la Redazione
Il premio Sant’Ilario dovrebbe essere conferito, secondo statuto, a coloro che hanno contribuito a “rendere migliore la vita dei singoli e della comunità o ad elevare il prestigio della città”. Quest’anno una medaglia d’oro è andata alla “Gazzetta di Parma”, con una motivazione che inizia così: “è il più antico quotidiano italiano: il primo numero posseduto è del 19 aprile 1735, ma è certo che esistesse da prima. Da 285 anni racconta gli eventi e i personaggi del territorio, cercando sempre di essere lo specchio della città e della provincia”. Certo è bello che un giornale manifesti, con lodevole, emblematica franchezza, il proprio carattere menzognero ponendo per decenni sotto la testata una menzogna: “Fondato nel 1735”. È singolare però che a questa franchezza venga addirittura attribuito il valore di “elevare il prestigio della città”. La “Gazzetta” non venne affatto “fondata” nel 1735, questo lo sanno tutti, anche quelli che in Comune hanno elaborato la motivazione, i quali affermano infatti, in barba a quanto sta scritto sotto la testata, che esisteva fin da prima. Quale sia la logica, non si capisce. In realtà la “Gazzetta” non è stata “fondata” né nel 1735 né prima. Esiste soltanto un foglio di non si sa quale periodicità stampato a Parma nel 1735, senza alcuna testata, (molti lo hanno visto perché è stato riprodotto parecchie volte, molti lo possono vedere alla mostra in corso a palazzo Pigorini) che non ha niente a che fare, per mille e ovvi motivi, con la successiva e attuale “Gazzetta”. Tra l’altro, anche volendo ragionare in questo modo assurdo, la “Gazzetta” non sarebbe il più antico quotidiano italiano: a Mantova è stato trovato un simile tipo di foglio, stampato addirittura nel 1665, con conseguenti analoghe e ridicole rivendicazioni di maggiore antichità da parte della “Gazzetta di Mantova”.
Ma, al di là di queste considerazioni perfino banali, la sfacciata, esibita e premiata menzogna del “fondato nel 1735” serve almeno a rendere platealmente visibile quel condizionamento e manipolazione dell’opinione pubblica locale che è sempre stata la funzione intrinseca del giornale da quando esiste con la sua testata, cioè dalla seconda metà del Settecento (volendo prendere per buono che ci sia una qualsiasi continuità tra le varie serie della “Gazzetta” con quella di oggi, cosa che non è) ed è deprimente che il premio Sant’Ilario venga attribuito al quotidiano proprio con la motivazione: “di essere lo specchio della città e della provincia”.
La “Gazzetta” è nata come bollettino della Corte ducale borbonica poi, con un intervallo di una ventina d’anni, di Maria Luigia, insomma megafono del potere assolutistico, con quale rispecchiamento della realtà della città e della provincia si può immaginare. Con l’Unità d’Italia venne privatizzata, passando nelle mani di un gruppo di ultramoderati e di agrari che ne fecero uno strumento contundente utile alla loro visione politica che, ad esempio, prospettava la mitraglia per i braccianti che (forse) intendevano scioperare, o plaudiva alle cannonate di Bava Beccaris (“Il feroce monarchico Bava”) contro i poveracci di Milano.
Nel primo dopoguerra appoggiò il nascente fascismo poi, nelle furiose lotte di potere interne al regime, cercò di mantenere un proprio piccolo spazio come fiancheggiatrice ma nel giugno del 1928, il fascismo non aveva più bisogno di fiancheggiatori, venne assorbita dal “Corriere Emiliano”, organo della federazione fascista. La testata “Gazzetta di Parma” rimase, in piccolo, sotto quella del “Corriere Emiliano”. Nell’ottobre del 1941, per cercare di lusingare un ceto notabile che sentiva sfuggirgli di mano a causa della crisi bellica, fu lo stesso Mussolini a invertire le due testate: il giornale assunse il nome di “Gazzetta di Parma” (mentre “Corriere Emiliano” passava sotto, in piccolo) pur rimanendo naturalmente l’organo della federazione fascista. Fu in quella occasione che venne inventata la bufala genealogica del 1735, poi divenuta canonica.
Durante la Repubblica Sociale Italiana fu direttore della “Gazzetta” Pino Romualdi, uno dei fascisti più biechi (nel dopoguerra venne reclutato dagli americani) che, tanto per dire, in un articolo del 3 dicembre 1943, si rallegrava che “finalmente” gli ebrei italiani andassero “al campo di concentramento a conoscere la vita squallida del recinto reticolato, e a prepararsi ad un lungo viaggio verso le miniere”; in quanto a chi li aveva aiutati, “noi li vedremmo volentieri fucilati”. Se dobbiamo prendere per buona la motivazione del premio, anche Romualdi va assunto come specchio della città e della provincia.
Solo con la caduta del fascismo la “Gazzetta” ebbe un breve e unico periodo “democratico”, passando in gestione al Comitato di Liberazione Nazione, sotto la direzione comune di un socialista e di un liberale e poi, dopo la fine del CLN, a una cooperativa di tipografi.
Ma tutto ciò è storia, altamente significativa ma storia. La fisionomia della “Gazzetta” con la quale ci misuriamo oggi comincia nel 1948, con uno snodo nel 1963. Con l’avanzare della guerra fredda le forze padronali si posero l’obiettivo di impadronirsi del prezioso strumento giornalistico e ci riuscirono nel gennaio del 1948, poco prima delle decisive elezioni del 18 aprile, quando, con una asta chiaramente pilotata, la testata passò in proprietà alla Segea, società formata dalla Democrazia Cristiana, la Società Emiliana Esercizi Elettrici, l’Associazione Agricoltori e soprattutto l’Unione Parmense Industriali. Nessuno dei soci aveva la maggioranza ma nel 1963, dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la SEEE, senza più interessi da difendere, mise in vendita la sua quota, acquisita, tagliando l’erba sotto i piedi alla DC, dall’UPI, che divenne così padrona della SEGEA e quindi della “Gazzetta”.
Già dal 1948, dunque, seppure in condominio, ma ancora più dal 1963, l’Unione Industriali, vera Piovra della società e della moralità cittadina, fece del quotidiano un proprio ulteriore strumento di manipolazione dell’opinione pubblica. Brillarono i tempi di Baldassarre Molossi, direttore dal 1957 al 1992, luminoso liberale, che trovava i golpisti colonnelli greci popolari e necessari, anche se certo erano andati al potere in modo non del tutto regolare; che si entusiasmava per i grandi progetti modernizzanti del regime terroristico dello Scià in Iran (si è visto come è andata a finire), che all’epoca delle lotte per l’integrazione razziale negli Stati Uniti scriveva che erano i negri a non volere essere integrati, che in fondo erano loro i veri razzisti, tanto che, lo aveva visto coi suoi occhi su un battello sul Mississippi, invitati a sedersi sulle panchine riservate ai bianchi, quelli, chissà perché, non avevano voluto. Come cosa ovvia, il liberalissimo Molossi rifiutava sul giornale spazi pubblicitari (a pagamento) per le iniziative del Partito comunista.
Naturalmente anche dopo Molossi la “Gazzetta” rimase e rimane il tentacolo armato di penna della Piovra-UPI, segnalandosi, come tutti dovrebbero ricordare, e il sindaco Pizzarotti per primo, perché si tratta di fatti recenti, l’appoggio alla Giunta comunale di “pentapartito” coinvolta nella Tangentopoli parmense dei primi anni Novanta, l’esaltazione del ministro Pietro Lunardi, uomo dell’UPI, grande elargitore di milioni per opere meravigliose come la Metropolitana e il Ponte Nord, l’entusiasmo sfrenato per le Giunte Ubaldi e ancor più Vignali, anch’esse tentacoli dell’UPI finalmente e direttamente al governo del Comune. Quel governo abbattuto dalla magistratura sostenuta da grandi manifestazioni di piazza che hanno poi consentito l’elezione di Pizzarotti, elevando davvero “il prestigio della città”.
È insomma a dir poco paradossale che a premiare la “Gazzetta”, cosa che non si sono azzardati a fare nemmeno Elvio Ubaldi o Pietro Vignali, sia proprio la Giunta Pizzarotti. Ironia della storia, come diceva un vecchio filosofo tedesco? In realtà c’è poco da ridere. Siamo in politica, e in politica tutto ha un senso politico, anche il Premio Sant’Ilario.