Gli indicatori demografici: indice di fecondità

di Francesco Antuofermo

Con questo secondo articolo, proseguono gli approfondimenti sul rapporto tra demografia e politica. Questo il link al testo introduttivo (ndr).

Partiamo dal parametro dell’indice di fecondità, perché i dati sul calo demografico diffusi negli ultimi tempi hanno suscitato allarmismi e proposte bizzarre monopolizzando i dibattiti degli esperti.

L’ISTAT definisce “indice di fecondità” il numero medio di figli per donna. Ossia “il numero di figli che una donna metterebbe al mondo nel caso in cui, nel corso nella propria vita riproduttiva (e in assenza di mortalità nel corso della stessa), fosse sottoposta al calendario di fecondità (sotto forma di tassi specifici di fecondità per età) dell’anno di osservazione” (cfr. il Report delle previsioni demograficge del 2021 dell’Istat).

L’indice di fecondità è un indicatore molto significativo: affinché si abbia un’espansione della popolazione occorre che esso sia superiore a 2. Se fosse pari a 2, la popolazione sarebbe stazionaria e quindi non aumenta né diminuisce; un indice inferiore a 2 indica che la popolazione si trova in fase di decrescita e le nascite non compensano la morte dei due genitori.

Secondo gli ultimi dati ISTAT, “la popolazione residente in Italia al 1° gennaio 2023 è di 58 milioni e 851mila unità, 179mila in meno sull’anno precedente, per una riduzione pari al 3‰”.

Il calo della popolazione è frutto di un andamento demografico che vede i morti prevalere sulle nascite: i decessi sono stati 713mila, le nascite solo 393mila e questa differenza non è stata compensata dall’arrivo dei migranti dall’estero che si è mantenuto allo stesso livello degli anni passati, in barba a tutti gli allarmismi creati dai ministri di questo governo.

Per il 2022 si è toccato un nuovo minimo storico, con un saldo naturale di meno 320 mila unità. L’indice di fecondità è tornato a scendere, attestandosi a 1,24 figli per donna, che conferma la tendenza alla riduzione dei progetti riproduttivi, già in atto da diversi anni nel nostro Paese.

Di fronte a questo scenario il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, per contrastare il calo delle nascite ha proposto la detassazione delle famiglie con prole, introducendo una detrazione di 10mila euro all’anno per ogni figlio, che si andrebbe ad aggiungere all’assegno unico.

Agli operai e alle classi più povere si sono drizzate le antenne. Hanno subito preso la calcolatrice. 10 mila euro a figlio significa che ogni lavoratore potrebbe detassare il suo reddito nel caso avesse due figli di ben 20.000 euro. Sarebbe un buon colpo, una decisa spinta verso l’uscita dall’inferno della sussistenza. Un’ottima ragione per infilarsi sotto le lenzuola e darci dentro per la gioia del corpo e della mente abbandonando ogni precauzione. Ma purtroppo i conti non si fanno così. Detrazione significa che si potrà togliere dalle tasse da pagare una cifra fino a diecimila euro per figlio ma solo se si è maturato un credito fiscale che ne permette il recupero dell’imposta. L’inganno diventa subito evidente.

Se il livello del tuo reddito non è sufficientemente elevato tale da produrre una quota rilevante di imposte da pagare, allora la detrazione non matura e quindi non ti spetta. Se ne ricava che quanto più alto è il tuo reddito dichiarato, tanto maggiore sarà la detrazione per i figli a carico. Per dirla con Giorgetti e i geni della Lega, quanto più sei benestante tanto più riceverai dallo stato un premio se ti decidi a mettere al mondo dei figli perché i pargoli dei ricchi, si sa, valgono di più. Una misura quindi che andrebbe a vantaggio dei più facoltosi a dimostrazione di quali interessi di classe il governo intende tutelare.

Purtroppo per Giorgetti, lo studio della popolazione ha dimostrato nel corso della storia che maggiore è il reddito delle famiglie, minore è l’indice di fecondità. Quindi le classi più ricche che hanno raggiunto un tenore di vita elevato, mantengono una bassissima propensione a procreare, tendenza che non cambia neppure qualora venissero incentivati con sgravi fiscali generosi o peggio, prendendoli a bastonate.

Dallo studio delle serie storiche emerge subito una verità lapalissiana: l’indice di fecondità non dipende dagli incentivi economici. Se noi portassimo le classi più povere a raggiungere un livello di benessere medio alto, anziché avere un incremento della natalità otterremmo l’effetto contrario. La ricchezza è alla base di tante forme di devianza sessuale, ma non incentiva l’incontro tra spermatozoo e ovulo. Paradossalmente, ma diciamolo sottovoce, se il ministro volesse davvero incentivare le nascite dovrebbe operare per ridurre in povertà assoluta gran parte della popolazione, come in alcune zone dell’Africa subsahariana.

In alcuni paesi del nord Europa, come ad es. la Svezia, questo rapporto opposto tra livello del reddito e indice di fecondità è stato attenuato grazie ad una faraonica politica di welfare che prevedeva tra l’altro, la concessione di un’abitazione gratuita o a costi contenuti per le giovani coppie; la riduzione delle forme di lavoro precarie a vantaggio di posti di lavoro stabili; l’istituzione di servizi per l’assistenza ai bambini e la realizzazione di asili nido; strutture scolastiche adeguate per evitare la dispersione e molto altro. Ma queste sembrano tutte misure che sanno di antichità: ora nel nostro paese il sistema economico dominato dal profitto e dalle braccine corte, viaggia solo col treno dell’alta velocità al motto “non disturbiamo chi gestisce la produzione”. Ne consegue la precarizzazione spinta del lavoro; la reintroduzione dei Vaucher, salari sotto i livelli di sussistenza; mancanza di asili nido e una politica delle case popolari a livelli così miserabili che centinaia di famiglie sotto sfratto sono costrette ad occupare in modo abusivo le abitazioni sfitte o abbandonate dai proprietari.

Che ci dicano la verità: abbiamo altre priorità. Siamo alle soglie di un conflitto mondiale e non abbiamo risorse da destinare al benessere della popolazione. Giorgetti si rassegni: l’indice di fecondità delle mamme di etnia pura italiana, in queste condizioni non tornerà a risalire. Le culle degli ospedali rimarranno vuote e i ciucciotti invenduti. Il sogno di incrementare l’esercito industriale di riserva per continuare ad avere livelli salariali più bassi d’Europa deve trovare sostegno su altre sponde. Dovrà puntare su etnie prive di sangue italiano puro, in barba ai desideri del ministro Lollobrigida. È un dato oggettivo. Lo invocano da anni gli stessi industriali. Una necessità più che urgente visto che con il passare dei mesi l’esigenza di carne viva da destinare alle prossime italiche trincee diventa sempre più pressante.