Una voce dal carcere nell’emergenza sanitaria

Detenuti sul tetto del carcere di San Vittore a Milano (febbraio 2020).

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la testimonianza di un operatore del carcere di Parma (ndr).

Un istituzione totale come il carcere non si concilia molto con l’idea di cura e sostengo alle persone; una delle grandi contraddizioni della nostra società sta nella linea sottile fra cura e pena, fra riscatto e punizione, educazione e ribellione. Lavorare in un istituto di pena è, già in condizioni ordinarie, vissuto con pochi mezzi, isolati, con fatica ad accedere ad una pausa pranzo e a del cibo decente, e con i servizi igienici al limite della norma.

Il luogo è sempre stato considerato pericoloso e in questo momento di buio, in cui neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanità dà indicazioni chiare a noi operatori, l’essere umano può mostrare un aspetto sconosciuto ai più (rivolte, suicidi, etero aggressività). Il carcere, nonostante ciò, non è considerato un luogo ad alto rischio, i contagi sono legati al personale che viene dall’esterno e i detenuti sono più protetti, in teoria, della popolazione che circola in strada.

In questo momento le condizioni di lavoro di tutti noi diventano estreme e chi rimane in servizio si sente come un sopravvissuto. In alcuni è scattato un sentimento di autocelebrazione eroica ai limiti del rischio, in altri paura e sgomento. La stanchezza e la tensione sono percepibili ogni mattina e a tutto questo non ti preservano certo dei presidi come la mascherina e il gel antisettico, o l’infermiere della protezione civile all’ingresso che misura la temperatura corporea.

Attualmente le mascherine sono centellinate, c’è chi se le auto-produce in casa, chi le ricicla, i guanti sono pochi e quel gel che tutti cercano ma pochi hanno… come se fosse salvifico.

Un istituto di pena come quello di Parma è un luogo di commistione, tante persone, circa 600 detenuti di varie etnie, 350 agenti per turno, 1200 operatori sanitari che nonostante la pandemia devono ancora lavorare e preservare i pazienti/detenuti dall’essere infettati dal fuori e di non infettarsi fra di loro. 

Come professionista della salute mentale mi dà preoccupazione più la menomazione che il virus può agire sulle nostre menti e vite lavorative.

Chiunque lavora in ambito sanitario deve saper fronteggiare un’“urgenza” ma in queste settimane si sente parlare di guerra, “la lotta al virus”, noi stiamo cercando una cura come sempre, ci occupiamo di affrontare le difficoltà, la malattia, il disagio e lo stigma, non di fare battaglie.

Stiamo cercando di fare appello alla capacità di ogni lavoratore di agire con un “ordine di priorità”. Purtroppo non è cosi facile mantenere la mente “saggia”. In queste settimane ho assistito a litigate tra operatori per le mascherine, al contendersi le più protettive in maniera egoistica rispetto ai colleghi più esposti. 

I detenuti stanno vivendo attraverso i media quello che accade e ne subiscono la violenza, la disinformazione e la paura incrementando la preoccupazione per le proprie famiglie fuori.

Le giornate nere sono state quelle delle rivolte negli altri Istituti.

Modena. 14 morti. Quelle persone avevano una storia, un nome, dei progetti di migrazione fallita, una famiglia lontana e dei corpi pieni di dolore.

Chi dei detenuti trasferiti dopo le rivolte è arrivato da noi ha portato con sé ematomi, stanchezza e silenzio. Come in punizione, colpevoli di “aver perso la testa”, alcuni di loro sono insonni o sognano guerriglia.

M: ” Sono in Bangladesh a lottare per Il Re… Ma io sono marocchino non capisco perché sono lì a combattere per loro e a morire…”. Non ci vuole certo Freud per sentire il senso di quanto quelle ore fra fuoco e fiamme abbiano sconvolto alcuni di loro. In esistenze così squilibrate perdere la strutturazione del sé, delle regole e del poco che ti mantiene,  inghiottiti dal gruppo, rischia di far crollare tutto. Con questo non giustifico affatto la distruzione che hanno messo in atto ma tento di guardare oltre e andare avanti, rimettere a posto i cocci, ricostruire e riconciliare.

E poi ci sono loro, i detenuti con più fermezza, con più anni di detenzione sulle spalle, che tengono la calma, che hanno un rapporto dialettico con se stessi e sono capaci di mediare. Loro potrebbero insegnare a noi “liberi” come si sopravvive in 3 metri per 2 anche se il costo può essere alto… l’alienazione, il delirio, la psichiatrizzazione del dolore.

Solo attraverso le loro storie posso dire quali sono le condizioni in cui operiamo, già nel sistema della quotidianità ordinaria e ancora di più oggi in questo tempo. Il carcere è la cartina di tornasole della nostra società. Come Cassandra, ha visto per primo la necessità di creare dei manicomi per le persone ammalate,  il dramma delle tossicodipendenze e dell’HIV negli anni ‘80, della migrazione e della crisi social-economica, e oggi la paura esasperata del covid.

Pertanto i presidi importanti a mio/nostro avviso stanno nel sapere, nella conoscenza. Il nostro mira ad essere un lavoro eterotopico. Io non porto una divisa ma ho scelto di fare del sapere il mio abito, e in questi giorni solo lo stato del conoscere può dare senso e tranquillizzare, solo un sapere autorevole può essere presidio psicologico nel lavoro.

Non dobbiamo restare soli.