Il 27 gennaio non è una ricorrenza

di Ilaria La Fata

«Per conservare la memoria occorre esercitarla»: con queste parole una nota rivista di enigmistica ci invita ad acquistarla e a giocare per evitare amnesie o scherzi del cervello. Ma ci sono casi in cui l’esercizio della memoria non è solo un gioco, anzi diventa forse un dovere – per quanto in questi tempi di iperesposizione mediatica si cominci a contemplare anche il diritto all’oblio –, soprattutto quando, guardandoci attorno, ci accorgiamo che la memoria di quello che è accaduto in un passato nemmeno troppo remoto sembra essere stata rimossa in nome di un realismo politico che mette i brividi.

Intendiamoci: nessuno qui vuole istituire parallelismi forse stonati o utilizzare uno stesso termine del passato per definire il presente: chi si occupa di storia sa che la storia non ritorna mai identica a se stessa, che i contesti sono diversi, e le persone che li abitano pure. Però avere ben chiaro quello che è avvenuto, le idee alla base di certe scelte e gli esiti che quelle scelte hanno determinato, quello sì, è necessario.

E allora la Giornata della memoria [il 27 gennaio, ndr] dovrebbe aiutarci a fare proprio quell’esercizio, per stimolarci a reagire e a riconoscere che quello che vediamo intorno a noi oggi è un orrore simile a quello di un’ottantina di anni fa. I campi in Libia, i muri e le recinzioni in diversi paesi del mondo, i morti nel Mediterraneo per il rifiuto di aiutare (prima ancora che di accogliere), i bambini espulsi dalle scuole, sono tutti segni che, oggi come ieri, non dovrebbero farci sentire tranquilli né sicuri nelle nostre comode case. Segni che dovrebbero farci temere il ritorno di Auschwitz, visto che anche Auschwitz iniziò ben prima della sua apertura.

E non basta che istituzioni e media ci inondino, in questi giorni, di moniti o grida di «mai più!», perché il rischio è di suonare una musica dissonante, che fa sembrare quelle parole vuote (e vane) appena si cambia pagina e si passa al servizio successivo.

Lo stesso Primo Levi, reduce da Auschwitz e autore, tra le altre cose, del celeberrimo e super citato Se questo è un uomo, non ha scritto che quel passato non sarebbe mai più dovuto tornare, ma «meditate che questo è stato». Non ha scagliato anatemi, non si è rivolto a un giudice o a un essere superiore perché impedisse il ripresentarsi di quella tragedia, ma ha addossato a ciascuno di noi la responsabilità di riflettere e trarre delle conclusioni su quello che è avvenuto.

Ma per meditare occorre che qualcuno continui a raccontare quel passato, che non si stanchi di raccogliere testimonianze e storie personali per metterle a disposizione di chi non ha tempo, possibilità o voglia di farlo; occorre che ci sia qualcuno che ci aiuti ad avere gli strumenti per farlo. E occorre anche concentrarsi sui bambini, per spiegare loro che quel passato è più vicino di quanto non pensino. C’è bisogno di spiegare che cosa significò per il fascismo la lotta ai diversi, cioè soprattutto agli ebrei, come essa facesse parte di un programma politico ben preciso volto a rafforzare il consenso intorno a sé e a “omogeneizzare” una mentalità collettiva.

Occorre ricordare che il primo dei provvedimenti destinati a codificare la separazione degli ebrei dal resto della popolazione riguarda la loro espulsione dalla scuola pubblica, il regio decreto legge del 5 settembre 1938 per la Difesa della razza nella scuola fascista, promosso dal ministro Bottai. Agli alunni ebrei fu proibito di frequentare la scuola comune a tutti i cittadini, così come ai docenti ebrei fu proibito di continuare a insegnare nella scuola che avrebbe dovuto essere la scuola di tutti.

Perché le leggi razziali, o meglio razziste, emanate nel 1938 e culminate con l’approvazione, il 17 novembre del regio decreto legge n. 1728 Provvedimenti per la difesa della razza, non furono un semplice segnale di totale accondiscendenza verso l’alleato tedesco in previsione dell’imminente conflitto, ma vanno invece interpretate come un prodotto autonomo del regime fascista. Un risultato legato al retaggio nazionalista che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale e che vedeva, ad esempio, l’affermazione delle colonie in Africa come simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane.

Certo, le leggi razziste del 1938 non sono le dirette responsabili dello sterminio, perché non c’è un legame intenzionale tra quelle norme e le deportazioni del 1943-45, ma non dobbiamo dimenticare che ne sono state una premessa necessaria. Senza le leggi, i censimenti, la discriminazione, l’isolamento sarebbero mancate le basi per la deportazione degli anni successivi. Il legame, e le responsabilità, tra quelle leggi e la storia di ieri sono forti ed evidenti.

Forse, allora, enigmistica a parte, l’esercizio della memoria potrebbe consistere anche nell’accogliere l’invito di Primo Levi a meditare su ciò che è stato per riflettere su questo presente e sulle leggi che lo governano, e magari per volgere lo sguardo anche al futuro, chiedendoci quali esiti ne potrebbero derivare.