Non corpi ma Persone

di Alfredo Notartomaso*

Partiamo da una questione: ogni anno per far funzionare la macchina produttiva della filiera agroalimentare entrano nel nostro Paese circa 350 mila lavoratori provenienti soprattutto dall’Est Europa. Quest’anno, questa cosa non avverrà a causa della crisi globale. A questi numeri si aggiungono altre centinaia di migliaia di migranti irregolari e vanno a costituire circa 1/3 degli impiegati nel settore agroalimentare a livello nazionale.

Le proposte avanzate dai ministri e da associazioni di settore passano dalla richiesta di aprire corridoi “sicuri” per permettere l’ingresso dei lavoratori stagionali, al far lavorare i percettori di reddito di cittadinanza in quanto “debitori” verso lo stato e la comunità intera.

Negli ultimi giorni lo Stato sta lavorando a una bozza di legge il cui obiettivo è regolarizzare circa 600mila stranieri e inserirli nella filiera agroalimentare. Parliamo di un mercato che muove circa 140 miliardi di euro all’anno, quindi una soluzione va trovata al più presto, altrimenti i grandi soggetti imprenditoriali non ne trarrebbero sufficienti profitti. Badando bene a delimitare il campo d’azione, i settori cui si rivolge questa bozza sono precisi: agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura.

L’emergenza sanitaria sembra che abbia fatto completamente dimenticare lo stato di invisibilità di centinaia di migliaia di migranti in Italia, ha fatto dimenticare quanto essere irregolari voglia dire non avere accesso a un tetto, che in questo momento risulta essere più importante che mai, ha fatto dimenticare quanto sia importante l’accesso sanitario e il diritto a una profilassi al tempo del Covid19. Ecco, da un momento all’altro lo stato di queste persone diventa importante, i migranti cessano di essere invisibili e diventano corpi in carne e ossa, cui attaccare delle braccia da usare nei campi della filiera della grande distribuzione agroalimentare.

Facendo una prima disamina della bozza di legge, risalta sicuramente un dato, e cioè quello che all’ottica dalla quale è stato proposto questo provvedimento non si associa l’obiettivo di interrompere le indigenti condizioni di vita dei migranti, neanche in un momento in cui percepire sicurezza nella propria vita è di fatto per tutti un’arma per uscire degnamente da questa crisi.

Ci troviamo, quindi, davanti al fatto riconosciuto che la possibilità di essere regolarizzati derivi dalla momentanea crisi produttiva, subordinando diritti inalienabili alla capacità produttiva individuale. Il motivo di questa affermazione lo troviamo proprio nella prima frase della bozza di testo di legge, che recita:

Al fine di sopperire alla carenza di lavoratori nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca e dell’acquacoltura, in conseguenza del rischio sanitario connesso alla diffusione del Covid 19, i datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni che intendano concludere un contratto di lavoro subordinato nei suddetti settori economici, a tempo determinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale in condizioni di irregolarità, possono presentare apposita istanza allo sportello unico per l’immigrazione di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni.

Il dato temporale del vincolo contrattuale risulta essere uno dei nodi di maggior interesse, il contratto ha una durata di un anno al massimo e può essere rinnovato con lo stesso o altro datore di lavoro (sembra una sola volta). Questo ci porta a riflettere su una questione non di poco conto: la stipula di un contratto a termine, quindi precarizzante, non è dettato dalla necessità di un datore di lavoro o dalla mole del lavoro stesso ma è previsto obbligatoriamente dalla legge, questo ha ragione di esistere solo nella logica di limitare nel tempo la regolarizzazione del migrante. Se si volesse davvero combattere il caporalato bisognerebbe invogliare rapporti di lavoro continuativi e duraturi. A causa del blocco della macchina burocratica, ci sono forti criticità anche per quanto riguarda le tempistiche di redazione e deposito degli atti, nonché per quanto riguarda le prospettive di regolarità future dei lavoratori.

Poco chiare sono anche le prospettive per i permessi di soggiorno, leggendo il punto 2 della bozza che recita:

Nell’istanza di cui al comma 1 è indicata la durata del contratto di lavoro, non superiore ad un anno, e la retribuzione convenuta, non inferiore a quella prevista dal vigente contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento. Il permesso di soggiorno, conseguente all’esito favorevole del procedimento di cui al comma 11, puo’ essere rinnovato in caso di nuova opportunita’ di lavoro offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro, fino alla scadenza del nuovo rapporto di lavoro. In caso di mancato rinnovo trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 22, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni.

I Pds conseguenti all’esito positivo della regolarizzazione per il lavoratore possono essere rinnovati solo in caso di continuità contrattuale, con lo stesso, o altro datore di lavoro, fino a scadenza del rapporto. Secondo diversi giuristi, risulta essere un passaggio poco comprensibile anche dal punto di vista giuridico, perché se al lavoratore emerso viene rilasciato in Pds, le specificazioni che leggiamo risultano essere del tutto superflue dato che il percorso lavorativo associato al Pds è già normato dal  titolo III del Testo Unico sull’immigrazione.  Quindi si va a creare una normativa parallela e “straordinaria” per i permessi di soggiorno, ponendo ulteriori limiti temporali tra il lavoro e la regolare permanenza sul territorio. 

Altro nodo inspiegabile è quello che riguarda i datori di lavoro. Chi vuole accedere alla procedura di regolarizzazione dei lavoratori migranti deve rispondere a determinati requisiti: essere italiano, essere membro dell’Unione Europea, o essere extracomunitario con permesso di soggiorno a lungo termine, altrimenti non è possibile accedere all’istanza. Credo sia lecito chiedersi il perché, se la legge prevede che una persona titolare di permesso di soggiorno “ordinario”, con possibilità di svolgere attività lavorativa sul territorio nazionale, non possa a sua volta assumere personale da regolarizzare.

Forse si sta immaginando un’altra storia, la realtà è diversa. La realtà è quella che guarda a migliaia di lavoratori non regolari, che subiscono una compressione salariale ai massimi livelli, che vivono in insediamenti informali senza utenze né condizioni igieniche adatte (anche nell’Emilia Romagna di Bonaccini), che non hanno la possibilità di percepire forme di welfare di nessuna natura e che ancora una volta si trovano ad essere “combustibile” a basso costo per il motore della grande distribuzione.

Secondo alcune stime (IV Rapporto dell’osservatorio “Placido Rizzotto” 2018), il fenomeno delle agromafie, nella gestione della domanda e offerta di lavoro attraverso il caporalato, muove un’economia sommersa di oltre 5 miliardi di euro e il tasso di irregolarità nei rapporti lavorativi arriva a circa il 40 per cento. Le critiche mosse a questo testo, se pur non definitivo, trovano giustificazione nel fatto che è lampante la logica con cui viene redatto. Si pensi alle conseguenze, alla creazione automatica di un mercato dei “contratti regolarizzanti”. Data la crescita del valore stesso del contratto in ottica di regolarizzazione, il fenomeno del caporalato ne trarrebbe numerosi benefici, alternando corpi lavoratori che non troverebbero mai una stabilità che li possa far uscire dal girone degli schiavi. È di schiavi che si parla quando si vive al margine fisico e politico di una società, tutto questo sotto gli occhi “distratti” di uno Stato che ancora una volta propone cure palliative a una malattia di cui si muore: il lavoro.

Concludendo, è difficile cercare soluzioni data la complessità del problema, ma bisogna iniziare con un “vera” sanatoria, che includa i migranti irregolari col solo vincolo della presenza sul territorio, il rinnovo automatico dei Pds in scadenza e prevedere una conversione del documento per motivi di lavoro. Altrimenti si rischia di rimanere ostaggi del caporalato.

 

(*attivista Art Lab Occupato)