Tre anni fa la chiusura della Froneri-Nestlè

di Alessandro Grossi

Non è per una sciocca o masochistica volontà di riallargare una ferita non ancora del tutto chiusa, ma le vicissitudini che hanno duramente attraversato la vita di tanti lavoratori in questi assurdi, ultimi tempi mi hanno cinicamente ricordato che sono trascorsi tre anni da quando i lavoratori della Froneri-Nestlè (ex Tanara e Italgel) e la città di Parma hanno perso un pezzo di storia, un patrimonio di vita vera, di esperienza e competenza, di operosità e di cuore: la fabbrica del gelato.

Una vicenda preceduta da tante altre simili e seguita da altrettante, se si vuole ancora più tragiche, che hanno visto o vedranno, se non in rari casi, un’unica soluzione: la chiusura. A conferma di ciò il paese si è ormai contraddistinto per avere questa predisposizione a lasciar prevalere le ragioni del profitto sulle ragioni del bene comune, trascurando dettati costituzionali e tenuta socio-economica dei territori.
Sì è vero, ci abbiamo quasi fatto l’abitudine e queste banali affermazioni hanno il sapore di una minestra riscaldata. Le parole usate e spese in ognuna di queste vertenze hanno lasciato una traccia? Hanno caratterizzato concretamente il “dopo”, oltre che il “durante”? Parole come presidio, solidarietà, riconversione, garanzie, occupazione hanno trovato consistenza? Si sono riempite di contenuti? Hanno avuto uno sbocco nella realtà dei mesi e degli anni succedusi? La risposta, almeno per quanto concerne Parma, sta tutta in una domanda: quante taniche di inchiostro (vero o virtuale) si sono sparse per ricordare ai parmigiani che quel pezzo pulsante di città è stato inesorabilmente spento, ridotto a brandelli, razziato, desertificato?
Poche gocce, solo poche gocce, per far sì che un colpevole oblio oscurasse la storia di donne, uomini, valori e lavoro. No, si doveva dimenticare, si doveva lasciare che il destino segnato dalle superiori e intoccabili leggi di mercato si compisse; non ci si doveva nemmeno chiedere: “ma che ne sarà, che ne è e, alla fine, che ne è stato della fabbrica di via Bernini 32? Che sorte hanno avuto quei lavoratori?”. Sì, quei lavoratori. Quelli del presidio, delle manifestazioni popolari, dei tavoli istituzionali, quelli che si fidavano e che si sono logorati nell’attesa.
Era come se dovesse affermarsi, una volta per tutte, un modello economico, ma non solo, che, non riconoscendo più la buona contrattazione e con essa le conquiste normative, sociali e salariali, arrivasse a negare anche a Parma la civiltà del lavoro; era come se si dovesse impedire che Parma continuasse ad essere terreno impraticabile per queste forme di rapina legalizzate, mascherate neanche tanto da necessarie e salvifiche azioni imprenditoriali.
A spegnimento degli impianti avvenuto, non è stato nemmeno difficile occultare la lenta agonia dello stabilimento, in quanto defilato, lontano da sguardi inopportuni, essendo collocato, come si diceva da ex ragazzi del Pablo, ” dietro la ferrovia”.
A inizio gennaio 2018, a cancelli chiusi e quindi a botta ancora calda, ci si aspettava dalla città un abbraccio, un segno tangibile di vicinanza, ci si aspettava che la città si stringesse ancor più alla fabbrica e ai suoi lavoratori. Si vociferava addirittura di una possibile candidatura al Premio Sant’Ilario, quale riconoscimento per il ruolo unificante esercitato da tanti cittadini e lavoratori durante la vertenza e quale dimostrazione di solidarietà concreta e di aperto sostegno da parte della città tutta, ma come ci ricorda la cronaca di questi ultimi giorni andò in altro modo.
Da allora a oggi solo il ricordo di un’aria pesante che impregnava le relazioni tanto personali quanto istituzionali e di un’atmosfera cupa, per non dire di peggio, che gravava sull’area di via Bernini sia durante la fase della sua vendita che durante le operazioni di smantellamento.
Rimane il rammarico di non essere in condizione di dare un consiglio utile a chi, malauguratamente, si venisse a trovare sullo stesso baratro e di essere solo in grado di portare una sempre doverosa e opportuna, ma il più delle volte sterile, solidarietà.
E allora buona Befana e buon Sant’Ilario a tutte le colleghe e a tutti i colleghi che tre anni fa si sono ritrovati la calza piena di carbone senza meritarselo.