Cristina Quintavalla
L’esercito francese aveva subito la più cocente delle sconfitte: l’imperatore Napoleone III era stato catturato, l’esercito prussiano era giunto sino a Parigi e aveva imposto una resa disonorevole alla Francia imperiale, che pure sembrava proiettata grazie a vent’anni di fasti e successi verso l’egemonia del continente europeo. Il governo Thiers, nel mezzo di una devastante crisi economica, sociale, politica, chiese proprio al nemico prussiano di liberare 100mila prigionieri di guerra in modo da disporre delle forze necessarie per reprimere la Comune di Parigi e dare la caccia ai comunardi. Proprio così: fu ricercata un’intesa col nemico, che aveva così sprezzantemente umiliato e messo in ginocchio la Francia, contro i lavoratori francesi in lotta.
Nemico sui campi di battaglia ma alleato contro la classe proletaria in quella che fu definita “la settimana di sangue”, nel corso della quale fiumi di sangue irrorarono le strade parigine e la più vile caccia all’uomo fu perpetrata. La mattanza presentò il suo conto: 20mila i morti, 7500 le condanne ai lavori forzati e le deportazioni. Si tratta di una delle pagine più efferate della storia, ma che dovrebbe rimanere scolpita nelle nostre menti, quasi una bussola, soprattutto per coloro che si illudono sulla possibilità di conciliare gli interessi contrapposti di classi contrapposte. Di chi si illude di stringere patti sociali, accordi nel mutuo interesse, di chi farnetica di “pace sociale”, di presunte/sedicenti regole della democrazia, volte solo a camuffare la legalità borghese.
Quella modalità di repressione fu accompagnata naturalmente da giustificazioni, rese pubblicamente. Gli operai parigini avevano infranto l’ordine naturale delle cose, che si basa sul diritto alla proprietà privata, inscritto nella natura dell’uomo, e sul valore di chi la detiene. Altri tempi e altri contesti, direbbe qualcuno. Eppure anche in Italia contro i lavoratori della Pirelli, che nel maggio 1898 scesero in piazza contro la carestia e la fame, che falcidiavano la popolazione, fu scatenato dal governo un esercito di 20mila soldati che presero a cannonate le barricate erette in città e lasciarono sul terreno 700 morti, mentre il macellaio Bava Beccaris veniva insignito della croce di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
Persino nell’Italia repubblicana, cinquanta o sessanta anni dopo, i governi, seppur istituiti da una Costituzione fondata sul lavoro, ingiunsero di sparare direttamente sui manifestanti, soprattutto nel corso di manifestazioni sindacali di lavoratori (dall’uccisione di braccianti durante lo sciopero generale al sud, all’eccidio delle Fonderie di Modena, ai morti di Reggio Emilia…). Questa storia puntellata di violenze si ripropone oggi, mutatis mutandis, nella brutale repressione poliziesca dei lavoratori in lotta nella logistica, prevalentemente migranti, che hanno aperto con gli scontri più duri e dolorosi la stagione delle lotte operaie nel paese, pagando un prezzo altissimo per effetto di una feroce repressione, fatta di violenze fisiche, fogli di via, incarcerazioni, perquisizioni.
I lavoratori della Texprint, che hanno scioperato e tenuto un presidio per ben 228 giorni, che hanno fatto lo sciopero della fame in Piazza del Comune a Prato, hanno subito in risposta lo sgombero violento del presidio, l’arresto di alcuni di essi, mentre lì vicino, nello stesso distretto tessile, altri proletari subivano l’aggressione di squadre di mazzieri, armati di spranghe in funzione intimidatoria, in presenza di forze dell’ordine che non hanno mosso un dito.
Quando gli idranti delle forze dell’ordine, una quindicina di giorni or sono, a Trieste hanno colpito con tutta la potenza del loro gettito i portuali, seduti a terra, inerti, alcuni in lacrime, non si poteva non vedere la brutalità dello sgombero, volto a liberare dal blocco dei lavoratori un varco del più importante porto d’Italia. Ma non è bastato. I media mainstream hanno costruito una narrazione deformata attorno a questa lotta, a quella dei portuali di Genova e di altri portuali in lotta. Da un lato li hanno derisi, sbeffeggiati: li hanno rappresentati sotto l’effetto di un tasso alcolico elevato, attraverso le parole del fascista idiota di turno, nell’incapacità di parlare o giustificare le loro azioni. Dei “nani”, inconsapevolmente mossi da manipoli di fascistucoli, che non riescono a riconoscere una parola d’ordine o uno slogan fascista, ma che pretendevano di dare l’assalto al cielo, bloccare un porto, fermare lo scambio delle merci. Cose dell’altro mondo! Dall’altro lato, loro, quelli che svettano sui nani, hanno dissertato sulla democrazia e le sue regole. “La democrazia ti dà il diritto di manifestare il tuo dissenso, ma occupare un porto non è dissenso, è dittatura…” e via disquisendo su cosa significa manifestare, come lo si può fare, quali le regole consentite in realtà da coloro che in questa sedicente democrazia ci stanno bene, non si alzano alle 5 del mattino per prendere un treno o un pulmino per andare al lavoro, non sono precari, ricattati, licenziati, somministrati, interinali, finte partite IVA, non hanno un mutuo, un affitto, la rata della macchina da pagare.
I dipendenti della Whirlpool di Napoli hanno manifestato, eccome! Nei 900 giorni della vertenza hanno dato vita a una lunga sequela di manifestazioni pubbliche, picchetti ai cancelli, blocchi temporanei della circolazione stradale, irruzioni nelle sessioni di lavoro delle istituzioni del territorio, l’occupazione dello scalo di Napoli, decine e decine di incontri al MISE, uno sciopero partecipato al 100% in tutti gli stabilimenti. Eppure, non ci sarà prospettiva per il futuro del loro lavoro per la cinica determinazione dell’ennesima multinazionale che ha deciso di chiudere lo stabilimento di Napoli, ultima fabbrica del territorio, sebbene avesse usufruito dal 2014 a oggi di ben 27 milioni di euro di fondi pubblici e avesse costretto gli operai a contratti di solidarietà in tutti gli stabilimenti e a volumi produttivi ridotti. Dov’è la democrazia, in un paese che non ha messo a punto alcuna misura in grado di impedire a un gruppo economico-finanziario di licenziare o delocalizzare, almeno per costringerlo a restituire con un impegno e in un tempo adeguati l’aiuto ricevuto dallo stato, che si è avvalso delle risorse dei contribuenti?
L’ex Fiat, FCA Stellantis, che dal 1975 a oggi ha goduto di qualcosa come 220 miliardi di euro di finanziamenti pubblici (cassa integrazione per i dipendenti, prepensionamenti, rottamazioni concesse dietro esborso dello Stato, stabilimenti costruiti con i soldi dei contribuenti, contributi in conto capitale, esenzioni dalle imposte sul reddito per le società meridionali, etc.) persegue l’obiettivo di abbandonare la produzione di veicoli in Italia per trasferirla in altri paesi dove può sfruttare più liberamente lavoratori, ambiente e godere di normative ancor più favorevoli. Dov’è la democrazia quando gli stabilimenti ex Fiat vengono chiusi e venduti a gruppi industriali o a fondi finanziari stranieri, che investono oggi e chiudono domani in base all’indice borsistico e quelli rimasti aperti funzionano per un giorno a settimana? Quando lo stato non intende avvalersi di alcuno strumento capace di intervenire in modo diretto per impedire licenziamenti, delocalizzazioni, chiusura di uno stabilimento industriale, col loro drammatico carico di disoccupazione, deindustrializzazione, impoverimenti di interi territori?
Dov’è qui la democrazia? Dov’è, quando 8000 dipendenti ex Alitalia vengono lasciati a casa addirittura da una società di proprietà dello stato, che vuole imporre ai 2000 che saranno assunti nuovi accordi contrattati individualmente, fuori dai contratti nazionali, salari dimezzati, assenza di diritti e clausole sociali? Dov’è nella logistica, in cui con buona pace delle nostre coscienze, va in scena uno sfruttamento di carattere schiavile, dove la vita di oltre 1,5 milioni di lavoratori non ha alcun valore: senza ferie pagate, senza diritto all’astensione dal lavoro per malattia, senza diritto di sciopero, senza retribuzioni dignitose, con turni massacranti e senza orari di lavoro? Oltre 3,5 milioni di lavoratori, secondo stime al ribasso, sono utilizzati in finte cooperative, in nero, o con contratti capestro che dimezzano nella migliore delle ipotesi le paghe, negano i diritti, le tutele sul piano previdenziale, sanitario, assistenziale.
Quali imperdonabili responsabilità gravano sulle scelte compromissorie e di concertazione/collaborazione delle burocrazie sindacali con Confindustria e governi? Persino Confindustria si compiace delle buone relazioni che intercorrono con i sindacati confederali: “occorre riconoscere che si iniziano a vedere i risultati di quel lungo percorso di valorizzazione dell’approccio partecipativo e non conflittuale che ha visto impegnate tanto le parti sociali, quanto il legislatore”. Eccome se si vedono! Non è stata contrastata da decenni la più vergognosa legislazione sul lavoro, che ha permesso l’instaurarsi nel paese delle più umilianti forme di lavoro e condizioni di vita, né ostacolato lo sblocco dei licenziamenti, che da fine giugno riguarda una platea di 4,5 milioni di lavoratori e da fine ottobre il comparto tessile, moda, abbigliamento, calzature, con un numero di addetti/e enorme, impiegati in piccole imprese, senza diritti né tutele. È all’unità e alla collaborazione tra le classi, alla cosiddetta “pace sociale” che Bonomi allude quando, contro la prospettiva di uno sciopero generale richiesto dai lavoratori GKN, ex-Alitalia, Whirpool, Pirelli e tanti altri, dalla Fiom stessa, ha detto che “gli italiani ci chiedono altro e in particolare di stare insieme in questo momento difficile per il paese e di fare crescita perché questo significa occupazione. La strada è quella di mettersi a un tavolo e lavorare tutti insieme”. Gli italiani insomma si rivolgerebbero addirittura a Confindustria per scongiurare uno sciopero generale che sarebbe divisivo e nocivo per l’occupazione stessa! (vuoi vedere che allora lo sblocco dei licenziamenti sarebbe stato preteso da Confindustria per difendere l’occupazione degli italiani?).
E lo sciopero generale non si farà. I dirigenti sindacali prontamente si inchinano al dicktat di Bonomi e Draghi e tradiscono ancora una volta le aspettative della parte migliore del paese. La misura è colma. Lo si respira nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Le centinaia di migliaia di persone che hanno preso parte alle manifestazioni che si sono succedute nel paese sono state assimilate ai no vax e i no green pass ai no vax. Lo sciopero dell’11 ottobre, che ha visto la partecipazione di circa un milione di lavoratori/trici e di 100mila manifestanti nelle mobilitazioni di piazza è stato assimilato tout court dai media a manifestazioni no green pass, occultandone volutamente la natura di classe. Occultando dietro il no al green pass la forte protesta sociale proveniente dal mondo del lavoro.
“Al lavoro senza green pass no, ma senza contratto sì. Che bella l’Italia!” Il giovane lavoratore, in un video che è girato in rete, ha colto tutta l’ipocrisia del ricatto al mondo del lavoro, lasciato senza diritti e tutele, senza contratto, che durante i mesi della pandemia ha continuato a lavorare in condizioni di grande pericolo di contagio, senza mascherine, senza presidi sanitari, né con un’organizzazione del lavoro in grado di tutelarlo. Il green pass viene usato dal governo Draghi come strumento di divisione e discriminazione, di distrazione di massa, per oscurare e dissimulare la nuova fase dello scontro di classe che inizia a delinearsi nel paese, e di dissuasore della lotta, perché tutte le lotte sarebbero uguali: violente, facinorose, infiltrate da elementi fascisti. Parola di Bonomi, che per primo ha agitato il tema, buono in tutte le salse, degli “opposti estremismi”.
La vendicativa ritorsione della classe padronale contro le lotte della classe lavoratrice si è sempre affiancata o alternata alle forme più subdole di dominio di classe. La contro-rivoluzione dei padroni rispetto al mondo del lavoro oggi ruota preferibilmente attorno ad alcune micidiali forme di dominio di classe: la minimizzazione dei costi di produzione (ridurre i salari reali, condizioni di lavoro più rigide…); la scomposizione/frammentazione del lavoro (moltiplicazione delle tipologie di contratti, regole di ingaggio flessibili, non onerose, a tempo determinato e a termine, contratti di lavoro in affitto o in somministrazione, contratti di collaborazione coordinata e continuativa, a progetto, di lavoro intermittente e di prestazione occasionale…); la capacità di far interiorizzare i sistemi di potere e della cultura del dominio.
È necessario fare da argine a quella disarticolazione del fronte delle lotte, perseguita dalle classi dominanti nel corso degli anni, funzionale alla conservazione degli attuali rapporti di forza, che esigono mano libera nei confronti della vasta, variegata classe lavoratrice, che partecipa, seppure in forma precaria, ai processi di valorizzazione del capitale. Occorre costruire “un’unica piazza-come hanno detto i lavoratori della GKN- per le vertenze, i movimenti, le scuole, i precari, i disoccupati di questo paese e le vie per realizzarla è lo sciopero generale e generalizzato”. Visto che i sindacati confederali hanno deciso di non convocarlo, sarà necessario “prendercelo” e costruire le condizioni per metterlo in campo, costi quel che costi.
In particolare occorre ritrovare un’unità nella lotta contro:
– delocalizzazioni e spostamento della produzione materiale verso aree periferiche a basso costo del lavoro
– salario minimo europeo come deterrente del dumping sul costo del lavoro in atto all’interno della stessa UE
– audit sul debito pubblico, prodotto dagli enormi finanziamenti pubblici, all’industria italiana e a multinazionali /fondi finanziari, che vengono scaricati sui contribuenti e che lasciano sul terreno macerie, disoccupazione, impoverimento dei territori
– abrogazione della peggiore legislazione sul lavoro (dal pacchetto Treu alla legge Biagi, all’art. 8 di Sacconi, al Jobs act)
– sciopero generale e generalizzato nazionale
Si tratta di una piattaforma di lotta che deve coinvolgere nell’opera di trasformazione ampi strati del corpo sociale, di cui sarà possibile guadagnare il consenso attivo e organico se sapremo farci carico dei bisogni, delle esigenze, dei problemi, che non sono mai stati intercettati, e del malcontento, che talvolta non trova nemmeno le parole per esprimersi, e a cui la sinistra deve imparare a parlare per esercitare una “direzione intellettuale e morale” (Gramsci).