Immaginare una città

di Milo Adami*

Due libri appena usciti ci consentono di riprendere un ragionamento sulle nostre città, lasciato incompiuto e per di più scompaginato dal Covid-19. L’occasione non deve essere sprecata, come ha scritto Marco Senaldi nel suo Pensare Oltre (Piemme 2021): la perdita di senso, di tempo, di socialità, se accolta e non rimossa, potrebbe rappresentare un «salto esperienziale». Accolto il suggerimento, pensiamo alle città, le abbiamo viste vuote, come teatri abbandonati dai loro attori/spettatori, arrese e fragili, esposte senza inganno ai loro pregi e difetti; proprio alla luce di una simile, radicale, esperienza, non sarebbe forse auspicabile tornare consapevolmente a occuparci di loro e ragionare finalmente sullo spazio urbano come un sistema complesso e riflesso di una comunità da ritrovare?

Come è cambiata la nostra idea di città, come la nostra cognizione del tempo, dei rapporti sociali, dell’educazione? Tanti mesi di chiusure hanno modificato il senso che ciascuno di noi attribuisce al significato, all’essenza, alla funzione della cultura? Oltre l’intrattenimento, il lustro e l’eccellenza, quale il ruolo che questa ricopre all’interno della crescita individuale e collettiva di ciascuno di noi? Scriveva il celebre urbanista e architetto Ludovico Quaroni nel 1954: «Che ci importerebbe della storia dell’arte, se non servisse a migliorare in noi questo sfruttamento dello spirito del passato per l’avvenire?» (in I volti della città, Edizioni Comunità, 2019).

Dovevamo fermarci e ci siamo fermati, ora sembriamo frettolosamente tornati ai ritmi di prima. Pericolose noncuranze? Egoistiche indifferenze? Comprensibili rivalse? È così? Non è così? I segni restano, sono cicatrici e guai a rimuoverli, l’occasione c’è stata, proviamo a ragionare ancora sulla città, sulla cultura, sull’immaginazione.

Lo spunto giunge grazie alla casa editrice Edizioni di Comunità (di sane origini Olivettiane) che ha da poco dato alle stampe Un’idea di Roma, libro-trascrizione di una lunga intervista che il giornalista Mino Monicelli – noto per le sue inchieste per riviste e giornali come «Epoca», «L’Espresso», «Europeo» – realizzò allo studioso e storico dell’arte Giulio Carlo Argan nel 1978.

Al termine della sua carriera universitaria, Argan, romano d’adozione e torinese di origine, era stato eletto consigliere comunale nelle liste indipendenti del PCI, Luigi Petroselli lo convinse ad accettare la nomina a sindaco di Roma (carica che ricoprì dal 1976 al 1979), un modo diverso, dice Argan a Monicelli, di «adempiere ai miei doveri culturali». Come studioso Argan si era occupato di urbanistica, ovvero di «teoria della città» e di storia dell’arte (tra i suoi libri si ricordano L’architettura italiana del Duecento e Trecento, 1937; Walter Gropius e la Bauhaus, 1951, etc.), due poli inscindibili, come sostiene più volte in Un’idea di Roma: «Nel mio pensiero la città è cultura, nient’altro che cultura: anche il problema della casa o quello della disoccupazione sono problemi di cultura». Il sistema città è tuttavia sempre più messo pericolosamente in crisi dall’industrialismo e dal capitalismo che ne riplasmano le forme ma per rovescio ne condannano la sopravvivenza in quanto forma complessa e articolata; la crisi del sistema città, sostiene Argan, è un problema culturale: cultura economica, sociale, urbanistica.

«Fin dal viaggio di Telemaco alla ricerca di Ulisse nelle tante isole dell’Egeo, la città è stata considerata un poderoso e necessario fattore educativo», parole che ci ricordano quanto la città sia un corpo che forma, che costruisce opportunità, che plasma una cultura, non sono solo gli interessi particolari, privati, economici a segnarne lo sviluppo, è nell’interesse collettivo che la città immagina, progetta, produce una vera crescita. Questa capacità immaginativa, secondo Argan, è il progetto, di cui l’urbanistica disegna le forme e la cultura ne permea il senso. Scopo della cultura è ispirare, formare, migliorare le capacità comunicative e riflessive di ognuno di noi, accelerare i confronti, attivare socialità, ricucire diseguaglianze. Urbanistica come progetto e cultura come visione e immaginazione devono sempre intrecciarsi nel processo di costruzione di una città.

Su queste basi alla fine anni Settanta, in una Roma scossa dal terrorismo e dalla criminalità, Argan avvia coraggiose riforme: contiene il costruito, recupera e valorizza l’esistente, ferma la speculazione immobiliare, tenta di sanare il dramma delle baracche investendo in edilizia popolare, avvia importanti opere di rigenerazione e riqualificazione urbana chiamando come assessore alla Cultura un giovane Renato Nicolini. La sua idea è di far dialogare il centro con le periferie, Nicolini scompagina le reti consolidate, rifiuta i dirigismi, offre la possibilità alle culture giovanili emergenti, nel teatro, nella musica, nella poesia, di uscire allo scoperto. «La cultura urbana è alta se questa idea diffusa di cultura si estende a tutti i settori e a tutta la cittadinanza», la città è un bene comune, dice ancora Argan a Monicelli, e la cultura deve essere fruibile da parte di tutti, dove nascono emarginazioni sociali, culturali, economiche, è lì che il progetto fallisce, «la cultura non si impartisce dall’alto» si partecipa con gli altri, si diffonde oltre i centri storici per rinsaldare le maglie distorte delle diseguaglianze sociali.

Il secondo libro che ci aiuta a comprendere meglio queste parole, legandole maggiormente al contemporaneo, è Poverty Safari di Darren McGarvey (Rizzoli 2021), definito da S.K. Rowling un libro «feroce, saggio, acuto». Darren è un ragazzo come tanti cresciuto nei sobborghi popolari di Glasgow, tra tossicodipendenze e disoccupazione ha visto crescere «la rabbia della sua gente», ne conosce l’origine, ne comprende la solitudine. Darren diventa presto un rapper, canta le storie della sua emarginazione, lo chiamano in tv per parlarne, poi affida ad un libro i suoi pensieri e per tre anni non fa altro.

Quello che accade nelle periferie di Glasgow, leggendo McGarvey, sembrerebbe ripetersi identico in molte altre città del mondo, è il ritratto di un modello in crisi: «Dire che la gente è diventata rabbiosa, disillusa o apatica dopo che per anni si è vista ignorata, soverchiata e intimidita da agenzie e istituzioni che parlavano il gergo meccanico della riqualificazione, sarebbe riduttivo». Lo schema delineato da McGarvey è ben noto, da un lato le istituzioni e una classe politica percepita come elitaria, che spesso rifiuta o snobba il confronto con la cittadinanza, di cui non comprende le richieste e le emergenze; dall’altro la gente, soprattutto le fasce più deboli, sempre più sole o isolate in quartieri limitrofi che continuano ad espandersi, sempre più lontane da un centro storico bomboniera dove si va per consumare tempo libero e risparmi. Si aggiungono poi nuovi disoccupati, istruiti, formati, che tuttavia non riescono ad accedere ad un mondo del lavoro poco trasparente.

Darren McGarvey non ha dubbi, le diseguaglianze, accumulandosi, generano sfiducia, bassa autostima, in più la sensazione di essere ignorati dai vertici decisionali fomenta la frustrazione, la rabbia, l’odio, o l’apatia, figlia dello scetticismo nei confronti delle istituzioni pubbliche: «La rabbia e il risentimento, aggravati dalle sfide psichiche associate alla povertà – ansia, depressione, stile di vita malsano – sottopongono gli individui ad una forte tensione emotiva. Una tensione che può limitarne la capacità di provare empatia, tolleranza e compassione, e che fa arrabbiare, agita, indispettisce e spaventa».

Colmare la distanza e i traumi accumulati non è impresa facile e più tardi si inizia peggio è; tuttavia Poverty Safari ci ricorda che la fiducia è tradizionalmente un grande motore e basterebbe tornare a ragionare, dialogare, empatizzare con chi ripetutamente non viene incluso nella res pubblica, per avere immediati benefici. Farlo poi con un progetto, definendo delle priorità con immaginazione e creatività, per instillare una cultura attiva, sarebbe l’ideale. Esiste un precedente al quale ispirarsi, la felice la storia di Antanas Mockus, matematico, filosofo di origini lituane, rettore universitario il quale diventò nel 1995 il “sindaco-artista” di Bogotà, riuscendo a trasformare una delle città più pericolose e indisciplinate del mondo in un esempio di cultura urbana.

Onestà, razionalità, sensibilità e immaginazione, sono queste le qualità che Mockus mette a disposizione del suo incarico, intuendo di dover ricreare un rapporto di fiducia con i propri cittadini. Il degrado umilia, isola, la cultura politica deve restituire dignità collettiva, la struttura governativa si deve trasformare, afferma Mockus «in un supporto elastico, pensato per accompagnare la società in continua evoluzione, nello spazio circoscritto delle colonne della democrazia». La politica deve ricorrere dove necessario all’intelligenza creativa per risolvere i problemi, inventando nuove possibilità di azione.

Ed è così che Mockus inventa per i suoi cittadini le giornate di (Ri)conciliazione pacifica dei conflitti, assolda mimi e attori al posto di vigli urbani, li mette ai semafori per enfatizzare sarcasticamente le tante violazioni del codice della strada a danno dei pedoni. Per creare un dibattito intorno alle tante (oltre 40%) violenze domestiche, inventa la Notte delle Donne, dove gli uomini devono restare a casa e le donne uscire. Mockus promuove in generale la partecipazione pubblica dei cittadini nei meccanismi decisionali, come riassume Sandro Bozzolo che al sindaco filosofo ha dedicato un libro: «Non più quindi il popolo da guidare con il bastone delle leggi e la minaccia di punizioni e repressioni, non più solamente eserciti e uomini in divisa, ma una piena fiducia nella capacità dei singoli di costruire, cellula dopo cellula, un organismo equilibrato da processi di coscienza individuali e collettivi» (Un sindaco fuori dal comune, EMI 2019).

Se è accaduto e se ha funzionato, può accadere ancora, occorre riacquistare slancio, indipendenza, progetto e cultura del progetto, essere inclusivi, trasparenti, definire delle priorità, immaginare una città lì dove non c’è e forse non c’è mai stata. Il beneficio può essere immediato, trasformare l’umiliazione in partecipazione e l’apatia in energia, non è compito semplice, ma “la vittoria è certa”, diceva un amico.

*Docente universitario e regista, nei suoi film documentari ha trattato argomenti quali lo sviluppo sostenibile e il consumo di suolo (A nord Est 2010), con Mirabilia Urbis (2019) ha raccontato le battaglie del giornalista Antonio Cederna in difesa di una Roma moderna e vivibile, vincendo il Premio Zavattini e il Green Movie Award. Le foto dell’articolo sono dell’autore stesso.