Nella brown economy

di Andrea Bui*

Lo strascico di notizie a seguito della COP26 si è ormai già esaurito, corto come ormai tutte le notizie. Eppure il deterioramento ambientale prosegue la sua strada anche senza tweet di circostanza, anche se facciamo finta che non ci sia, o che in fondo si tratti di un problema lontano, che può essere rimandato. In tanti si dipingono di green, ma è giusto il tempo di un carro in maschera e poi si torna al solito tran tran. Insomma, abbiamo capito che il pianeta è in pericolo ma poi “occorre essere concreti”.  E l’Unione Parmense degli Industriali, riunita lo scorso 15 Novembre a Parma, ha interpretato appieno questo spirito di concretezza.

Dal tenore degli interventi si intuisce che, per gli industriali, la transizione ecologica può essere tutt’al più un buon claim per una campagna di marketing, ma – non scherziamo – lo sviluppo e la crescita si fanno col cemento. E tra le richieste più volte ripetute ci sono proprio quelle delle infrastrutture: la Tibre, l’aeroporto cargo, la fermata dell’Alta Velocità e tanto che ci siamo la diga di Armorano.

Tutte opere ovviamente irrinunciabili, indispensabili, per tutti. Addirittura, in chiusura dell’assise degli industriali parmensi, Pietro Ferrari, a guida della Confindustria regionale, parla di gap infrastrutturale per una regione come l’Emilia-Romagna. È chiaro dove devono andare, per gli industriali, i soldi in arrivo col PNRR. Devono essere utilizzati per facilitare le nostre (si fa per dire) industrie nella competizione economica internazionale. Il futuro green è un boschetto fotogenico in mezzo a un raccordo autostradale, avvolto nelle nebbie di un aeroporto cargo.

Il Pil e il profitto sono ormai gli unici indicatori di benessere presi in considerazione, perfino la pandemia di Covid è letta per lo più come un intralcio alla macchina della produzione, ogni altro aspetto di fronte al business è secondario, perfino la vita. Dalle parole dei suoi esponenti, gli industriali parmensi si dipingono come coloro che hanno sostenuto l’Italia nel momento più difficile, si descrivono come l’asse portante della nostra società rivendicando il ruolo di guida illuminata verso il futuro, caldeggiando riforme ma soprattutto esigendo finanziamenti e incentivi. Altrimenti chi la fa la transizione ecologica? Eppure basterebbe provare a guardare la realtà con uno sguardo anche solo un poco più attento per rendersi conto che qualcosa in questo racconto non torna.

Nella Parma che “ritrova la vetta della classifica” delle città più vivibili d’Italia, un merito che dalle parti di Ponte Caprazucca si appuntano senza timore del ridicolo, la Caritas parla di 35mila persone in difficoltà economica, cioè uno su sei. A Parma muore di lavoro un lavoratore al mese e viviamo nella zona più inquinata d’Europa, pur blaterando di Food Valley. Dopo 30 anni che pieghiamo i nostri territori alle esigenze di impresa, privatizzando tutto, spargendo cemento ovunque e lavorando sempre di più per stipendi ridicoli, è ormai evidente che la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e la società si impoverisce, mentre l’ambiente circostante continua a essere depredato. Ma davvero l’unica ricetta possibile per risolvere tutti i problemi è quella di regalare soldi pubblici alle imprese, la stessa soluzione adottata da 30 anni a questa parte? La stessa che ci ha condotti al disastro?

Ormai è chiaro che i problemi climatici ed ecologici stanno avendo, e avranno sempre più in futuro, impatti molto concreti sulle nostre vite: dai fenomeni atmosferici “estremi” sempre più frequenti, alla gestione della salute pubblica, fino ai movimenti migratori che seguiranno a questi eventi e oltre.

È necessario andare oltre il libero mercato e il dogma della crescita, se vogliamo pensare seriamente a una transizione ecologica, ed è difficile pensare anche solo alla transizione energetica nell’ottica di un aumento infinito dei consumi, elemento indispensabile per la crescita. C’è una contraddizione insanabile che rende la green economy un’illusione molto pericolosa. Non sappiamo se ci sarà mai una transizione ecologica, a dispetto di Cingolani. Sappiamo però che il conto di questa trasformazione imminente può essere la scusa per continuare imperterriti a produrre, facendo pagare il conto sociale e ambientale a chi ha già pagato lo “sviluppo” degli anni precedenti, un futuro più brown che green.

Oppure può essere l’occasione per ripensare il mondo che ci circonda: mettere in discussione il libero mercato e l’imperativo della crescita apre prospettive serie di migliorare la nostra vita. E magari dare una chance al nostro futuro.

*attivista di Potere al Popolo Parma