di Emanuele Leonardi
Nonostante Trump, Salvini e il riscaldamento globale, questo marzo presenta più di un lato positivo. Abbiamo ancora negli occhi le immagini scintillanti dello sciopero femminista dell’8 (quasi tremila persone) e il frastuono festoso e colorato del Climate Strike del 15 (diecimila persone). In una città come la nostra erano numeri che non si vedevano da decenni. E il 23 a Roma, la marcia per il clima e le grandi opere inutili è stata un altro momento importante, con più di 100mila manifestanti. Per l’ecologia politica dal basso è un momento di svolta e lo sciopero per il clima, l’evento culminante dei Fridays for Future (venerdì per il futuro), ha giocato un ruolo fondamentale. Parliamo di un movimento transnazionale prevalentemente studentesco ispiratosi a Greta Thunberg, la sedicenne svedese che da agosto salta la scuola tutti i venerdì per sedersi di fronte al Parlamento del suo paese e porre una domanda tanto semplice quanto dirompente: a che serve studiare se il futuro potrebbe non esserci?
La Thunberg è diventata un’icona globale nel corso dell’ultima Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima – che si è svolta a Katowice, in Polonia, lo scorso dicembre – quando in un discorso di soli tre minuti ha sbattuto in faccia ai delegati l’inutilità dei loro più che ventennali “sforzi”. Greta non parla ai burocrati che hanno “governato” la crisi climatica fino a ora, bensì alle donne e agli uomini del pianeta dalla cui azione diretta dipende la “soluzione” al riscaldamento globale. E qui sta il punto principale del suo messaggio, cioè il ribaltamento delle priorità: prima si bloccano le emissioni, poi si ristruttura il sistema economico. È un concetto chiaro ed essenziale, per cui conviene lasciare a lei la parola e ascoltare attentamente. «Per venticinque anni – dice Thunberg −, in molti hanno parlato alle Conferenze sul Clima delle Nazioni Unite chiedendo ai leader delle nostre nazioni di ridurre le emissioni, ma è chiaro come questo non ha funzionato visto che le emissioni continuano a salire. Dunque, a loro non chiederò nulla. Invece chiederò alle persone nel mondo di realizzare che i nostri leader politici hanno fallito, perché abbiamo davanti una minaccia esistenziale ed è oramai scaduto il tempo per continuare su questa strada di follia».
Non so se la radicalità di queste parole è risuonata in tutte le piazze il 15 marzo, ma quel che è certo è che questo messaggio non si fermerà. Come testimoniano anche alcuni piccoli eppure significativi dettagli. Se torniamo al corteo di Parma, per esempio, ci accorgiamo di uno spettacolo nello spettacolo: il momento più toccante è stata l’esplosione di solidarietà militante, cioè l’urlo di sostegno della folla ogni volta che ragazze e ragazzi al microfono – per lo più alla prima esperienza di comizio pubblico – si bloccavano per l’emozione. Una splendida fotografia della potenza del collettivo, stampata su sorrisi che non sarà facile blandire. Soprattutto, non sarà facile per politici e media cooptare questo movimento, lodarlo a parole per sbeffeggiarlo nei fatti. Lo dimostra la brutta figura del Pizzarotti sindaco che, visti i numeri della manifestazione parmigiana, ha tentato di cavalcare l’onda, nonostante il suo appoggio al progetto aero cargo per l’aeroporto, cioè un’opera più che dannosa dal punto di vista ambientale.
Proprio per ridurre ulteriormente il rischio che tutto cambi (a parole) perché nulla cambi (nei fatti), sarebbe importantissimo che i sostenitori dei Fridays for Future e chi è sceso in piazza il 23 marzo per rivendicare giustizia climatica, si riconoscano l’un l’altro, si parlino, sviluppino convergenza. Non si parte certo da zero, del resto: l’azione politica che da decenni mette in discussione il mito della crescita economica infinita come condizione necessaria per il benessere umano e non, ha facilitato di molto la ricettività del messaggio di Greta. Inoltre, molte persone e gruppi partecipano a entrambi i movimenti.
Ma proprio per individuare le possibilità di intersezione tra i due, vale la pena evidenziare alcune differenze significative. In primo luogo, se il 15 marzo si è concentrato specificamente sul cambiamento climatico, chi ha manifestato il 23 marzo, invece, da sempre inserisce questo tema cruciale nella prospettiva più ampia di una critica del modello di sviluppo estrattivista e neocoloniale, come vettore di diseguaglianza e agente di eco-distruzione. Finché ci si concentra sugli effetti del cambiamento climatico, qualche cinico dirigente potrebbe esaltare Greta e sognare l’apertura dei cantieri per opere come il Tav (o l’aeroporto cargo a Parma). Se invece si prendono in considerazione le cause, diventa subito chiaro che bisogna scegliere da che parte stare: o per il Tav contro il clima, o per il clima contro il Tav. In secondo luogo, il profilo sociale dei manifestanti non è omogeneo: nel primo caso assistiamo a grandi numeri favoriti dall’ampia varietà dei soggetti in campo, nel secondo si tratta di un ulteriore momento di verifica che coinvolge vertenze, campagne e lotte attive da molti anni, capace di sedimentare uno zoccolo duro di militanti crescente ma ancora relativamente circoscritto. Infine, la questione dell’articolazione interna degli obiettivi: se nelle parole della Thunberg l’abbattimento delle emissioni deve accompagnarsi a una giusta ripartizione degli oneri su scala internazionale e a un forte impegno individuale, nelle intenzioni di chi ha manifestato sabato lo stesso scopo si declina secondo le linee della giustizia sociale. In altri termini, i costi della transizione ecologica devono ricadere maggiormente su chi ha maggiormente contribuito alla crisi climatica, cioè le élite globali e chi ne serve gli interessi a livello locale.
Si tratta evidentemente di divergenze componibili, quindi incontriamoci, discutiamo, impariamo ad arricchirci a partire da punti di vista diversi, a fare rete senza escludere nessuno. In fin dei conti è sufficiente non distogliere mai lo sguardo dall’obiettivo e non dimenticare chi è il nostro vero avversario in questa partita. Se chiediamo a Greta, l’indicazione è chiara: l’obiettivo è un abbattimento radicale ma equo delle emissioni, l’avversario sono le grandi multinazionali del fossile e la politica che per venticinque anni ne ha difeso gli interessi a scapito del clima.