di Marco Severo
In fondo l’aspettavamo da anni, ad ogni giro di premiazione speravamo che fosse la volta buona. Vedrai che prima o poi arriverà. L’abbiamo tenuta al caldo, cullata nell’intimità più segreta ma anche nell’evidenza dei desideri più sfrenati. Chiunque a Parma teneva il conto, sfogliava i nomi dei candidati, votava e faceva votare. Ma come mai, ci si interrogava ovunque, in coda all’Esselunga o allo spritz al Gavanasa, come mai, sì, insomma com’è possibile che la Gazzetta di Parma non abbia ancora ricevuto il premio Sant’Ilario?
Era un’incongruenza strana in questa città, una smagliatura sulla calzamaglia della parmigianità. La Gazzetta di Parma non aveva mai ottenuto il riconoscimento ufficiale della benemerenza cittadina, il sigillo della qualità che viene apposto tutti gli anni dal Municipio il 13 gennaio, il bacio accademico che sa di prosciutto e formaggio dell’ex Ducato, ex mica tanto.
“Parma è la Gazzetta” certifica già dal titolo la mostra allestita in questi giorni a Palazzo Pigorini. Ecco, appunto. A scuola, alle medie, gli alunni dicono “Gazzetta” anche se l’insegnante porta in aula il Corriere della Sera, o La Stampa, o un altro quotidiano. “Come mai ha portato la Gazzetta, prof?”. (Talora aggiungendo: “Chi è morto, prof?”). Chiunque manifesti il proposito – ormai minoritario – di fare un salto all’edicola per acquistare un quotidiano, incontra all’istante la premura della nonna, della suocera, della prozia: “Ce l’ho io vé, tato, la Gazzetta!”. Persino i parmigiani critici, i sarcastici e gli antisistema, quanti coltivano un’idea alternativa di città, tengono in gran conto la Gazzetta, ne auspicano un servizio e poi si compiacciono dell’articolo che parla delle loro iniziative. “Eh, la Gazzetta…!”.
Adesso che il giornale degli industriali ha ottenuto il premio Sant’Ilario – pari merito con l’associazione mutilati e invalidi civili Anmic, e con l’artista Claudio Parmiggiani – il rito massimo si è compiuto, e non per nulla si è compiuto nel turbine della porporina gialla sparsa su Parma 2020 capitale della cultura: il rito, il prodigio finale, della compenetrazione definitiva, passionale e irrazionale, fra la Gazzetta di Parma e la sua città. Un ritorno al narcisismo autoctono, dopo anni di astinenza e di cenere sparsa sul capo nell’era Pizzarotti sindaco (chi si ricorda del castigatissimo albero di Natale a pedali?). “Abbiamo lavorato sodo per mesi per allestire una mostra che racconti la nostra storia – gloriosa, ci lasci dire – di 285 anni di presenza sul territorio”, ha scritto il pur frugale direttore della Gazzetta Claudio Rinaldi, nell’editoriale-lettera al presidente Mattarella domenica 12 gennaio.
Così, nella porporina dorata, sfumano i contorni di questa storia tanto “gloriosa”. Diventano dettagli anche i grossi nodi del passato e del presente del giornale, come gli attuali numeri sulla diffusione della Gazzetta, che hanno registrato negli ultimi anni un calo precipitoso passando dalle 42.415 copie diffuse nel dicembre 2007 alle 29.010 copie del dicembre 2017 (ultimo dato certificato) e alle 26.525 stimate dell’ottobre 2019 (fonte Ads). Anche l’invincibilità del “vascello pirata”, come lo storico direttore Baldassarre Molossi chiamava la sua Gazzetta, rivela angoli di grave vulnerabilità. Il mitico rapporto fra popolazione del Parmense e diffusione del giornale perde colpi in anni di crisi strategica e ideale dell’editoria.
Una situazione che rischia di conferire al premio Sant’Ilario il sapore di un premio alla carriera, quel genere di riconoscimenti che si assegnano a gente e istituzioni famose ma ormai belle che decotte.
Il ristagno pesante del settore produce peraltro gravi ricadute sul mercato del lavoro, come testimoniarono poco più di un anno fa due giornalisti precari della Gazzetta, intervistati con il viso e la voce travisati, addirittura, dalla trasmissione Report in un’inchiesta sull’editoria del 29 ottobre 2018 (minuto 29 circa del servizio video). Nell’intervista i due cronisti affermavano di scrivere fra i 100 e i 140 articoli al mese – numeri da operaio massa dell’informazione – per una retribuzione che si aggirava sui mille euro lordi.
Molti coriandoli colorati devono essersi posati sulla memoria cittadina. Nel 2003 la Gazzetta di Parma, ora destinataria del Sant’Ilario per il contributo recato alla storia ducale, fu l’ultimo giornale a dare la notizia dell’allora più grande crac finanziario della storia, che incidentalmente era quello della Parmalat: azienda tra le predilette del territorio. Mentre i quotidiani stranieri parlavano da giorni del terremoto industriale in arrivo, e mentre il 9 dicembre 2003 dava la notizia della bancarotta ll Sole 24 ore – e il 10 e l’11 facevano lo stesso il Corriere della sera e la Repubblica – il giornale degli industriali parmigiani taceva (GazZitta di Parma?) fino al 16 dicembre, quando finalmente la faccenda divenne talmente grossa che non si sapeva dove metterla se non in prima pagina. Una settimana di ritardo, appena.
Roba vecchia, roba passata. È tornato il tempo della festa, è ora di lucidare gli ottoni e ridare fiato al trionfalismo della piccola capitale. La forza di gravità della Gazzetta attira a sé e inghiotte i vecchi ricordi, sussume tutto, gli elogi e i distinguo, gli atti di fede e i malanimi. È sempre stata l’arte della Gazzetta di Parma, questo suo regale incedere non curante del crepitare dei rischi e dei pericoli tutto intorno. Quanti vani tentativi si sono compiuti, per esempio, nel contenderle lo spazio dell’informazione in città? Quanti quotidiani locali si sono affannati, dimenati, consumati? Tante punture d’insetto, negli anni, sulla scorza dura dell’indifferente mastodonte. Si dice sempre che la maggiore qualità della Gazzetta sia la sua aderenza alla parmigianità, il suo talento nel riflettere lo stile di una comunità. La Gazzetta prima ancora che un giornale è sempre stato un simulacro avanzante per le strade su cui i cittadini affiggevano implorazioni, richieste di qualche spazio di visibilità, un lamento, una prece. Tutti, ciascuno ottenendo puntualmente ciò che desiderava. Un po’ a te e un po’ anche a te, nonostante tu sia stato un po’ monello. Paternalismo e calcolo elementare di mercato. Una formula che è poco compatibile con le definizioni puriste di giornalismo. Un quotidiano deve sì essere lo specchio della collettività, ma non per rispondere eternamente “sei tu la più bella del reame”. Uno specchio di norma riflette anche rughe e calvizie, ridimensiona le vanità, sfata i miti. Non così a Parma, dove la Gazzetta ama ancora celebrarsi come il più antico giornale d’Italia, per via dell’esistenza di una sempre citata copia datata 19 aprile 1735, che però è senza testata, cioè senza la dicitura Gazzetta di Parma, giusto un dettaglio che invece farà la sua comparsa solo nel 1759. Tutto ciò mentre a Mantova si pubblicava una Gazzetta già dal 1689 (cfr. Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, il Mulino 2000). Che si riferiscano a quella di Mantova, allora, gli alunni delle medie quando domandano: “Ha portato la Gazzetta, prof?”.
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