I fascisti, alla fine, sono come la mamma

di Marco Severo

C’è un fascista che ci invia spesso messaggi. Li invia a noi membri di una chat di ex universitari, una chat già salita alla ribalta per la serata paninara promossa dai negazionisti delle Barricate di Parma (LEGGI). Anche allora il fascista ci inviò un Whatsapp di premura: domani sera tutti alla presentazione del libro contro le Barricate, e poi via a sfondarsi di salamella made in Italy. Nessun altro in chat è fascista. Ed è appunto ciò che rende la faccenda interessante.

Stavolta ad esempio braccio di ferro (“testa rasata” no, mi disse un giorno: poco preciso) ci ha invitato a “La cena del 28 ottobre”. L’articolo determinativo “la” non è un errore: trattasi di una cena ben nota, proprio quella cena, non di una cena qualsiasi. Tuttavia, a scanso di equivoci, a margine della locandina – in elegante black edition – si avvisa che “è gradita la camicia nera”, benché sembra vadano bene anche i denti da vampiro e il cerchietto con le corna.

Dal manifestino si apprende altresì che il ricavato servirà per pagare le spese legali “di militanti che amano l’Italia”. Ringraziamo il vecchio fascista, imperterrito e premuroso, ma non ci serve niente, grazie. Italia piaceva a tutti, non vogliamo soldi per questo. Nel mio paese, Penne, in Abruzzo, Italia era la moglie di Giovanni detto “il Galluccio”, faceva le pizze buone (non le migliori ma le più popolari fra gli adolescenti), sorrideva sempre nel suo grembiule turchese un po’ da infermiera e si destreggiava fra nugoli di ragazzini delle medie e, insieme, agricoltori, operai e cacciatori del contado con agile equilibrismo interclassista.

Piuttosto, il fascista potrebbe ricomprarmi il libro che gli prestai. Era un libro molto bello di Nicola Criniti, docente di Storia romana dell’Università di Parma. Vi si parlava della vita quotidiana a Roma antica, di donne vecchi e bambini. Lo prestai volentieri al fascista, pensai che in fondo il fascista avrebbe apprezzato le sfumature. Nell’antica Roma, per dire, il braccio ogni tanto lo abbassavano nella vita quotidiana. Gli dissi “è bello, io l’ho divorato”. Me lo restituì e imparai che il linguaggio figurato non è il forte dei fascisti: al libro mancavano vari pezzi, negli spigoli e in costa.

A quel tempo vedevo il fascista impegnatissimo. Il giovane patriota riceveva per posta involti artigianali da cui sfilava locandine e ciclostilati che poi andava a distribuire, sudatissimo e con il rantolo, in certe notti d’estate. Andava e veniva dal pensionato studentesco con gran lena, la rivoluzione contro la plutocrazia pareva fosse roba di ore ormai. Ingollava al volo cordon bleu e Coppa Malù che la Parmalat ci mandava scadute e ripartiva con la fanzine unta sotto l’ascella bisunta. Sempre stato un gran faticatore, il fascista. Generoso e abnegante (oltreché negante).

Ancora oggi i suoi messaggi sono pieni di urgenza e sollecitudine, per quanto regolarmente privi di riscontro di pubblico. Solo un incongruo cuoricino, talora, ne contrappunta l’invio in chat. Si sospetta fra noi una subdola presa per il culo.

A volte ci scrive di una cinghiata di gruppo alla quale ci vedrebbe tutti ben volentieri. Altre volte ci suggerisce documentatissimi saggi sul pensiero unico in merito “a ‘sti froci di merda che ci vogliono tutti ricchioni”. Ci chiama legionari e non disdegna “meme” o vignette, come quella in cui un ragazzo africano sorridente è definito “felice perché ha la camicia nera”. In genere, però, si limita a invitarci a serate neganti in cui si nega quel che c’è da negare, certo: da Sergio Japino all’ora solare, dallo strolghino alla pianola Bontempi (le Barricate, s’intende, sono state un punto d’arrivo).

A dirla tutta, però, siamo affezionati a braccio di ferro. In chat non siamo fascisti, appunto. Perciò i messaggi di braccio fascista allenano in noi l’indulgenza. Sono un punto di mezzo fra l’ora di Religione e quella di Educazione civica. Mobilitano risorse insospettabili, per certi aspetti persino imbarazzanti.

I Whattsapp del legionario sono come le telefonate di mia mamma che mi dice “metti su Raitre ché fanno vedere Mussolini”. Magari in quel momento sono presissimo da altro, come ad esempio leggere l’ultimo Cazzullo o ascoltare i Ken la fen, o seguire un collegio docenti online. Ma mia mamma ci tiene a me: “Metti, metti: su Raitre c’è Mussolini che raccoglie il grano”. Là per là mi indispettisco, salvo, in seguito, sorprendermi a rispondere “va bene mamma, grazie per aver pensato a me!”.

Mia mamma è rimasta a quando avevo 15 anni e guardavo Superquark. Quando ci vediamo mi aggiusta ancora il colletto della polo, poi mi chiede: “Hai visto Mussolini?”. Non è una fissa, è amore.

Per il fascista vale lo stesso discorso. Diamo tempo al tempo. Tra un paio d’anni braccio di ferro ci dirà anche lui di asciugarci bene i capelli e non fare il bagno prima delle 16.

Alla cena del 28 ottobre, entrando, non gli fregherà più del colore della camicia. Dirà solamente: “Metti bene ‘sto colletto!”.