di Sofia Bacchini
Sabato 7 ottobre ero a Betlemme, a casa della mia amica Nur, mi ero svegliata presto perché nel pomeriggio dovevo rientrare in Italia, stavo preparando i bagagli. Nur abita in un campo profughi, uno dei tre presenti i città, uno tra i 27 della Palestina occupata, uno tra i 32 presenti in Siria, Libano e Giordania. Questi campi sono nati insieme all’esodo dei rifugiati palestinesi in fuga dall’occupazione militare israeliana del 1948: anno diventato periodizzante e contestato, ricordato da una parte come la nakba, la catastrofe, in cui venne perso lo stato e iniziò il genocidio della popolazione araba; dall’altra parte, celebrato come l’anno di fondazione dello stato ebraico.
In Israele esiste una legge per la quale il 15 maggio è vietato esporre simboli di lutto per non guastare il clima gioioso dei festeggiamenti nazionali. I campi profughi all’inizio erano tende, dovevano essere una soluzione temporanea, in fondo Beit Awa, al Walajah e gli altri villaggi occupati distavano pochissimi chilometri, con il cessate il fuoco e l’intervento della comunità internazionale si sarebbe potuto finalmente tornare a casa. Ma nel frattempo le tende sono diventate case rudimentali, le case rudimentali condomini improvvisati, i bambini sono diventati vecchi. E Nur, la sua famiglia, e altri cinque milioni di persone vivono ancora lì.
Erano circa le otto quando abbiamo sentito e visto i razzi arrivare dalla Striscia di Gaza: le sirene, le esplosioni, le scie bianche nel cielo. Hanno cominciato ad arrivare le prime notizie, a circolare i primi video, amici e famigliari a chiamare dal resto della Palestina occupata. «È la prima volta, la prima volta…» continua a ripetermi Nur: la prima volta che si vedono scene simili, le barriere di Gaza abbattute, l’esercito israeliano allo sbaraglio, un effimero e miracoloso momento di presa di parola. Una parola che è diventata un urlo di rabbia per poter farsi sentire. «La guerra è iniziata», mi scrive in un messaggio il mio amico Samir.
Dopo questo primo momento di confusione, il nostro pensiero è andato subito al marito di Nur, da gennaio detenuto in un carcere israeliano. È uno dei 967 palestinesi (dato del marzo di quest’anno, il più alto dalla Seconda Intifada dei primi anni Duemila) trattenuto sotto il regime della detenzione amministrativa, ovvero in assenza di un processo, di un capo di imputazione preciso, di una data di fine della sua carcerazione che può prolungarsi di sei mesi in sei mesi a discrezione esclusiva di un tribunale militare israeliano. Sostanzialmente, in ostaggio. Dovevamo sentirlo quella mattina, avevamo un appuntamento telefonico. Non ha mai chiamato, e nel momento in cui sto scrivendo, a più di una settimana di distanza, non abbiamo ancora ricevuto sue notizie.
«Vorrei che partissi subito per l’aeroporto, se qui chiudono tutto non riuscirai più a uscire dalla città», mi dice Nur preoccupata. Betlemme, come tutte le altre città della Cisgiordania, è circondata da check-point controllati dall’esercito israeliano, per poter entrare e uscire i palestinesi necessitano di un permesso speciale che viene accordato solo per motivi lavorativi. È un sistema di controllo della mobilità interna sancito dagli accordi di Oslo del 1994, quando la Cisgiordania venne suddivisa in diverse aree sottoposte al governo esclusivo dell’Autorità Nazionale Palestinese oppure congiunto alla legge militare israeliana. Gerusalemme da qui dista otto chilometri, la sera ne vediamo le luci dall’altro lato della vallata. Nur non ci va da quindici anni.
Chiamo l’ambasciata italiana un paio di volte nel corso della mattinata ma non sanno darmi comunicazioni ufficiali, sono completamente allo sbaraglio, sento la voce concitata della funzionaria dall’altra parte del telefono, sento la sua paura di fronte a qualcosa di mai visto prima e forse anche impensabile. Un amico di Samir può portarmi con il suo taxi abusivo targato Israele direttamente all’aeroporto di Tel Aviv. Cominciamo a girare per la città, tutti i check-point sono chiusi, l’unico aperto è quello sulla strada costruita di recente per collegare le colonie costruite intorno a Betlemme con la strada per Gerusalemme; ai lati di questa strada ci sono speciali barriere per impedirne la vista o il lancio di oggetti. Percorriamo poche centinaia di metri in più di due ore, mentre i soldati israeliani si aggirano nervosi tra le macchine incolonnate e le perquisiscono accuratamente una ad una. Finalmente riusciamo ad attraversare i controlli, le strade principali verso l’aeroporto sono quasi vuote. Samir mi scrive che dieci minuti dopo il nostro passaggio quel check-point è stato chiuso perché vi è stato ucciso un palestinese.
Arriviamo in aeroporto, prima ancora di raggiungere l’area degli imbarchi io e Walid, il mio autista improvvisato, veniamo interrogati, nuovamente perquisiti, i bagagli passati negli scanner, una soldatessa tenta anche di prendermi il telefono. «Qualcuno ti ha messo qualcosa nella borsa? Qualcuno ti ha chiesto di trasportare qualcosa?», nonostante abbia documenti e permessi Walid è palestinese, questa è la prassi. Arrivo al terminal 3 giusto in tempo per scoprire che il mio volo è stato cancellato, così come quello delle centinaia di persone che si accalcano di fronte ai monitor, ma questa è un’altra storia. Io potevo partire. Walid avrebbe ripercorso la strada a ritroso sperando di riuscire a rientrare, Nur era rimasta nella sua casa nel campo profughi di fianco al telefono, in attesa di una chiamata, in quello “stato di morte, sia lenta che improvvisa” al quale sono condannati i palestinesi, come ci ricorda Judith Butler.
Ho provato a raccontare in un altro modo un piccolo pezzo di quella giornata di sabato 7 ottobre, non attraverso l’eccezionalità della guerra ma attraverso l’eccezionalità del quotidiano. Il terrore è come ci stanno raccontando gli eventi di questi giorni, il terrore sono il divieto di manifestare, di esibire una bandiera, il terrore vero è annullare la premiazione di una scrittrice palestinese.
«Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo» (Frantz Fanon, I dannati della terra).