di Casa delle donne Parma

L’intervista a Paola Donati comparsa ieri sulla “Gazzetta di Parma” suona come una pietra tombale sulla questione violenze a Teatro Due e sulla disponibilità ad una riflessione responsabile. Non ci sono stati segnali. Noi non sapevamo nulla. Non cedo ai ricatti. La responsabilità è solo e soltanto del regista.
Un modo di affrontare la questione che ci riporta indietro di anni, che non tiene conto di tutto lo sforzo fatto da molte e molti di noi per superare questo tipo di narrazioni da mostro in prima pagina, non solo distorte ma anche deresponsabilizzanti e incapaci di distinguere cosa genera e permette la violenza maschile sulle donne.
Ieri sera ci siamo incontrati in tanti. C’erano uomini e donne dei teatri della città, molti ragazzi e ragazze e persone indignate. Ci siamo visti senza uno scopo preordinato ma spinti da qualcosa che ci accomunava. E cioè dal sentire che tutto quello che sta seguendo la sentenza del Tribunale del lavoro di Parma – le reazioni arroganti, le prese di posizione timide, le strumentalizzazioni della destra più becera – non ci basta. Manca qualcosa.
Manca il dolore di tutta questa faccenda, manca la consapevolezza che una parte di noi è cambiata e questo dolore non è più disposta ad accettarlo. Come non accetta più che nulla cambi.
Cos’è che deve cambiare allora? Abbiamo chiesto le dimissioni della direttrice Paola Donati. E continuiamo a chiederle, perché sua era la responsabilità di vigilare, prevenire, ascoltare, tutelare. Continuiamo a chiederle perché la polvere non può tornare sotto il tappeto e qualcosa deve segnare il passo, qualcosa deve dirci che stiamo davvero cambiando. Si tratta di un capro espiatorio, come dicono alcuni? È una testa che cade in un sistema che si ricostruirà identico? Può essere il primo passo di un cambiamento, di un’assunzione di responsabilità?
Chiamiamolo come ci pare, chiamatelo come vi pare, ma cerchiamo di fare un passo avanti nella consapevolezza che ognuno di noi deve maturare rispetto al tema delle molestie e delle violenze in ambienti in cui sono sempre esistite, senza che noi fossimo capaci di vederle davvero. Le abbiamo avvertite e amaramente tollerate, come fossero parte di un sistema che per molti anni abbiamo sì considerato sbagliato e insopportabile, ma allo stesso tempo quasi “naturale” e dunque immutabile. Ci abbiamo convissuto tutti e tutte (“beh, se vuoi fare l’attrice – ha detto una persona a Federica Ombrato – lo devi un po’ mettere in conto che queste cose capitano”) come ci ha convissuto la direzione di Teatro Due.
Quando si dice che certi comportamenti erano noti a tutti si intende dire che all’interno del teatro e negli ambienti teatrali si sapeva che il regista in questione aveva particolari attenzioni per le attrici giovani, che amava rimanere in teatro da solo con loro fino a tarda notte, che esercitava pressioni di potere sulle più fragili o ambiziose e che dal suo letto, in qualche modo, si dovesse passare per andare avanti nella carriera.
Si sapeva di lui e di molti altri uomini di potere come lui. Perché il mondo è sempre andato così. E lo sappiamo tutti. È il conto che le donne nel mondo dello spettacolo (e non solo) si sono spesso viste presentare, chi più chi meno. Si sapeva, ma non lo si è voluto vedere e probabilmente anche a Teatro Due, finché Federica e Veronica non hanno denunciato, nessuno ha mai chiamato queste cose con il loro nome. Molestie. Violenza.
Ed è su questo che noi riconosciamo una responsabilità gravissima alla direttrice. Di non essere stata capace, in tanti anni, se non decenni, di riconoscere che ciò che tante, tantissime attrici hanno vissuto nel suo teatro ha proprio quel nome. Di aver sottovalutato, ignorato, normalizzato la violenza, come se fosse una tassa da pagare, uno scoglio necessario per il palcoscenico. Che è poi ciò che, a Teatro Due, l’ha resa possibile.
È questa la palude in cui la violenza germoglia: l’incapacità di vederla, di riconoscerla ancor prima di denunciarla. Ieri sera in assemblea si è parlato di diniego. La parola perfetta per raccontare quanto sta accadendo a Teatro Due: si nega tutto, a se stessi e agli altri, perché ciò che sembra contare, solo e soltanto, è salvare il teatro.
Come se noi volessimo affossarlo. Come se non fosse un bisogno anche nostro e della comunità intera salvare Teatro Due.
Il fatto è, però, che noi non vogliamo un teatro che rimuove, nega, allontana le responsabilità. Non possiamo permettere che le sofferenze e le ingiustizie che lì sono state commesse vengano cancellate. Vogliamo un teatro che sia capace di guardare l’abisso in cui anche i luoghi di cultura e bellezza possono cadere, che impari a comprendere le dinamiche che possono generare e hanno generato violenza. Vogliamo che le sue sale prove non siano più luoghi di umiliazione, che i sogni di chi lì studia non si traducano in incubi, che chi ci lavora non viva nel terrore di perdere il posto se esprime un pensiero critico. Vogliamo che le parole che il teatro porta sulla scena corrispondano a ciò che sta dietro le quinte. Vogliamo che Teatro Due diventi un luogo che combatte la violenza non solo con i regolamenti, i protocolli o i prontuari ma con la creazione di ciò che la impedisce: uno spazio sicuro, paritario, orizzontale.
Un luogo che questa direzione non potrà mai creare perché ha dimostrato non solo di non averne gli strumenti ma, con le risposte degli ultimi giorni, nemmeno di porsi quest’orizzonte.
È questa la nostra battaglia oggi: salvare Teatro Due e permettere a tutti e tutte noi di abitarlo con serenità.
