetto copia della mia biografia e della lettera inviata al Comitato di Partito della fabbrica ove lavoro. In seguito all’esito della questione Visintini, nella nostra fabbrica si è creata una situazione falsa. Malgrado la risoluzione (adottata) al Club, Visintini nella riunione tenuta tempo fa al Comitato di fabbrica è riuscito ad avere ragione mentre noi che abbiamo (difeso) nella riunione stessa la rivoluzione, abbiamo avuto torto. Non solo, ma Visintini, collegato come era ai trockisti Siciliano e Merini, oggi è il segretario di Partito della fabbrica, il compagno fedele alla linea del partito e l’informatore sul conto nostro presso gli organi politici. Si verifica questo assurdo: Visintini influisce talmente dopo il “successo” da lui riportato sulla grave questione politica che ai compagni Sallustio, Baldi e Sarti, è stata ritirata la tessera del VKP(B) ed è stato loro detto da parte del Segretario del partito: 1. Che a Visintini bisogna credere perché è un operaio mentre a Ferro no perché è un ufficiale! (Ferro è il mio nome in fabbrica). 2) che con Ferro non bisogna più parlare. Ma è possibile che un segretario di una grande fabbrica come la nostra, sulle informazioni di un compagno di cui era stata chiesta l’espulsione dal Partito Russo, possa formulare giudizi di tal genere e arrivi persino a consigliare il boicottaggio di un altro compagno? Con l’invio della qui unita copia della lettera e della biografia, intendo mettere al corrente della cosa gli organi politici superiori (…). Contro il bordighismo in Italia ho sempre lottato. Ho sempre difeso la linea dell’Internazionale Comunista. In Francia, nell’emigrazione, ho lottato contro il trockismo e anche nell’URSS al Club degli emigrati politici e nella fabbrica “Cuscinetti a sfera” ho partecipato alla lotta contro i trockisti italiani. Per quasi due anni ho sostenuto la linea del Partito contro Merini, Siciliano, Visintini. Per quasi due anni è durata la lotta politica per lo smascheramento di costoro nella nostra fabbrica. Visintini rappresentava l’ultimo anello della catena e contro di lui il rappresentante del Partito comunista italiano presso il Comintern aveva approvato la richiesta di espulsione da VKP(B). Ora si è detto ai compagni Sarti, Sallustio e Baldi che non debbono più parlare con me. Non comprendo la ragione di un tale provvedimento ed è grave che un compagno, membro di partito del 1922, nella fabbrica dove lavora, possa pensare di essere considerato come un elemento estraneo (…) Da quando milito nel partito comunista non ho mai partecipato a gruppi di opposizione né ho mai svolto attività frazionista né di destra né di sinistra[8].

Picelli fa riferimento ad un precedente conflitto avvenuto all’interno del gruppo degli emigrati italiani che lavoravano alla Kaganovic e che terminò, per alcuni, in modo drammatico. “Siciliano” era lo pseudonimo di Luigi Calligaris, “Merini” quello di Ezio Biondini. Furono entrambi arrestati alla fine del 1934 con l’accusa di partecipazione ad un’organizzazione trotskista. Il primo fu condannato a tre anni di confino in Baskiria, il secondo a Siktivkar. Come accadde a molti altri vennero condannati nuovamente nel 1936 o ’37, quando stavano ancora scontando il primo periodo di pena. Entrambi morirono nel Gulag, per essere poi riabilitati dopo il XX Congresso del PCUS.

Nella lettera a Togliatti, Picelli ricorda la sua posizione politica non solo nello scontro con Siciliano e Merini, ma anche le sue attività precedenti:

Contro il bordighismo in Italia ho sempre lottato. Ho sempre difeso la linea dell’Internazionale Comunista. In Francia, nell’emigrazione, ho lottato contro il trockismo e anche nell’URSS al Club degli emigrati politici e nella fabbrica “Cuscinetti a sfera” ho partecipato alla lotta contro i trockisti italiani. Per quasi due anni ho sostenuto la linea del Partito contro Merini, Siciliano, Visintini. Per quasi due anni è durata la lotta politica per lo smascheramento di costoro nella nostra fabbrica.

In realtà negli anni dello scontro tra Gramsci e Bordiga, la posizione di Picelli non fu così netta, tant’è che in occasione del Congresso di Lione lasciò attestato per iscritto che votava a favore delle tesi presentate da Gramsci “per disciplina” e “con qualche riserva”[9]. Secondo Fortichiari, Picelli era stato anche critico, come i deputati allineati alla sinistra bordighiana, nei confronti della decisione di partecipare all’Aventino, voluta da Gramsci[10]. Risulta invece netta l’adesione alla politica della direzione del PCI negli anni del confino[11].

Che, nello scontro del 1934, Picelli fosse schierato a difesa della “linea generale” (staliniana) del VKP(B) emerge anche da un commento consegnato dal giovane Emilio Guarnaschelli in una lettera al fratello Mario del 25 aprile 1936, nella quale inserisce Picelli tra i suoi nemici. Scrive in una lettera:

Molto significativo il fatto seguente: quando il partito comunista italiano constatò che malgrado tutto mi accingevo a partire [per l’Italia], fu pubblicato sul giornale della sezione italiana un articolo il quale (forse per ultima e decisiva minaccia) fra l’altro diceva:… “chi non teme questo nostro pugno, lo colpiremo con l’altro” (parole sputate da Masini, Picelli, Germanetto, Marabini e compagnia). Quando lessi ciò, mi passò accanto il povero Biondini, mi volsi e profferii come a me stesso “ l’altro? Quale pugno dunque?” Il Biondini mi guardò e si mise a cantare sull’aria di una canzone inglese: “Oh ghe pe u..I love you…”, e sputò per terra. Qualche giorno dopo venivo arrestato[12].

Guarnaschelli, la cui tragica vicenda che lo vedrà morire di stenti al confino avrà poi una certa eco molti anni dopo, aveva collaborato con il protagonista delle Barricate di Parma e con Germanetto nell’allestimento delle rappresentazioni teatrali alle quali Picelli si era dedicato a Mosca[13].

Questa partecipazione di Picelli alla “lotta contro i trockisti italiani”, di cui dà conto egli stesso nella sua lettera, diventa nel racconto di Bocchi: “Picelli si schiera in modo convinto e deciso per la salvaguardia dell’unità del Partito”[14]. Una rappresentazione del tutto contrastante con quanto scriveva lo stesso Picelli.

Di “Masi”, ovvero Michele Donati, che Picelli ritroverà a Parigi, sappiamo che si trattava di un dirigente comunista emigrato a Mosca dopo essere stato condannato al confino a Lipari.

Inviato in Russia dal partito nel 1930, prese alloggio con la famiglia all’Hotel Lux e lavorò come funzionario a disposizione del Comintern, con un incarico nell’Istituto internazionale di agraria e insegnando anche Economia politica presso la Scuola leninista di Mosca. A diretto contatto con la realtà sovietica maturò un orientamento sempre più critico nei confronti della politica di Stalin, ma seppe dissimulare i suoi veri sentimenti per non cadere anch’egli vittima della repressione. Nell’estate del 1936 riuscì a convincere Togliatti a chiedere il visto alle autorità sovietiche per potere lasciare la Russia insieme alla famiglia, giustificando la richiesta con l’inclemenza del clima (la moglie soffriva di artrite e il figlio Giorgio era morto addirittura per il gelo). Ritornato a Parigi, rese note le sue critiche al regime sovietico e ruppe ogni legame con il PCI. Rientrato a far parte del PSI massimalista, entrò a far parte della Direzione e fu nominato direttore dell’ “Avanti!”[15].

In Francia si collegherà con Mario Bavassano, espulso a seguito del conflitto politico tra Togliatti e “i tre” (Leonetti, Tresso, Ravazzoli), per dar vita ad un foglio di orientamento trotskista intitolato “L’Operaio”. Entrambi confluiranno poi nel PSI Massimalista[16].

Secondo la Dundovich, a fine marzo Chernomordik, dirigente della Sezione Quadri del Comintern, “riceve la richiesta di verificare le accuse che sono state mosse contro il compagno Ferro”[17]. Seguendo la traccia che porta a Chernomordik registriamo un documento pubblicato sempre dalla Dundovich nel libro Esilio e castigo nel quale si ritrova il nome di Picelli. Il documento è intitolato significativamente “Emigrazione italiana. Esclusi (o da escludere) dal partito KIK. Trotzkisti sui quali è stato comunicato alla NKVD e legati a elementi trotzkisti”[18]. Chernomordik diventa il tramite attraverso il quale le procedure di verifica avvenute a vari livelli del Partito sovietico vengono trasmesse all’NKVD, quando riguardano comunisti stranieri. La valutazione politica apre la strada al possibile intervento repressivo. La datazione di questo documento è incerta. La stessa Dundovich, come già notato da Sicuri, lo colloca nel giugno ’36 in un caso o nel 1937 in un altro[19].

Moises Chernomordik, vice responsabile della sezione quadri del Comintern.

Considerati i nomi indicati e il fatto che lo stesso Chernomordik, nel corso del 1937, finirà sotto i colpi della repressione staliniana sembra più logico datarlo tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1936.

Questo il testo riportato dalla Dundovich:

Compagno (…), porto alla vostra attenzione i seguenti legami di gruppo che si sono formati tra gli emigrati politici italiani: Baldi [Gallori] è legato a Sarti, Picelli, Negri, Salustio. Silva è legato a Cerquetti, Baldoni [Spina], forse a Sensi. Cerquetti e Sensi vogliono andare via dall’URSS, il secondo è già stato all’ambasciata italiana. Baldoni [Spina] è legato a Mariottini, Visconti [Allegrezza], Torre [Gorelli]. Torre [Gorelli] è legato a Rossetti [Baccalà], Parodi. Con alcuni di questo gruppo è legato Trovatelli. Del gruppo Silva, Baldoni [Spina], Torre [Gorelli] sono legati in uno o nell’altro modo tra loro […]. Trovatelli uno di questi giorni (dopo la perquisizione o il suo interrogatorio) ha dichiarato alla sezione italiana che adesso in Francia vi è una situazione diversa dal passato, che adesso è meglio lasciare l’URSS e andare in Francia […] Alleghiamo le caratteristiche di queste persone. Cernomordik.

Come si vede compaiono qui i tre nomi di comunisti che lavoravano alla Kaganovic sottoposti a procedura disciplinare dal Comitato di partito sovietico. A questi si aggiunge anche Negri che invece risulta impegnato presso il Soccorso rosso internazionale.

Ai fini della nostra ricerca sarebbe importante conoscere un elemento che non viene riportato nel libro della Dundovich. Di quali persone Chernomordik allega “le caratteristiche”? Avrebbe un significato diverso se queste note riguardassero solo Baldi, l’unico che risulta effettivamente escluso dal VKP(B), o anche lo stesso Picelli. In ogni caso possiamo cercare di rispondere ad un’altra domanda: a quale destino vanno incontro i segnalati da Chernomordik nel “gruppo” che include Picelli?

Di Salvatore Sallustio, che utilizza lo pseudonimo “Aldo Aldini”, sappiamo che verrà arrestato il 12 marzo 1938 e il 19 maggio la trojka dell’NKVD lo condannerà alla fucilazione. La sentenza sarà poi eseguita il 29 maggio 1938 e risulterà riabilitato nel 1956[20]. Di Faliero Focacci, vero nome di “Mario Sarti” sappiamo quanto scritto in una nota caratteristica stilata dall’ufficio quadri: “inviato in URSS dal PCI per studiare. Ha studiato un anno alla KUNMZ e (poi) alla MLS (ndr: la Scuola Leninista Internazionale), poi ha lavorato alla MLS come macchinista. Membro del VKP(B) dal 1931. Nel 1933, attraverso un compagno che conosciamo abbiamo saputo che a Firenze, dove Sarti viveva, si era diffusa nell’ambiente operaio la voce che Sarti fosse un provocatore. Il partito sino ad oggi non ha potuto appurare se questo è vero. Per questo motivo è stato allontanato dal lavoro alla MLS. Adesso lavora alla fabbrica Sarikopodsipnik (ndr: la Kaganovic). Lasciare in URSS e prendere la cittadinanza sovietica.”[21]

Negri, lavorava come traduttore presso la sezione dell’emigrazione politica della MOPR[22] e faceva anche parte del comitato direttivo della sezione italiana del Club internazionale degli emigrati “Zagorskij” fino al suo scioglimento, a metà del 1935, insieme a Picelli[23]. Il suo nome non compare nelle varie liste di vittime italiane dello stalinismo in URSS.

La storia più interessante è però quella del principale “indagato” della lista di Chernomordik: Angelo Gallori, detto “Alberto Baldi”. Si tratta di un comunista toscano che dovette fuggire in Urss dopo aver ucciso una spia dell’Ovra. Fatto per il quale era stato individuato e condannato. Benché segnalato all’NKVD, circa un anno dopo potrà recarsi in Spagna a combattere nelle Brigate Internazionali. In proposito abbiamo la scheda compilata da Pavanin il 24 gennaio 1940:

Arrivato in Ispagna il 16-9-1937 a disposizione del PCS (ndr: Partito Comunista Spagnolo), proveniente da Mosca. Il 20 settembre 1937 assegnato alle Brig. Inter. Inviato un mese alla scuola di lingua a Valencia; poi fu assegnato come osservatore ad un osservatorio d’aviazione a Madrid. Il 18 aprile fu inviato come interprete al compagno Kravchenko sul fronte dell’Est ove restò fino all’evacuazione dei volontari internazionali dalla Spagna repubblicana. (…) La nostra commissione non ha potuto controllare direttamente l’attività del compagno Baldi in Ispagna dato il lavoro particolare che egli ha svolto. Non di meno la nostra opinione su di lui è positiva.[24]

In alto a sinistra Angelo Gallori (detto Baldi) nel campo di concentramento francese di Gurs, prima di rientrare a Mosca (Archivio dell’Istituto Parri di Bologna).

Una volta ferito tornerà a Mosca dove vivrà fino al 1962, per poi rientrare in tarda età a Firenze, in quanto l’assassinio che aveva commesso non sarà oggetto di amnistia per molto tempo anche dopo la caduta del fascismo. In Unione Sovietica lavorerà per le trasmissioni italiane di Radio Mosca[25].

Interessante il fatto che il nome dei tre emigrati (Baldi, Sarti, Sallustio) compaia in una lista datata 13 marzo 1937, inviata a un tale “compagno Zirul”, tra coloro che “andranno a disposizione del PCI in Francia”[26]. Secondo la Dundovich questa lista venne stilata da Roasio, ma a marzo del ’37 Roasio si trovava in Spagna, e la sua lontananza da Mosca ormai da diversi mesi sembra incompatibile con la redazione di questo elenco. Dei tre comunisti citati, Baldi e Sarti lasciarono effettivamente l’URSS, mentre ciò non avvenne per Sallustio che verrà fucilato, come abbiamo visto.

Da notare anche che Chernomordik, a partire dall’agosto 1936, inizia a occuparsi in modo sistematico della comunità italiana. Da questa certamente non gradita attenzione, che dura alcuni mesi, emerge l’identificazione di una novantina di casi sospetti. In questa ulteriore verifica non compaiono i nomi di Picelli, di Baldi (Gallori), Sallustio e Negri, mentre è presente quello di Sarti (Focacci). Risulta invece segnalato anche in questo caso quel Luciano Visentin che era probabilmente all’origine dei pettegolezzi diffusi alla Kaganovic sulle origini non proletarie dell’ex deputato parmigiano[27].

Dalle vicende di coloro che vengono indicati all’NKVD per ulteriori indagini, possiamo dedurre che, di per sé, l’inserimento in una delle tante liste di controllo elaborate in quei mesi da soggetti diversi non implicava necessariamente di cadere vittima della repressione staliniana. A volte fu la casualità degli eventi a favorire i sospettati, se questi si potevano trovare fuori dall’Unione sovietica negli anni ’37 o ’38 o se per un qualche motivo non finivano nella rete di sospetti e delazioni intessuta dalla polizia.

Le liste stilate da Roasio e Ciufoli

Nelle complicate vicende di questi mesi, dobbiamo seguire un altro percorso di individuazione di italiani (comunisti e non) da considerare in un qualche modo sospetti o quanto meno non completamente affidabili. Antonio Roasio lavorava per conto del PCI nell’Ufficio quadri del Comintern. A lui e a Domenico Ciufoli venne affidato il compito di verificare il comportamento di tutti gli emigrati italiani dei quali si era a conoscenza. Riportiamo in proposito quanto scrive la Dundovich in Esilio e castigo:

L’operazione di indagine e verifica sulla comunità italiana prevista dalla Sezione quadri mosse i primi passi agli inizi del 1936 e, suddivisa in varie tappe a cui corrisposero diversi livelli concentrici di ispezione, durò lungo tutto l’arco di quell’anno. La prima di queste tappe vide protagonista soprattutto Domenico Ciufoli (comunemente indicato nei documenti con lo pseudonimo di Battista) che, insieme ad Antonio Roasio, compilò numerose serie di “liste di controllo”, le quali pur nella loro genericità, si rivelarono per i sovietici uno strumento di informazione estremamente utile. Le cosiddette “liste di controllo”, infatti altro non erano che lunghi elenchi, più volte riscritti e aggiornati, in cui, accanto a ogni nome, si raccontava brevemente la biografia del singolo emigrato, mettendone in rilievo le qualità o i difetti politici. Vi erano racchiuse notizie particolareggiare sulla vita e sul comportamento dal momento dell’arrivo in Unione Sovietica: luogo di residenza, luogo di lavoro, appartenenza o meno al VKP(b) oltre che al Partito comunista italiano, godimento dello status di emigrato politico, eventuale ritiro della tessera del partito e per quali motivi, persone frequentate. Ognuna di queste note biografiche si concludeva spesso con il giudizio personale del compilatore stesso della lista o di chi, in particolare, aveva avuto un maggior ruolo nella redazione di quella breve storia, cioè oltre al rappresentante del partito, del referente italiano permanente o degli informatori esterni della stessa Sezione quadri del Komintern. […] L’indagine che impegnò Roasio e Ciufoli per lunghi mesi, dal gennaio al novembre 1936, si inquadrava da un lato nella più generale operazione di verifica dei documenti di partito che, iniziata alcuni anni addietro era, ancora nel 1936, in pieno svolgimento in tutto il paese[28].

Di questa ricostruzione dobbiamo in particolare segnalare che ebbe una durata che andava da gennaio a novembre del 1936. Quest’ultimo elemento ci interessa perché si conferma che questo lavoro procedette in parallelo e separatamente da quello svolto dal Comitato di Partito della Kaganovic e che diede anche esiti diversi. Ed era anche parallelo a quello di Chernomordik che aveva un ruolo più importante di Roasio e Ciufoli all’interno della Sezione quadri del Comintern e che, come abbiamo visto, poteva segnalare direttamente dei nominativi all’NKVD.

In termini quantitativi la Dundovich ci informa che su 150 situazioni esaminate, in ben 58 casi ci furono segnalazioni negative. 10 persone vennero schedate come incerte e per 17 si chiesero ulteriori ragguagli al Comitato centrale del partito perché non si avevano informazioni sufficienti[29].

La lista di coloro per i quali vengono espresse valutazioni negative e ai quali non viene confermata la raccomandazione per l’iscrizione al partito sovietico include alcuni nomi di un certo peso o figure che avranno modo di intrecciare la biografia di Picelli. Vi si trovano infatti Francesco Misiano, “Carlo Rossi” (pseudonimo di Ottavio Pastore), Carlo Farini, Costante Masutti, Andrea Bertazzoni. Fra questi anche Luciano Visentin, ovvero l’avversario diretto di Picelli nel gruppo degli italiani della fabbrica Kaganovic. In queste liste non compare invece Picelli, così come non compaiono nessuno dei tre sottoposti a procedimento disciplinare dal Comitato di Fabbrica (Gallori, Sarti, Sallustio) né il Negri ricompreso nell’elenco di Chernomordik.

Il fatto che il suo nome non sia presente in nessuna delle liste di controllo elaborate da Roasio e Ciufoli indica che per il Partito Comunista Italiano lo scontro avvenuto l’anno precedente, in occasione del rientro in fabbrica a cui fu costretto di malavoglia, non avendo ottenuto il tipo di incarico a cui aspirava, non aveva determinato un giudizio politico negativo sul conto di Picelli.

Un francobollo dedicato a Stella Blagoeva, responsabile della sezione quadri del Comintern per i paesi latini.

Anzi, nel documento del 10 giugno 1936 intitolato “Conclusione sul compagno Ferro Carlo/Picelli Guido” si dichiarerà che: “il compagno Ferro Carlo … ha fatto domanda di prendere la cittadinanza sovietica…Il compagno Ferro è politicamente buono, si orienta bene. E’ necessario dargli la possibilità di vivere in Urss come riserva del PCI e come cittadino sovietico”[30]. Si tratta di una valutazione che non lascia ombre negative (“politicamente buono”, “si orienta bene”) e che viene sottoscritto, oltre che da Roasio e Ciufoli, anche da Stella Blagoeva. La firma di quest’ultima, una comunista bulgara figlia di un fondatore del Partito del suo Paese e collaboratrice di Dimitrov, era necessaria in quanto superiore gerarchica dei due comunisti italiani. Era infatti la responsabile della Sezione quadri dei paesi latini e il suo nome dava certamente un maggior peso alla valutazione su Picelli.

Che i dirigenti del Partito comunista non avessero rimproveri da rivolgere a Picelli lo si deduce anche dalla comparsa del suo nome ai primi posti nell’importante documento pubblico del PCI reso noto nell’agosto del 1936: il cosiddetto “appello ai fratelli in camicia nera”, che tante polemiche susciterà negli anni successivi (e anche al momento della sua pubblicazione negli ambienti dell’emigrazione antifascista)[31]. Il nome di Picelli compare in evidenza e questo sicuramente aveva una valenza politica. In un testo che, in una certa misura, apriva al dialogo con la base fascista, diventava importante avere, e attestare pubblicamente, l’avallo di colui che aveva guidato la più importante esperienza di scontro con gli squadristi negli anni dell’ascesa del fascismo. Vale la pena di notare che tra i sottoscrittori dell’appello non compare invece il nome, che pure disponeva di una certa notorietà, di Francesco Misiano che era stato segnalato nelle “liste di controllo” come non sufficientemente affidabile. Questa assenza verrà successivamente criticata dallo stesso Togliatti[32].

Anche per le liste compilate da Roasio e Ciufoli, come per quella di Chernomordik, non c’è alcun automatismo con il successivo destino di chi vi compariva. Ottavio Pastore, al quale era stata tolta la tessera del VKP(B) dal Comitato del Partito sovietico al quale afferiva, uscirà dall’Unione sovietica e continuerà una carriera politica e giornalistica nel PCI. Carlo Farini, andrà in Spagna dove sarà il rappresentante del Partito a Barcellona e come tale prenderà parte alla commemorazione di Picelli tenuta a un anno dalla sua morte.

Per completare il quadro dobbiamo tornare sull’accusatore di Picelli in fabbrica, quel “Visintini” responsabile del suo tentativo di isolamento e il cui nome corretto era in realtà Luciano Visentin. Si trattava di un triestino che era stato membro del PCI dalla fondazione e poi emigrato in URSS nel 1925. Un documento del PCI del 29 agosto del 1936 ne traccia questo quadro: “Nel 1933-1934 ha avuto legami con elementi trotzkisti: Siciliano, Merini, Grandi, arrestati dall’NKVD. Ha avuto discorsi scorretti con i compagni italiani. Scontento del Partito comunista italiano”[33]. Come si vede il giudizio che ne dà il partito italiano coincide pienamente con quanto scritto da Picelli nella lettera a Togliatti del febbraio precedente che abbiamo riportato sopra. In particolare per quanto si riferisce ai rapporti tra Visentin e il gruppo Siciliano-Merini che era caduto vittima della repressione tra la fine del 1934 e l’inizio del 1935, ma anche ai “discorsi scorretti con i compagni italiani”. Non v’è alcun dubbio che fra Picelli (“politicamente buono”) e Visentin (“legami con elementi trotskisti”) il giudizio del PCI sia nettamente sbilanciato a favore del primo. Visentin verrà poi arrestato e cadrà vittima della repressione.

Un’altra informazione importante che emerge dal documento riportato nel suo saggio dalla Dundovich, e che finora non è stata adeguatamente sottolineata, riguarda la richiesta di Picelli di assumere la cittadinanza sovietica. La questione del chiedere o meno di diventare cittadini sovietici e quindi di non essere più considerati come emigrati politici aveva attraversato e in parte diviso la comunità italiana. La sollecitazione era stata rivolta agli italiani già un paio di anni prima per favorirne una maggiore integrazione nella vita sovietica. Ma erano emersi dubbi, in quanto si temeva che diventare cittadini dell’URSS avrebbe poi ostacolato un eventuale rientro in Italia. Non sappiamo dal documento della Sezione quadri, in che momento Picelli avesse chiesto la cittadinanza sovietica. Possibile che fosse pendente da qualche mese dato che la lettera di Picelli agli esuli parmensi a Parigi dell’agosto del ‘36 lascia intendere che la richiesta di lasciare l’URSS era stata avanzata già da tempo[34].

In ogni caso, nel luglio del 1936, la situazione cambia con lo scoppio della guerra civile in Spagna. Ed è evidente che Picelli, che probabilmente aveva già chiesto di essere impiegato dal partito in qualche incarico in Francia, si presenta l’occasione per tornare sul terreno che più sentiva come proprio: quello della lotta militare contro il fascismo. In Spagna, non in Italia stavolta, ma il nemico era ancora quello. Si presentava la grande occasione per uscire da quella situazione personale che Ottavio Pastore, nella sua testimonianza del 1953, definiva come “paludosa”[35]. Tale perché non era riuscito ad entrare in una scuola militare sovietica ed erano state interrotte bruscamente le sue collaborazioni con la Scuola internazionale leninista e con il Comintern.

L’intervento di Manuilski

Per consentire a Picelli di lasciare l’URSS occorreva il via libera dell’NKVD. Sembra che inizialmente questo gli arrivi senza problemi, ma poi intervenne una qualche ragione che interruppe l’iter di autorizzazione. La richiesta aveva il visto di Togliatti (Ercoli) su un documento datato 19 settembre 1936[36], ma questo non sembrò sufficiente. Il 10 agosto Picelli scrisse una lettera agli esuli parmensi a Parigi nella quale li informava che aveva fatto richiesta di recarsi in Francia per essere in prima fila a sostenere il “fronte popolare” ed anche la “Repubblica democratica spagnola”[37]. Per poter lasciare Mosca chiese l’aiuto anche di altri emigrati politici comunisti italiani come Ottavio Pastore, che in quel momento forse non era il più adatto a sostenere Picelli visto che era finito tra i compagni considerati non del tutto affidabili e gli era stata revocata l’iscrizione al VKP(B)[38].

Il 1° ottobre si decise a scrivere una breve lettera a Manuilsky, uno dei massimi dirigenti del Comintern all’interno del quale rappresentava il VKP(B), per chiedere un suo intervento al fine di sbloccare la situazione:

Compagno Manuilski, il ritardo della mia partenza per la Spagna mi impedisce di fornire, con la sollecitudine che le circostanze esigono, il mio aiuto tecnico alle forze del governo repubblicano. Sono assolutamente convinto che le mie capacità militari, senza volerle sovrastimare, porterebbero un aiuto valido all’organizzazione e allo sviluppo delle azioni sui punti che, in queste fasi particolari della lotta, appaiono i più deboli. La prego quindi di voler far tutto il necessario affinché le formalità già avviate siano velocizzate e portate a termine nel più breve tempo possibile. (Picelli si qualifica come “membro del Partito Comunista Italiano”).[39]

Evidentemente Picelli sollecitava Manuilsky sapendo che i problemi alla sua fuoriuscita da Mosca venivano dai sovietici e che il numero due del Comintern era l’uomo di fiducia di Stalin. Certamente Manuilski aveva avuto modo di conoscere personalmente Picelli nel corso della riunione della Commissione italiana del segretariato del Comintern del giugno del 1934, alla quale entrambi erano presenti[40].

Dmitrij Manuil’skij, segretario del Comintern dalla fine del 1926 al 1943.

Il dirigente del Comintern si diede fare per sollecitare, attraverso Chernomordik, l’NKVD a pronunciarsi chiaramente “entro 24 ore” dalla sua comunicazione, come risulta da un suo appunto scritto sulla lettera di richiesta di Picelli. La risposta non tarda molto di più delle 24 ore richieste e si tratta di un sintetico documento di un paio di righe, datato 3 ottobre e indirizzato a Chernomordik[41]. Si tratta dello stesso che aveva inserito il nome di Picelli in una lista di sospetti, nel giugno precedente, ma non sembrava ora sollevare obiezioni, dal che si dovrebbe dedurre che quella segnalazione non ebbe seguito o non trovò motivazioni significative a suo carico.

Questo breve documento è l’unico testo conosciuto proveniente dall’NKVD nel quale si parla del comunista parmigiano. I servizi di polizia sovietici non hanno obiezioni alla partenza di Picelli “in generale” ma ci sono “dati” che non consentono di inviarlo per attività inerenti la “linea V”. Quali sono questi “dati” di cui dispone l’NKVD? Si può andare solo per supposizioni. Sembra da escludere che si debba considerare un suo dissenso politico verso la politica sovietica, perché un simile atteggiamento avrebbe determinato un ben altro comportamento repressivo da parte dei servizi di polizia.

Invece l’NKVD non obbietta a che Picelli lasci l’Unione sovietica ma solo al suo utilizzo nell’ambito della cosiddetta “linea V”. Di questa indicazione sono state date finora due diverse interpretazioni che a mio parere non risultano soddisfacenti. Per Giancarlo Bocchi, a Picelli verrebbe “vietato” di “rappresentare la linea del Comintern”[42]. Si tratterebbe di un’indicazione piuttosto bizzarra, dato che non si capisce quale altra linea politica avrebbe dovuto seguire un militante comunista al di fuori dell’Unione Sovietica. La Dundovich traduce che non dovrebbe avere incarichi per conto dell’IKKI[43], traslitterazione della sigla russa del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista. Ma la formulazione letterale del documento non fa riferimento a incarichi quanto ad una particolare sfera di attività e la sigla IKKI non compare.

Sappiamo che l’NKVD utilizzava la definizione di “linea” per raggruppare un certo tipo di attività: ad esempio alla “linea D” corrispondono attività di sabotaggio e sovversione nelle linee nemiche[44]. Per ora non ci è stato possibile trovare una risposta a questo interrogativo. È presumibile che si tratti di una qualche attività di tipo militare.

Picelli non era adatto per questo tipo di attività? Le sue esperienze e competenze militari acquisite nel tempo non erano sufficienti? Non abbiamo una risposta definitiva su questo punto. Consideriamo che in quelle settimane si stava sciogliendo il nodo del sostegno che l’Unione sovietica e il Comintern avrebbero potuto fornire alla Spagna repubblicana. Siamo all’inizio di ottobre (il documento dell’NKVD porta la data del 3) e solo da una decina di giorni Stalin e la dirigenza sovietica hanno deciso di incrementare in modo significativo il supporto militare ai repubblicani e il Comintern si è assunto il compito di favorire la costituzione delle Brigate Internazionali.

Manuilski, l’uomo di fiducia di Stalin, interviene a favore di Picelli. Chernomordik, che pure lo aveva inserito nella lista di persone sospette di trotskismo o di rapporti con trotskisti a giugno, ma non quando, da agosto inizia ad esaminare in dettaglio la comunità italiana, non solleva obiezioni, e l’NKVD approva la sua uscita dall’URSS limitandosi ad escluderne l’impiego per un qualche tipo di attività militare.

Picelli trotskista?

L’unica traccia di cui disponiamo, fino a questo momento, di qualche labile sospetto sull’affidabilità politica di Picelli è quindi quel documento firmato da Chernomordik nel giugno 1936, che trova probabilmente la sua ragion d’essere nel protocollo del “processo” effettuato dal Comitato di fabbrica in gennaio, in cui per altro Picelli non è direttamente imputato. Sembra di poter escludere che a ottobre, l’NKVD abbia potuto dare il via libera a Picelli, rispondendo alla sollecitazione di Manuilski, se fossero esistiti seri dubbi sulla sua fedeltà alla politica sovietica.

Secondo quanto scrive la Dundovich, questo sospetto avrebbe però continuato a circolare a Mosca anche qualche anno dopo la sua morte. Nel suo saggio su Picelli a Mosca, la storica scrive: “L’etichetta di oppositore gli sarebbe rimasta a lungo, come dimostra un documento rinvenuto nel fascicolo processuale di Ugo Citterio, emigrato politico arrestato nel 1940”[45]. Il testo richiamato dalla Dundovich però sollecita alla lettura un immediato interrogativo. Secondo il dispositivo della sentenza relativa a Citterio:

Nel 1937 ZITERIO [Citterio] attraverso il CC della MOPR lasciò l’URSS diretto in Spagna, da dove dopo essere stato ferito fu inviato in Francia – dove si legò ai trockisti controrivoluzionari e provocatori: ANSELMI, GARATI e PICELLI, fu convocato dalla polizia francese e mantenne legami con i suoi parenti residenti a Milano attraverso il cugino ZAMFRINI Alberto, residente in Svizzera, che fino a 3 volte al mese passa illegalmente la frontiera svizzera e italiana[46].

La tempistica evidentemente presenta un problema perché Citterio potrà raggiungere la Spagna solo nell’ottobre del 1937 e dopo essere stato ferito verrà inviato in Francia nell’agosto del 1938. Tornerà a Mosca l’anno successivo. Quando Citterio si trova in Francia, Guido Picelli è morto da più di un anno.

Se si rilegge la sentenza alla luce dell’intero verbale del processo, dove si riscontra il dialogo che riportiamo, la valutazione di questo passaggio cambia sensibilmente:

Domanda: In quali paesi è stato a parte l’URSS, la Francia e l’Italia e a che scopo?

Risposta: Nel 1934, passando illegalmente la frontiera italiana, rimasi cinque o sei giorni in Svizzera. Nel 1937-38 fui in Spagna, nel 1938-39 in Francia. In Spagna e in Francia svolgevo incarichi del partito.

Domanda: Con quali persone escluse dal partito per trockismo e provocazione s’incontrò in Francia nel 1938-39?

Risposta: Nel 1938 a Parigi incontrai gli esclusi dal partito comunista Garati e Picelli Paolina. Entrambi hanno vissuto in URSS. Garati dall’URSS è stato espulso, per cosa siano stati esclusi dal partito non so [47].

La sentenza riprende lo stesso contenuto del passaggio dell’interrogatorio ma si limita a riportare il cognome Picelli. Ma risulta evidente che i contatti avuti da Citterio a Parigi riguardavano Paolina Picelli e non, evidentemente, Guido. Secondo questa dichiarazione, Paolina a quel tempo sarebbe stata espulsa dal PCI per ragioni che Citterio non è in grado di spiegare. Garati è lo pseudonimo di Costante Masutti, suocero di Emilio Guarnaschelli. Successivamente la vedova di Picelli chiederà al regime fascista di rientrare in Italia e la sua domanda verrà accolta.

Pertanto non trova riscontro l’affermazione che di Picelli si continui a parlare come di un “trotskista” a Mosca, dopo la sua morte. Cade quindi uno degli elementi che facevano aleggiare sul protagonista delle Barricate di Parma la fama di dissidente agli occhi della polizia sovietica.

[Fine Prima parte]

Leggi anche “Guido Picelli e l’amico sconosciuto”

Leggi anche Finalmente scoperto l’assassinio di Picelli?

Leggi anche Guido Picelli da Mosca a Mirabueno

* * *

[1] T. F. (in collaborazione con S.G.), En recuerdo de la familia Grossi, Tierra y Libertad, ottobre 2018.

[2] La letteratura sul terrore staliniano è sterminata. Ai fini della presente ricerca ho trovato particolarmente utili i seguenti lavori: Bettanin, Fabio, Il lungo terrore. Politica e repressione in Urss 1917-1953, Editori Riuniti, Roma, 1999; Chase, William J., Enemies Within the Gates? The Comintern and the Stalinist repression, 1934-1939, Yale University Press, New Haven-London, 2001; Getty, J. Arch e Naumov, Oleg V., The road to terror. Stalin and the self-destruction of the Bolsheviks, 1932-1939, Yale University Press, New Haven-London, 2010.

[3] Picelli, Guido, La mia divisa, a cura di William Gambetta, BFS, Ghezzano (PI), 2021, p. 154.

[4] Corneli, Dante, Il redivivo tiburtino, La Pietra, [1977].

[5] Il verbale è riprodotto in Bocchi, Giancarlo, Il ribelle, IMP, 2013, p. 106. Ringrazio Marco Raffaini per la traduzione.

[6] Dundovich, Elena, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, in Storia di ieri, a cura di Fiorenzo Sicuri e Roberto Montali, Diabasis, Parma 2011.

[7] Il testo è (parzialmente) riprodotto in G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 106

[8] E. Dundovich, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, cit.

[9] La dichiarazione di voto, in forma scritta, è riprodotta in Sicuri, Fiorenzo (a cura di), Guido Picelli, Centro di documentazione Remo Polizzi, Parma, 1987, p. 79.

[10] Fortichiari, Bruno, Comunismo e revisionismo in Italia. Testimonianza di un militante rivoluzionario, Mimesis, Milano, 2006, p. 105.

[11] G. Picelli, La mia divisa, cit., p. 122.

[12] Masutti, Nella (a cura di), Una piccola pietra di Emilio Guarnaschelli, Garzanti, p. 272

[13] N. Masutti, (a cura di), Una piccola pietra di Emilio Guarnaschelli, cit., p. 74

[14] G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 103.

[15] Landi, Giampiero (a cura di), La fine del socialismo? Francesco Saverio Merlino e l’anarchia possibile, Atti del Convegno, Imola 1 luglio 2000, Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo.

[16] Casciola, Paolo, Pietro Tresso (Blasco) and the Early Years of Italian Trotskysm, in “Revolutionary History”, vol. 5, n. 4, primavera 1995, p. 66.

[17] E. Dundovich, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, cit.

[18] Dundovich, Elena, Esilio e castigo, Carocci, Roma, 1998, p. 169.

[19] Sicuri, Fiorenzo, Il guerriero della rivoluzione, Uni.nova, Parma, 2010, p. 251.

[20] E. Dundovich, Esilio e castigo, cit., p. 218.

[21] Ivi, p. 202-3.

[22] Dundovich, Elena – Gori, Francesca – Guercetti Emanuele, Reflections on the Gulag, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a. XXX, Milano, 2001, p. 536.

[23] Ivi, p. 540.

[24] RGASPI, 545.6.495.

[25] Zappi, Graziano “Mirco”, Ricordi di un comunista italiano, parte III, “Slavia”, anno XVIII, n. 2, pp. 176-177.

[26] E. Dundovich, Esilio e castigo, cit., p. 174.

[27] Ivi, p. 151-152.

[28] Ivi, p. 134-136.

[29] Ivi, p. 147.

[30] E. Dundovich, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, cit.

[31] Spriano, Paolo, Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino, 1976 (1° ed. 1970), p.66.

[32] Spriano, Paolo, Introduzione a Togliatti, Palmiro, Opere 1935-1944, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. XLIX.

[33] E. Dundovich, Esilio e castigo, cit., p. 222.

[34] G. Picelli, La mia divisa, cit., p. 141.

[35] Pastore, Ottavio, Guido Picelli eroe della libertà, in “L’Eco del Lavoro”, 23 gennaio 1953.

[36] Il documento è riprodotto in G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 108.

[37] G. Picelli, La mia divisa, cit., p. 141-142.

[38] O. Pastore, Guido Picelli eroe della libertà, cit.

[39] Il documento è riprodotto in G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 109.

[40] Ferrari, Franco, Un intervento inedito di Guido Picelli al Comintern, 27 gennaio 2022, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=49304

[41] Il documento è riprodotto in G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 110.

[42] G. Bocchi, Il ribelle, cit., p. 110.

[43] E. Dundovich, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, cit.

[44] Volodarski, Boris, El caso Orlov. Los servicios secretos sovieticos en la Guerra civil espanola, Critica, Barcelona, 2013, p. 142.

[45] E. Dundovich, Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, cit.

[46] Dundovich, Elena – Gori, Francesca – Guercetti Emanuela, Reflections on the Gulag, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a. XXXVII, Milano, 2001, p. 496.

[47] Ivi, p. 481.