L’estrema destra di governo

di Marco Adorni

«La Lega (Nord) è un partito di estrema destra. Ciò nonostante è rimasto al governo del Paese per quasi un decennio, senza suscitare ferme reazioni di opposizione collettiva né in ambito nazionale né nei consessi internazionali». Si apre con queste parole il libro, appena pubblicato dal Mulino, di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, La Lega di Salvini. Estrema destra di governo. Come ricercatore del Centro Studi Movimenti sono stato invitato a dire la mia alla discussione sui temi sollevati dal libro, in occasione della presentazione a Reggio Emilia del 18 aprile scorso. Una discussione autentica, diretta, aperta: una discussione politica.

Il senso dell’operazione è chiara: risvegliare le coscienze. La Lega non è un partito moderato, soprattutto da quando Salvini ne ha trasformato l’organizzazione partitica, l’ideologia, le parole d’ordine. La Lega è una forza ostile al civismo repubblicano, capace di fare il pieno nella maggioranza degli elettori italiani che preferisce la diffidenza e il cinismo alla fiducia e alla solidarietà. La Lega è un partito nazionalista che ambisce a diventare un partito nazionale, anche se ne è manifesta la rappresentanza degli interessi sociali, economici e politici del profondo Nord.

Alla luce dei rapporti nazionali e internazionali intrapresi da Salvini con le forze della galassia dell’estrema destra – cosa mai avvenuta durante la leadership di Umberto Bossi, che addirittura gridava: «Con i fascisti mai»! – è difficile sfuggire all’impressione che Passarelli e Tuorto abbiano colpito nel segno.

E tuttavia, è lecito anche interrogarsi sul perché, appunto, la Lega di Salvini abbia ottenuto un tale successo: perché l’«estrema destra» sta acquisendo consensi non solo in Italia ma anche a livello internazionale? Una delle possibili risposte è che il processo di smantellamento dei partiti tradizionali è in atto da tempo (da Tangentopoli in poi) e che, di conseguenza, la tradizionale rappresentazione delle forze politiche sull’asse sinistra-destra è venuta perdendo valore simbolico nell’immaginario collettivo e nelle preferenze dell’elettorato italiano. La disintermediazione, cioè la crisi dei corpi intermedi e della rappresentanza politica, è dovuta alla crescente distanza tra «Paese reale» e «Paese legale», cioè alla non corrispondenza tra sentimento popolare e classe dirigente di ottocentesca memoria. È questa, a mio parere, la ragione politica della questione posta in incipit al libro di Passarelli e Tuorto. Non c’è stata una sollevazione popolare contro l’estrema destra al governo semplicemente perché la maggioranza degli italiani non ritiene più così centrali le categorie “destra” e “sinistra”. A chi ha giovato questa indifferenza? Sicuramente alle forze della globalizzazione, al partito erede del Pci che si è convertito in una forza liberista, al capitale nazionale e transnazionale.

Nel libro troviamo: «Nel 2018 la quota di elettori leghisti inquadrati come lavoratori manuali o che svolgono mansioni esecutive corrispondeva a circa un quarto degli occupati che votano il partito. La Lega è quindi anche un partito scelto dagli operai e il voto di questa categoria per le camicie verdi è (leggermente) superiore al livello medio dei consensi ottenuti dal partito. La presenza operaia è maggiore nella Lega che negli altri partiti della coalizione ed è anche maggiore che tra gli elettori del Pd (ma meno rilevante rispetto al dato registrato nel M5s)».

La Lega è il sintomo di un male che viene da lontano. A prevalere, soprattutto in una certa cultura politica di sinistra, è stata l’idea che la crescente internazionalizzazione economica e finanziaria sia un dato incontrovertibile: sia la modernità, il progresso, da accettare in toto. Un’idea, forte soprattutto negli intellettuali vicini al Pd, che comportava anche accettare l’erosione della sovranità dei singoli Stati e della loro autonoma capacità di decisione in termini di politiche economiche e sociali. Il Pd, per giustificare il fatto di avere scelto di rappresentare il campo delle istituzioni – leggi del capitale nazionale e transnazionale – ha rivolto alla propria base elettorale l’invito a rapportarsi alla “dura realtà” dei mercati, dei diktat finanziari, cioè dell’abbandono delle politiche keynesiane del secondo dopoguerra che, tra molte contraddizioni, avevano permesso alle classi subalterne di godere di una rappresentatività senza precedenti.

E se oggi vogliamo confrontarci con armi minimamente adeguate alla bisogna, forse conviene abbandonare l’idea che l’Unione Europea possa salvarci dal salvinismo e dall’intolleranza xenofoba. E cominciare a vedere l’Ue per ciò che è, per ciò per cui è nata: una struttura di potere non esigibile, non contestabile, non contendibile, che si è realizzata con il sostegno delle classi dirigenti nazionali. La lotta di classe c’è: non la vediamo perché “la partita” l’hanno vinta le classi dominanti. La lotta di classe è condotta dall’alto, come scriveva Luciano Gallino, e l’architettura dell’Ue è stata funzionale ad essa, poiché ha permesso di ridurre al nulla l’esistenza del conflitto sociale e politico, impoverire le classi subalterne, cancellare i diritti costituzionali. Da questo punto di vista, il populismo di Salvini è perfettamente funzionale allo scopo: rappresentare il popolo contro il nemico (Ue) ma poi rendergli impossibile la fuoriuscita dalle ricette economiche neoliberali (come il suo sodale Orban dimostra).

D’altronde, quando si vuole legittimare l’Ue come bastione contro le forze della globalizzazione, si vuole dimenticare che si tratta di uno scontro geopolitico che non riguarda minimamente le classi popolari: anzi, liberismo e nazionalismo sono tranquillamente compatibili (ricordate von Hayek che benediva il regime di Pinochet?) e così lo sono anche l’Ue e le potenze internazionali del capitale globale. In sostanza, la xenofobia della Lega si combatte con la politica e la risignificazione del rapporto con il popolo da parte della sinistra: il moralismo, l’accusa di razzismo non bastano. Ha scritto il padre gesuita Camillo Ripamonti su «Avvenire»: «Il problema non sono le differenze culturali o di provenienza, che sono una sfida da non sottovalutare. Il vero problema è la forbice che negli anni si è sempre più aperta tra ricchi e poveri. E la classe media a rischio povertà è usata e scagliata contro chi arriva tra noi da altrove, divenendo strumentale per politiche escludenti. Ma un umanesimo escludente è un umanesimo disumano, dunque impossibile. La causa della situazione che viviamo non sono i migranti. Loro hanno smascherato la fragilità di un sistema. Un ragazzino nei giorni scorsi nella periferia romana, con lucida semplicità, ce lo ha ricordato».