Gaza segna un punto di rottura senza ritorno

di Cristina Quintavalla

È un giudizio condiviso che le manifestazioni per la Palestina, culminate il 22 settembre, abbiano raggiunto un successo mai visto nella storia recente, non solo per i numeri dei manifestanti, ma anche per il sostegno della popolazione civile, che al passaggio dei cortei, solidarizzava e si riconosceva in qualche modo negli slogan dei manifestanti, applaudendo, facendo suonare le sirene, i clakson, alzando i pugni….

Stanno prendendo posizione contro il genocidio in corso intere categorie sociali, in forza del lavoro che svolgono, del ruolo che rivestono, del posto che occupano nella società. Non si era mai visto che anche i preti, in quanto tali, organizzassero un corteo e decidessero di manifestare, di prendere la parola nello spazio pubblico per dire che la neutralità non è un’opzione ma complicità. Come a dire che non potrei più fare il prete e predicare, il medico e curare, l’artista e recitare, l’insegnante e insegnare, senza prendere posizione, senza dire da che parte sto della storia. Senza dire perché preghiamo, insegniamo, curiamo, a quale fine, per quale umanità, per quale convivenza di uomini, donne, popoli, per quali diritti, e quali punti di riferimento certi. Come se la neutralità o l’indifferenza tradissero la precarietà di ogni senso, lo sfaldamento di quei riferimenti che ci guidano lungo il sentiero percorso nella nostra vita, perché poggi su un senso.

Certamente un risveglio umanitario sorprendente quanto potentissimo, che vien su inaspettato dopo decenni della peggiore sotto-cultura propinata per imbestialire, isolare, odiare, renderci insignificanti e nonostante la adorazione della “religione della guerra” al cui culto si è prostrata tutta la stampa mainstream, che viene propinata via etere, su carta stampata, sui social.

Ma non c’è solo questo. Le impressionanti manifestazioni di piazza vanno oltre e investono proprio la vocazione di un ordine economico e sociale alla guerra. È un no senza se e senza ma a qualunque piano di guerra. È una ribellione inappellabile alla guerra, alla violenza, alla distruzione, che non sono dei punti di vista di stati e classi dirigenti del mondo civilizzato sui futuri destini del mondo, in difesa della democrazia, ma interessi criminali.

Emerge dalle macerie di Gaza e di quelle dell’Ucraina, preannunciato dal fumo delle bombe, il profilo criminale di un’economia di guerra chiamata sempre più a svolgere la funzione di volano della ripresa economica. La crisi egemonica dell’economia statunitense e quella europea, sulla soglia della stagflazione e della recessione, in crisi produttiva, attraversata da processi di deindustrializzazione, alimentano il complesso industriale-militare, che non può che fomentare le guerre, chiamare altra distruzione e impoverire le popolazioni. I piani di riarmo delle cosiddette democrazie europee, che ci costano 381 miliardi di euro ogni anno, a cominciare dalla Germania, sono impressionanti, ma cozzano contro l’indisponibilità dei giovani alla leva volontaria.

Ha suscitato sgomento nelle coscienze a livello internazionale l’orgogliosa dichiarazione rilasciata da Smotrich di voler fare di Gaza, dopo la pulizia etnica, una “miniera d’oro” per le immobiliari, sostenute da fondi finanziari e società di investimento: sotterrando i miserevoli resti della mattanza, saranno eretti dei resort per una razza superiore che non sarà colta da conati di vomito prendendo il sole sulle sue spiagge. Ancor più dell’aberrante cinismo, colpisce la miseria della prospettiva. A questo siamo? Ad alimentare processi di finanziarizzazione e di estrazione della rendita sulla carneficina.

Arsenali di armi efferate, sempre più distruttive, e rendite immobiliari, espressione di speculazioni finanziarie, per ricostruire quanto è stato distrutto, sono oggi il macabro profilo senza luce di quel che resta del “mondo civilizzato”.

Il genocidio dei palestinesi sta segnando nella coscienza civile e politica di masse considerevoli un punto di rottura.

Politico, innanzitutto. Centinaia di migliaia di manifestanti sopravanzano i loro partiti di riferimento. Non se ne curano. Vanno oltre le parole, le dichiarazioni. Ne disattendono il servilismo, il tatticismo, le ambiguità, le scelte compromissorie. Non hanno, né esprimono una rappresentanza politica. Si tratta di un momento di grande distacco tra la classe politica e le masse. Sopravanzano anche le sigle sindacali, imbrigliate dentro logiche di mediazione e identitarie.

Scaturiscono dal movimento linee di faglia attorno alle quali si vanno definendo nuove direzioni di marcia. Il “blocchiamo tutto” è una parola d’ordine che esprime una valenza potentissima. Lo è dal punto di vista dei rapporti di forza, che certo si definiscono attraverso la capacità di fermare comunicazione, scambio, distribuzione; lo è dal punto di vista dei rapporti di classe, che restituiscono centralità al mondo del lavoro, che riprende un protagonismo che nei decenni passati era stato scientificamente affossato. I portuali di Genova, che si sono rifiutati di inviare armi, i lavoratori che hanno bloccato i porti di Venezia, Genova, Livorno, gli operai della ex-GKN sulla FI-PI-LI, che resiste da tre anni ed è in lotta solidale con loro, chiamano a scioperare. Occorre che le fabbriche si fermino per mettere in ginocchio una classe dirigente inetta e ipocrita, servile e complice.

Gli scioperi che nel marzo 1943 dalle fabbriche di Torino si estesero alle grandi città del nord rivendicando la pace contro la guerra fascista segnarono un punto di svolta fondamentale, che determinò nel luglio dello stesso anno la caduta del fascismo e l’avvio della Resistenza.

La questione palestinese va molto oltre le sorti di un popolo, per investire il portato del plurisecolare governo imperiale del mondo, che pur con varianti si protrae dall’età moderna ai nostri giorni e che non può che riprodurre indefinitivamente la colonialità, la gerarchizzazione e la subordinazione dei popoli, con la spoliazione delle loro risorse.

Un ordine, o meglio un disordine mondiale, che a Gaza ha tolto la maschera, si appalesa in tutta la sua ferocia e ipocrisia, e che inghiotte, moderno Crono, i suoi stessi figli.