Morris e Ferrari: l’ultima corsa a 200 all’ora… verso il baratro

di Francesco Antuofermo

Si chiamerà SF1000 la Ferrari che prenderà parte al campionato mondiale di Formula Uno 2020, in onore alle mille vittorie della scuderia. La vettura è stata presentata nella cornice del Teatro ‘Romolo Valli’ di Reggio Emilia, sede scelta dalla Casa del Cavallino rampante per unire il concetto di “Essere Ferrari” al Tricolore, nato proprio nella città emiliana”.

La casa automobilistica Ferrari è stata creata nel 1929. Inizialmente ha sempre funzionato come scuderia corse ma oggi è il produttore di auto di lusso più famoso al mondo. Le sue vetture le conosciamo: sono il simbolo della ricchezza. Sfrecciano spesso a velocità fuori dai limiti consentiti ed è difficile non girare la testa quando si avvicinano alla nostra auto magari mentre si è fermi ad un semaforo.

Lo sanno tutti: la Ferrari è la scuderia che ha vinto più titoli tra i costruttori, sia in Formula Uno, dove ha conquistato 15 titoli piloti e 16 titoli costruttori, che in svariate altre categorie. Ha vinto due campionati Gran Turismo, quattro titoli costruttori Endurance Fia, 12 titoli Sport prototipi, svariate vittorie nelle classiche automobilistiche, come la 25 ore di Le Mans o quella di Daytona…

Un mito assoluto. Un simbolo magico rappresentato dal cavallino rampante e dal colore rosso che lo rendono riconoscibile universalmente e accolto come un re Mida nel magico mondo degli affari. Ferrari infatti ha ricavi netti molto elevati: oltre 3,4 miliardi di euro solo nel 2017, una cifra in crescita del 10% sul 2016 che non conosce cedimenti.

Ma la holding Ferrari non ricava questa enorme ricchezza solo dalla vendita delle auto che, in verità, sono prodotte in numero molto limitato. Essa fa introiti anche attraverso le sponsorizzazioni e la cessione di utilizzo del marchio e del nome in altri comparti: ad esempio nella produzione di profumi e cosmetici. La cifra ottenuta nelle attività alternative è di tutto rispetto: quasi mezzo miliardo di euro, somma che ha permesso di distribuire nel 2017 un dividendo di 0,71 euro ad azione ai suoi azionisti, per un totale di 134 milioni. 

E proprio in questi numeri possiamo trovare la chiave per leggere la notizia di questi giorni. La Morris, storica azienda di profumi di Roncopascolo, ha dichiarato la volontà di cessare l’attività produttiva entro i primi mesi del 2020. Un altro colpo durissimo al nostro territorio dopo la Columbus: 114 persone, infatti, rischiano di perdere entro poche settimane, il posto di lavoro. E gran parte sono donne, molte in età avanzata.

Eppure, l’azienda parmigiana, nata nel 2010 dalla fusione di Morris Profumi e Selective Beauty, e controllata da Investindustrial, società di investimento presieduta da Andrea Bonomo e dal fondo Orlando, aveva chiuso gli anni precedenti a gonfie vele, con ricavi per circa 90 milioni di euro nel 2014, e puntava a fare meglio gli anni successivi. Ce lo raccontava Dino Pace, amministratore delegato di Perfume Holding, la società di cui fa parte la Morris: “L’azienda è in crescita – sosteneva allora – lo confermano i risultati economici del primo semestre 2015: i ricavi sono saliti del 12,8% a 35,8 milioni di euro, l’Ebitda (un indice degli utili aziendali prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti) ha registrato un aumento record del 146%, attestandosi su 2,7 milioni”.

La Morris Profumi la possiamo vedere mentre sfrecciamo, per rimanere in tema, in autostrada, poco dopo la Fiera di Parma. È un capannone scuro ma discreto e al suo interno non ci sono macchinari in disuso: la fabbrica cioè, non chiude per sopraggiunta obsolescenza. Negli scaffali sono riposte centinaia di bottigliette di profumo pronte per essere riempite, ma la produzione non potrà ripartire. Su quegli scaffali, all’interno delle linee di produzione è ancora visibile il carico di sudore e dei sacrifici delle operaie che per oltre trent’anni hanno arricchito i parassiti di turno in cambio di un salario di sopravvivenza. Ora anche questo “privilegio” verrà meno. L’azienda non è più in grado di produrre profitti. Ha perso la commessa di Ferrari, ci dice l’attuale amministratore delegato Riccardo Ranalli, e quindi non potrà più produrne l’essenza. Tutto diventa inutile, vecchio, antieconomico. Quello che fino ad un mese prima era un fiore all’occhiello dell’industria parmense, ora è un ferro vecchio, inutile, un baraccone ingombrante da chiudere e buttare via la chiave. Ancora una volta le legge sulla quale si basa la nostra società si impone: si produce solo per il profitto, tutto il resto non conta. Una legge che dovremo sopportare, almeno fino a quando non ci renderemo conto che altre alternative sono possibili.

In questo contesto le parole con le quali l’amministratore delegato della Ferrari, Louis Carey Camilleri, presentava la nuova vettura, l’11 febbraio scorso, risuonano beffarde: “Siamo qui perché condividiamo una passione con milioni di persone per il Cavallino Rampante. Siamo tutti attratti dalle emozioni che solo la Ferrari sa dare. Ha un fascino magico, tanto potente quanto difficile da descrivere. Tutti noi nel team siamo consapevoli della responsabilità che abbiamo e siamo molto concentrati per l’obiettivo finale: la vittoria”.

Bene. Fino a qualche anno fa anche le operaie dell’azienda erano vincenti e facevano fare profitti, che finivano in gran parte nelle casse della “Casa del Cavallino rampante”, alimentando così le sue vittorie. Proprio in forza al concetto di “Essere Ferrari” e per unirci tutti insieme all’irresistibile fascino del nazionalismo “espresso dal Tricolore, nato proprio nella città emiliana”, che siano ora i padroni della Ferrari ad accollarsi le esigenze delle lavoratrici gettate nel lastrico. “Ne siamo tutti consapevoli” e tutti siamo “attratti dalle emozioni che solo la Ferrari sa dare”. Ora però dalle toccanti emozioni i padroni passino ai fatti. Chi per tanti anni ha bevuto alla fonte degli utili prodotti dalle operaie della Morris, come Investindustrial di Andrea Bonomo o come il gruppo FIAT degli Agnelli a cui fa riferimento in ultima istanza la Ferrari; chi si è arricchito con questi profitti trovi ora la soluzione per mantenere da oggi le operaie lasciate senza lavoro. Che le 114 persone gettate fuori dalla fabbrica siano messe sul conto delle larghe disponibilità finanziarie dei faccendieri come Bonomo o dei grandi gruppi industrialfinanziari come Ferrari. Dopo trent’anni di sfruttamento in fabbrica, che siano i padroni a farsi carico delle loro vittime, mettendo a disposizione le risorse dove le stesse sono state distillate. “Come Ferrari siamo orgogliosi dell’Italia e di rappresentarla nel mondo”, dice J. Elkann soddisfatto. Perfetto. Andiamo allora sotto la sua finestra a ricordargli che anche le 114 operaie della Morris devono poter far parte del suo orgoglio.