La coscienza sporca delle eccellenze

di Andrea Bui, Emanuele Leonardi* e Piermichele Pollutri

A Parma, si sa, parlar male di sua maestà il prosciutto, quello con la Corona, è tabù. Il crudo di Parma è stato costruito non solo come prodotto alimentare, ma come simbolo di un territorio, legando la città ai destini della coscia e viceversa. Se fai notare qualcosa che non va nel prosciutto, non stai soltanto mettendo in pericolo l’architrave su cui si costruisce la ricchezza del nostro territorio, stai contestando la sua stessa identità. Tradimento! E anche quando qualcuno osa oltrepassare le soglie della pubblica gogna, sono i media che creano intorno alla denuncia una cortina di ovatta, che la soffoca lentamente fino a inghiottirla.

Quando, poi, le notizie sono talmente eclatanti da non poter essere taciute, allora vengono sterilizzate. La politica, ormai votata al consenso istantaneo dei sondaggi, si tiene lontano da un argomento così spinoso che potrebbe far perdere consensi (e finanziamenti), così le informazioni sul caso si riducono alle riviste specializzate e a francobolli che quasi nessuno leggerà: il giorno dopo non se ne ricorderà più nessuno.

Eppure non si tratta di un affare da poco. Parma è solo uno dei territori che compongono l’arcipelago dell’industria delle carni in Italia, un business da miliardi di euro, uno di quei settori, per usare un termine molto di moda, definito un’eccellenza. Come ogni città di provincia, troviamo la nostra ragione per essere speciali: ci definiamo “Food Valley”, cioè identifichiamo la nostra stessa comunità con i suoi prodotti agroindustriali. Ma è l’Italia intera a vedere nell’industria agroalimentare un settore economico di punta: il suo fatturato si aggira intorno ai 130 miliardi annui, abbiamo mille programmi di cucina, fiere, promozioni di prodotti locali in quasi ogni paese dello Stivale. Eppure di come si producono queste prelibatezze si sa poco. Proveremo a farlo qui, puntando i riflettori proprio su quello che non si dovrebbe mettere in discussione: sua maestà il prosciutto.

 

Il silenzio dei prosciuttifici

È di qualche tempo fa la notizia che allo stabilimento Ferrarini di Lesignano de’ Bagni (PR) è stato licenziato un rappresentate sindacale a seguito, pare, di una intervista di denuncia, riguardo a uno strano clima attorno alla delicata procedura concorsuale cui l’azienda deve fare fronte. Se fosse davvero così, va da sé che saremmo di fronte a un episodio gravissimo: licenziare un rappresentante sindacale per aver rilasciato un’intervista, in cui solleva un dubbio, è semplicemente inammissibile. Ma questa è solo una delle “stranezze” intorno alla vicenda che ha colpito la Ferrarini. Guidata dall’omonima famiglia di Reggio Emilia, la società è in cerca di un cavaliere bianco che la risollevi dal disastro finanziario: un buco da diverse centinaia di milioni di euro legato a operazioni poco limpide, che ruotano attorno al crack di Veneto Banca. E dire che l’azienda sembrava in perfetta salute fino agli inizi del 2018. A febbraio di quell’anno, un articolo del Sole24ore parla di un’azienda in espansione, con percentuali di crescita senza eguali in Italia. Parliamo, quindi, di un’impresa di successo e Lisa Ferrarini, al comando dell’impresa di famiglia, non è semplicemente un’imprenditrice, ma una delle figure di spicco del mondo industriale italiano: nel 2010 è la prima donna a guidare ASSICA (l’Associazione Degli Industriali della Carne e dei Salumi) e nel 2012 viene messa a capo del comitato tecnico per la difesa del made in Italy di Confindustria, di cui diventa vicepresidente nel 2014. Ciononostante, a giugno 2018, dopo solo quattro mesi dal pezzo del Sole24ore che testimoniava il buon andamento dell’azienda, questa si scopre senza liquidità, gli oltre mille lavoratori del gruppo non ricevono lo stipendio da marzo ed esprimono preoccupazione per il loro futuro. Il mese successivo, la Ferrarini porta i libri in tribunale e inizia una “Dinasty” del prosciutto che, a distanza di due anni e mezzo, non si è ancora conclusa.

Lisa Ferrarini

Sono proprio gli operai del comparto i primi a vedersi presentare il conto di queste ristrutturazioni di mercato. Un conto salato che alla Ferrarini prende le sembianze di scelte finanziarie quanto meno allegre, ma non è certo un caso unico: è tutto il settore a veder peggiorare verticalmente le condizioni di lavoro. Mentre il marketing trasforma salami e prosciutti in vere e proprie icone della migliore tradizione italiana, fattorie immacolate, maiali felici e paesani invasati che annunciano l’arrivo del Marino, la realtà dentro molti stabilimenti è ben diversa. Nei salumifici si fa un uso sempre più spregiudicato dei lavoratori in appalto, assunti tramite cooperative definite spurie che offrono manodopera a prezzi stracciati, al limite della decenza. Tanto che nella nostra pur sonnolenta provincia, già 2012 viene presentato alla Procura un esposto della CGIL per condizioni di lavoro al limite della riduzione in schiavitù. Ancora prima, nel 2006, in un’afosa notte d’estate, esce per la Rai il documentario “Il paese del maiale” di Ruben Oliva, che denuncia, a partire da un omicidio di un operaio, la stretta connessione tra criminalità organizzata, cooperative spurie e industrie di lavorazioni delle carni in Emilia.

Non a caso, in alcuni prosciuttifici-salumifici parmensi capita di imbattersi in situazioni poco chiare. In una di queste, le Procure indagano da tempo in merito al trattamento dei lavoratori in appalto, i quali operano come dipendenti per fare ottenere alla società il risparmio di Iva e Irap. In un’altra occasione, che risale al luglio 2018, contestano un meccanismo che causa consistenti danni allo Stato sotto forma di riduzione del gettito fiscale e delle entrate pubbliche, e penalizza chi paga regolarmente, producendo effetti distorsivi pesanti su tutto il comparto: chi agisce in questo modo ha un vantaggio competitivo evidente. E ancora, proprio il 5 Febbraio scorso, la Procura contesta ai titolari di un prosciuttificio di Marzolara che i lavoratori di una cooperativa siano stati utilizzati per anni come dipendenti diretti nello stabilimento con un ingente risparmio fiscale.

Dunque, a sfogliare la cronaca giudiziaria, sembra di essere di fronte, più che a fatti sporadici, a un sistema oliato e ben strutturato, che porta evidente riduzione dei diritti di chi lavora (un lavoratore di una cooperativa in “affitto” ha meno diritti, meno garanzie, meno stabilità, meno stipendio, TFR, di un lavoratore con il contratto da alimentaristi). L’elenco potrebbe proseguire impietoso ancora a lungo, con storie che se arrivano a conquistare le pagine dei giornali è soprattutto per essere derubricate a questioni di ordine pubblico. E così, si continua indisturbati sulla stessa linea. La prova definitiva sta nei numeri pubblicati dall’ispettorato del lavoro di Bologna, secondo il quale nel 2017 il 75% delle cooperative sottoposte a controllo in Emilia-Romagna sono fuori norma, percentuale che sale all’85% per le cooperative fuori dalle principali associazioni di categoria.

È chiaro che non siamo di fronte a casi isolati, ma a un mercato che sta cambiando: con queste cifre è illusorio pensare di risolvere la situazione con i controlli, occorrerebbero misure legislative forti. Ma la legge Biagi del 2001 ha depenalizzato la somministrazione irregolare di manodopera, mentre Renzi col suo jobs act ha addirittura eliminato il reato penale di somministrazione irregolare di manodopera. In poche parole, i titolari di queste cooperative rischiano al massimo 17mila euro di multa. Un insulto, un’infamia, se pensiamo alle decine di lavoratrici di Italpizza sotto processo a Modena per aver protestato contro questa forma di sfruttamento.

Le cose si complicano se si guarda alle reazioni dei sindacati a questa situazione, perché proprio da chi tratta in nome e per conto dei lavoratori sarebbe lecito attendersi delle risposte riguardo a diverse questioni. Un esempio è dato dal ribaltamento improvviso dei rapporti di forza tra i sindacati nelle elezioni delle Rsu proprio in Ferrarini all’inizio del dicembre 2020. Fino ad allora, infatti, aveva sempre prevalso nettamente la FLAI-CGIL, con quattro delegati su sei (uno solo alla CISL), mentre nelle elezioni di due mesi fa la Federazione agroalimentare (FAI) della CISL Emilia Centrale ha conquistato tre seggi su sei, con 88 voti su 197 complessivi e una partecipazione al voto che sfiora il 90%. Due i delegati alla UIL e uno alla CGIL. È bene ricordare che siamo a Reggio Emilia, dove la FLAI-CGIL ha sempre goduto di una posizione di forza e riconoscimento all’interno di diversi stabilimenti, tanto che nel 2018 entrarono in Ferrarini ben 4 delegati della FLAI. Anche di questo capovolgimento, CGIL-CISL-UIL e RSU una qualche idea devono essersela fatta, se non altro perché hanno notizie di prima mano. Basti pensare agli incontri al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) con l’azienda, i consulenti e i rappresentanti della Regione Emilia Romagna e della Lombardia, avvenuti a più riprese dall’ottobre 2018 fino all’incontro del novembre 2019 (presieduto dal Vice Capo di Gabinetto Giorgio Sorial).

Le stesse sigle sindacali devono essersi poste una qualche domanda anche all’indomani dell’8 ottobre 2020, quando la Ferrarini, in autonomia e senza alcuna comunicazione ai sindacati, nello stabilimento di Lesignano Bagni convocò tre assemblee di un’ora e mezza ciascuna per spiegare ai lavoratori i contenuti delle due proposte concordatarie, quella firmata Pini/Amco e sostenuta dalla famiglia Ferrarini, e quella di Bonterre fortemente osteggiata. Ai dipendenti, che dopo aver lavorato al mattino si sono assentati per raggiungere Lesignano, è stata pagata l’intera giornata di lavoro. Ma perché convocare i lavoratori per sostenere una delle due proposte, senza per altro coinvolgere i sindacati? È un comportamento che lascia intravedere inquietanti scenari di come si intendano le relazioni sindacali in casa Pini-Ferrarini, di come questo potrebbe essere un terribile prequel di una nuova “normalità”, in cui i costi della competizione sono scaricati, tanto per cambiare, sui lavoratori. Si tratta di un esito scontato se si considera che nella concorrenza sempre più sfrenata, infatti, sono le condizioni di lavoro le prime a saltare, sia attraverso la divisione dei lavoratori non garantiti (con CCNL alimentaristi) e precari (quelli delle cooperative), sia trasferendo il peso della competizione su ritmi di lavoro e salari.

Per farsi un’idea di questa tendenza, vale la pena allargare l’inquadratura, per un momento, su tutto il settore dell’agro-alimentare in Italia. Il carico della competizione pesa sia a monte sia a valle della filiera. A monte sono i macelli a dettare legge, strutture ciclopiche in grado di macellare anche 23 mila suini al giorno, che esercitano una forte pressione sugli allevatori: si tratta di vere e proprie strutture industriali che, per conservare margini di profitto alti, devono far funzionare a pieno regime le strutture. Occorre velocità nell’allevamento e nella crescita degli animali per soddisfare gli appetiti dei mattatoi industriali, determinando conseguenze anche nell’ambito della scelta delle razze suine, per cui si selezionano quelle più convenienti a livello industriale sacrificando ogni altro aspetto. E non si tratta solo di segmenti di mercato “bassi” o residuali, come è stato evidente nel caso dello scandalo che ha coinvolto il consorzio del prosciutto di Parma e quello di San Daniele, ben documentato da Report.

A valle della filiera la pressione è esercitata dalla GDO. Sono le grandi strutture commerciali, i terminali di questi prodotti, a determinare i prezzi, che ovviamente tendono al ribasso. Un fenomeno che non coinvolge certo soltanto il settore della lavorazione delle carni, pensiamo solo al mondo agricolo, alle filiere casearie, messe in crisi da un mercato che chiede una compressione dei costi impossibile. Il lavoro, così, diventa lavoro servile, nelle campagne (non solo meridionali) ma anche nei salumifici. E la qualità dei prodotti è spesso affidata più alla fantasia dei copywriter che alla realtà: a questi costi produrre un cibo di qualità non è semplicemente possibile.

Cibo sempre meno di qualità, lavoro sempre più povero e devastazione ambientale… ma la ricchezza prodotta dov’è?

 

Il concordato

Ora, stringiamo di nuovo il campo sul “piccolo” della vicenda Ferrarini. Sono due le cordate di salvataggio che si contendono le spoglie del gruppo. La prima, la cordata Bonterre, sostenuta da Unicredit e Intesa (due tra le principali banche creditrici del gruppo) vede compatti dietro di sé il mondo delle cooperative, le associazioni di allevatori e tutto l’arco politico dalla Lega al PD. L’altra, invece, vede il Re della bresaola, Piero Pini, sostenuto da AMCO (un’agenzia del ministero delle finanze) e dalla famiglia Ferrarini. La politica ha esercitato la sua influenza con diverse interrogazioni parlamentari e il rischio di una procedura di infrazione, qualora le regole antitrust dell’Unione Europea dovessero rilevare un illecito aiuto di Stato nella presenza di AMCO.

AMCO è una società italiana che opera nel settore finanziario, in particolare nel settore della gestione e del recupero di crediti deteriorati. Nacque come bad bank dell’allora Banco di Napoli (fino al 2009 si chiamerà SGA, cambiando poi nome), ossia per salvare dal crack la banca partenopea, ed è una società interamente pubblica. La stessa AMCO è intervenuta nel crack di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza con denaro pubblico per un valore di circa 20 miliardi di euro. Giusto per farsi un’idea dell’entità delle cifre, pensiamo solo che in 12 anni, dal 2008 al 2019, le risorse complessivamente spese per la Cassa Integrazione Guadagni ammontano a 49,7 miliardi di euro e che nel 2019 le uscite per la cassa integrazione sono pari a 1,4 miliardi di euro (488 milioni per la gestione ordinaria, 890 per quella straordinaria). E non possiamo non pensare che il Covid nei primi 5/6 mesi del 2020 ha fatto raggiungere una cifra di CIG pari a 10 volte circa quella del 2019. Dunque, quei 20 miliardi corrispondono a circa la metà di quanto speso per la CIG in 10 anni e il doppio di quanto probabilmente speso nel 2020 a seguito della pandemia. Insomma, qualche riflessione vale la pena farla quando si parla di come si impiegano le risorse pubbliche: a quanto pare sono scarse solo per gli interventi sociali, mentre per il salvataggio degli istituti finanziari ci sono sempre.

Ma dalle interrogazioni parlamentari emerge altro. Nell’interrogazione di Anzaldi del settembre 2020, si legge che la Ferrarini ha preso parte ad alcune operazioni baciate con le banche venete poi fallite.  Le operazioni baciate (illegali) sono finanziamenti, offerti a tassi di interesse più vantaggiosi, erogati da una banca a un cliente, ma questo finanziamento è sottoposto a un patto, un vincolo, e cioè che il cliente acquisti azioni della banca stessa. Questo meccanismo di fatto (finanziamento e acquisto di sue azioni) sovrastimerebbe il capitale, la solidità, la visione fintamente positiva per un qualsiasi investitore/risparmiatore, soprattutto un piccolo investitore non avvezzo ai misteri della finanza creativa. L’effetto è di dare ai terzi una visione di solidità che non corrisponde a quella reale, in modo da continuare ad avere accesso a finanziamenti. Le azioni acquistate da Ferrarini in questo modo, ossia con le operazioni baciate, verranno restituite nel maggio 2017, nell’imminenza del crack bancario (30 giugno 2017), per un controvalore 16,5 milioni di euro.

È questa l’origine del silenzio dei prosciuttifici: le nostre eccellenze crescono tra operazioni finanziarie opache, crack bancari e lotta senza esclusione di colpi ai vertici dell’industria delle carni. Un panorama decisamente meno rassicurante e bucolico di quello proposto dai geni del marketing.

 

Il Re della Bresaola

Come abbiamo visto, nel concordato di Ferrarini spunta un nome che ai più non dirà nulla: Piero Pini. Il gruppo Pini è uno dei più importanti in Italia nella lavorazione carni, possiede macelli enormi in Polonia, Ungheria e il più grande d’Europa a Binefar in Spagna. Un colosso nato a Sondrio nell’ambito della produzione di Bresaola, vero e proprio modello di produzione agganciato alle dinamiche globali. La bresaola, nonostante il marchio IGP, è fatta per la maggior parte da carne di zebù importata dal Brasile, una produzione con un impatto ambientale molto grave.

Il gruppo Pini incrocia Lisa Ferrarini una prima volta nel 2012, quando presenta il progetto di realizzazione di un grande macello a Manerbio, nel bresciano. La giunta a trazione leghista lo appoggia, ma l’opposizione che incontra non vede solo ambientalisti e attivisti, ci sono anche esponenti politici, sindacati, allevatori. E l’ASSICA, allora guidata proprio da Lisa Ferrarini, la quale spiega che il macello di Pini avrebbe effetti devastanti sulla filiera. Cade la giunta di Manerbio e sfuma il macello più grande d’Europa in provincia di Brescia. Pini il suo macello mastodontico lo costruirà, anche se a Binefar, in Aragona, e sarà operativo dal 22 Luglio 2019.

Ma prima di realizzare questa struttura monstre, Pini passa attraverso diverse peripezie. Nel 2016, viene arrestato (e poi rilasciato) in Polonia: frode fiscale per decine di milioni di euro, centinaia di lavoratori senza contratto di lavoro (secondo alcune fonti più di un terzo del totale). Una strategia fatta di grandi mattatoi, creazione di società fittizie per evadere l’IVA, sfruttamento del lavoro. Ecco il modello dei lavoratori di cooperative in appalto che abbiamo visto prima: questo è il made in Italy esportato in Europa!

Nel 2018 i guai finanziari della Ferrarini mettono una pietra sui vecchi dissapori di Manerbio e c’è un riavvicinamento, con qualche imbarazzo. A ridosso dell’annuncio del cavaliere bianco a sostegno dell’ex rivale Lisa, infatti, arriva la notizia dell’arresto di Piero Pini in Ungheria, con motivazioni molto simili a quelle della magistratura polacca. Per Lisa Ferrarini non c’è nessun problema, tutto si risolverà. Pini rimarrà in carcere per 9 mesi in Ungheria e la magistratura chiede ora tre anni e mezzo di carcere per il re della Bresaola, che nonostante tutto continua tranquillo la sua attività. Il gruppo Pini non è stato il “salvatore” soltanto di Ferrarini, ha rilevato altri mattatoi nel cremonese e nel mantovano che erano in crisi. Le paure dei tempi di Manerbio sono sfumate: adesso sono realtà.

 

NIMBY

Il macello di Manerbio, poi migrato in Spagna, secondo molti commentatori fu “un’occasione persa”, per nuovi posti di lavoro e ricchezza per tutti. Spesso grandi e faraonici progetti industriali vengono pubblicizzati come imperdibili treni per il progresso, che solo qualche ignorante nemico dello sviluppo si ostina a non volere. “Nimby” (Not In My Back-Yard), la stampa spesso li stigmatizza così e va anche bene: quando riescono a opporsi con successo, invece, vengono criminalizzati e si mobilitano anche le procure oltre che le redazioni dei giornali, come dimostra il caso del movimento NoTav.

Spesso ci troviamo di fronte al ricatto di grandi gruppi finanziari e industriali, “che ci farebbero un favore a venire proprio qui da noi”: le amministrazioni pubbliche, dissanguate dal neoliberismo e dall’austerità, si trovano a essere soggetti deboli, ricattabili di fronte a lusinghiere proposte da parte di colossi con una potenza di fuoco mediatica impressionante. Così, negli anni abbiamo imparato sulla nostra pelle come quelle promesse di futuro fossero spesso delle vere e proprie truffe.

Oggi la Lombardia è la regione d’Italia con la maggior concentrazione di attività zootecniche in Italia, vanta più di 200 capi di bestiame per chilometro quadrato, un suino ogni due abitanti. Una concentrazione che ha conseguenze ambientali pesanti. È proprio la concentrazione di grandi allevamenti intensivi che genera grossi problemi di smaltimento delle deiezioni: se riversate con costanza nel terreno a uso agricolo, ad esempio, implicano una concentrazione di nitrati potenzialmente pericolosa per gli esseri umani.  Ma non solo la Lombardia, anche l’Emilia-Romagna presenta una situazione preoccupante, proprio a Parma, due anni fa, è emersa una crisi idrica causata dalle minori precipitazioni e dall’aumento dei nitrati.

Per tornare all’esempio del mega-macello sfumato nel bresciano, proviamo a pensare all’indotto inquinante, date dalle centinaia di camion che avrebbero fatto la spola quotidianamente per assicurare il rifornimento di maiali. Per non parlare delle condizioni igieniche e di benessere degli animali allevati. E delle condizioni di lavoro, in Spagna a Binefar ne sanno qualcosa…

 

Una politica industriale?

Abbiamo visto come la legislazione strizzi l’occhio alle cooperative spurie mentre usi il pugno di ferro contro quei lavoratori che lottano dove non c’è più alcuna legge a tutelarli. In questo settore, come ovunque, ci troviamo di fronte allo stesso inferno: condizioni di lavoro sempre peggiori, salari più bassi, contratti precari, ritmi asfissianti e il ricatto continuo del “tanto c’è la fila fuori”. Dietro la vetrina del made in Italy c’è un magazzino sporco dove lavora una manodopera spesso straniera e sempre sfruttata, che deve letteralmente scomparire dopo aver fatto il suo lavoro. Per non turbare lo show, la perenne televendita di cui siamo prigionieri.

Abbiamo provato a indagare un ambito chiave dell’economia del nostro paese dall’angolatura della provincia emiliana, per provare a capire quali sono i meccanismi alla base della situazione in cui ci troviamo, ma soprattutto per mettere queste conoscenze a servizio di tutti quelli che non si arrendono allo status quo. Perché pensiamo che sia folle abituarsi a saltellare da un crack finanziario a una bolla speculativa, con lo Stato che alla bisogna corre in soccorso di banche e manager, mentre a farne le spese è chi lavora e l’ambiente che ci circonda.

È necessario un intervento pubblico, crisi come queste dovrebbero essere l’occasione per un intervento statale robusto e lungimirante, a partire dalla tutela delle vittime di questa situazione: ambiente e lavoro. Occorre ripensare la filiera per mantenere i livelli occupazionali ma anche migliorandoli. Dobbiamo tenere insieme consapevolezza del consumo e tutela del lavoro. Abbiamo bisogno di erodere i profitti di macelli e GDO per far sì che il buon cibo non si trasformi in un bene di lusso. Solo coniugando transizione ecologica e giustizia sociale possiamo pensare a politiche industriali diverse per risolvere davvero i problemi economici, che non riguardano il mantenimento della competitività, ma sono quelli di interi comparti produttivi calpestati dalle regole del mercato. Per questo è necessario che i soldi pubblici siano spesi non per finanziare imprenditori privati sulla fiducia, ma per la tutela ambientale e contro la disuguaglianza sociale: sono obiettivi che il mercato non può garantire, mentre diventano realizzabili all’interno di una pianificazione pubblica e sottoposta a controllo popolare, con cittadini, lavoratori e produttori.

Non si tratta di tifare per una cordata, non crediamo che ne esista una “buona” e una “cattiva”. È il punto di vista dei lavoratori, della collettività che vive di e intorno a quegli stabilimenti che dobbiamo far emergere! Ed è per questo che il licenziamento di Nicola Comparato, RSU alla Ferrarini di Lesignano, non è una notizia da poco. Ci racconta di come ci stiamo trasformando e di come sia importante il coraggio di alzare la testa proprio quando è più difficile farlo, di come l’arma della solidarietà debba essere la prima della nostra Resistenza.

 

*attivisti di Potere al Popolo Parma