di Franco Ferrari
In occasione dell’anniversario della scomparsa di Guido Picelli, in terra di Spagna, il 5 gennaio 1937, pubblichiamo un nuovo articolo di Franco Ferrari già edito sul sito transform-italia.it, che ringraziamo per la collaborazione (ndr).
La ricerca sulla vita di Guido Picelli offre ancora la possibilità di esaminare nuovo materiale documentario e con questo ricostruire con maggiori dettagli alcuni degli eventi più significativi della sua biografia. In questo articolo ci focalizziamo su alcuni momenti per i quali possiamo fornire una ricostruzione più accurata di quella che abbiamo delineato nel volume Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze[i] (link alla recensione su voladora.noblogs.org). Il criterio seguito è sempre quello di attenersi all’esame scrupoloso della documentazione e delle testimonianze disponibili, evitando ricostruzioni romanzate o leggendarie che lasciamo volentieri ad altri.
Le accuse del “Biondo” a Picelli
La comunità dei confinati comunisti di Lipari venne attraversata da numerosi contrasti di cui Picelli fu certamente parte attiva. Come ricorda Alessandra Pagano nel suo libro sulla vicenda dei confinati nell’isola siciliana, tra di essi vi erano ben sette ex deputati comunisti, tra i quali, oltre a Picelli quello che qui ci interessa richiamare è Luigi Repossi. Si trattava di un esponente di primo piano della Frazione di Sinistra che contestava la svolta impressa al partito nel congresso di Lione sotto l’impulso di Gramsci, Togliatti ed altri. Si trattava dei cosiddetti “bordighisti” anche se questa personalizzazione era respinta dagli interessati.
La struttura comunista a Lipari si basava su un collettivo che era suddiviso in gruppi di cinque o sei militanti e doveva operare in condizioni di clandestinità. Secondo la Pagano, tentativi di “deviazionismo” serpeggiavano già nel 1927. “A questa tendenza, che faceva capo al gruppo dell’ex deputato comunista Luigi Repossi e di Pompilio Molinari, si contrapponeva Guido Picelli, anch’egli ex deputato capogruppo della tendenza centrista, vicina alla linea del Congresso di Lione”, scrive la storica.
Se inizialmente “aveva prevalso la tendenza Picelli” questa posizione veniva “inficiata poi dall’arrivo in colonia di Repossi. Questi scontri avevano indotto la direzione della colonia a chiudere la mensa e a pedinare Repossi (…)”.
Repossi era stato tra i firmatari delle tesi della sinistra alla conferenza clandestina comunista di Como del 1924, mentre nel giugno dell’anno successivo dava vita insieme ad altri al Comitato d’Intesa, struttura condannata per frazionismo e sciolta d’imperio dalla direzione del partito. Repossi venne poi espulso dal partito nel 1929 e non vi sarà riammesso nemmeno dopo la seconda guerra mondiale.
Sulla base di due criptogrammi inviati da Molinari alla centrale del PCI, intercettati e decifrati dalla polizia, si poteva accertare che il grosso gruppo pugliese, composto da 21 aderenti “si presentava come il più compatto della colonia nell’ambito della corrente di centro capeggiata da Picelli”[ii].
Lo stesso Picelli dava conto di questi contrasti interni nella relazione compilata a Parigi, datata 5 marzo 1932, quindi redatta pochissimi giorni dopo il suo arrivo nella capitale francese e consegnata al centro estero del PCI. I conflitti erano riassunti in questi termini:
“Nel settembre 1927 per dissensi avvenuti a causa dell’atteggiamento frazionistico assunto dai cosiddetti sinistri, capeggiati allora da Repossi, i compagni si divisero in tre gruppi: il nostro o per meglio dire quello cui io facevo parte e che sosteneva e ha sempre sostenuto le direttive del centro italiano, il gruppo repossiano e quello neutro.
Una lunga relazione inviata da Lipari da parte repossiana per farla pervenire al centro, è caduta nelle mani della polizia che ordinò immediatamente l’arresto di circa duecento confinati (ndr: è possibile che si tratti dei criptogrammi di Molinari a cui si è accennato sopra).
I sinistri – proseguiva Picelli – non hanno mai disarmato per cui i dissensi sono sempre esistiti, più o meno acuti, a seconda dei momenti e delle circostanze in una alternativa di fusioni e di scissioni di gruppi.
Tutto ciò, naturalmente, nuoceva molto al prestigio del nostro Partito, ma la piaga era insanabile e malgrado l’opera continuamente svolta dai parecchi compagni, gli elementi corrosivi persistevano, più o meno mascherati da motivi diversi.
Data l’impossibilità, per l’organismo massimo dirigente di intervenire ed a noi di riferire, molti si levavano spesso a parlare in nome del Partito con la pretesa di rappresentare l’autorità e quindi, espulsioni, riammissione, e punizioni varie, date in nome di questo o di quel gruppo.
Ultimamente i compagni considerano il gruppo di Lipari una Sezione autonoma del Partito affermando di essere a ciò autorizzati”[iii].
Una volta arrivato a Parigi, Picelli viene impegnato come conferenziere in diversi centri della Francia sotto l’egida dei Comitati Proletari Antifascisti (CPA), una struttura che si voleva formalmente unitaria ma di fatto sottoposta alla stretta direzione comunista[iv].
I conflitti di Lipari però continueranno in qualche modo ad inseguire per qualche tempo il comunista parmigiano. In particolare al Partito arrivava una lettera, fortemente polemica nei suoi confronti e anche di Paolina che aveva sposato a Lipari, firmata “Biondo”. Non è datata, ma la si deve collocare per il suo contenuto qualche tempo dopo l’inizio dell’attività di propaganda politica svolta da Picelli tra le comunità di emigrati italiani attivi in Francia e prima del luglio, dato che l’autore parla del luglio precedente facendo riferimento al 1931. Quindi tra aprile e giugno.
A questo documento fa riferimento Bocchi nel suo ultimo libretto con questo capoverso:
“La ritrovata libertà francese di Picelli fu offuscata da un rapporto calunnioso che un compagno italiano a firma “Il Biondo” (forse il triestino “Lino il Biondo”?) inviò ai dirigenti del Pcd’I a Parigi. La principale accusa a Picelli era di non avere partecipato, in disaccordo con gli altri internati, a uno sciopero della fame a Lipari. All’accusa Picelli rispose con un lungo memoriale sul suo internamento al confino, ma quest’ombra gettata sul suo nome con un’accusa banale e risibile lo seguì anche in futuro”[v].
Si può ritenere infondata l’idea che Picelli scriva “un lungo memoriale” in risposta alle accuse del “Biondo”, se il riferimento è alla relazione redatta ai primi di marzo. Questa è scritta prima di iniziare a girare la Francia per il partito, mentre il documento polemico è sicuramente successivo all’inizio di questa “tournée”.
Quanto all’ipotesi che l’autore sia un certo “Lino il Biondo” vedremo successivamente che non ha fondamento. Suppongo che Bocchi si richiami alla testimonianza di Francesco Fortini, secondo il quale a Barcellona, nel 1936, Picelli avrebbe incontrato due triestini, uno dei quali sarebbe stato “Lino il Biondo”. Ma torneremo successivamente sulla reale identificazione del “Biondo”.
Vale la pena, per gli elementi di conoscenza che fornisce e per il contesto politico nel quale deve essere inserito, riportare integralmente il testo di questo documento.
“Cari compagni
Nell’apprendere che Picelli si trova in Francia dove tiene delle riunioni indette dal partito, tengo a rendere brevemente noto a questo, il contegno che tenne Picelli a Lipari.
Tralasciando di notificare (non essendo stato presente) certi suoi atteggiamenti che provocarono a Lipari gravi incidenti e numerosi arresti, egli fu espulso dal partito per indegnità nel dicembre 1930. In occasione della riduzione da parte del governo del sussidio ai confinati, si prospetto in accordo con tutti gli altri partiti di fare una agitazione, egli venne avvertito la sera prima da me, suo capo gruppo, di rifiutarsi alla mattina dopo di prendere il sussidio, dopo qualche preoccupazione, in prevedenza degli arresti, disse di eseguire l’ordine, in pratica così non fu, non solo per tutti gli otto giorni che duro l’agitazione egli con meraviglia di tutti, compagni e non, prese il sussidio, ma fece propaganda perché altri lo pigliassero, e quando all’unanimità i compagni decisero la sua espulsione, alla comunicazione che gli feci, mi rispose che: dopo la farsa, la commedia, la tragedia, ci sarà bene qualcuno che mi darà ragione. Difatti a quanto sembra non si è sbagliato. Cosicché i compagni che per otto giorni rifiutando il sussidio si privavano del più stretto necessario ed in parte subirono in seguito 55 giorni di carcere, tuttocio per l’onorevole si trattava di farsa e di commedia. Sua moglie poi, nell’estate del 30, trovandosi il marito in carcere assieme ad altri 70 confinati, si associo ad una delle più fegatose parrocchie di anarchici dove trovava giornalmente occasione di dire male dei comunisti arrivando persino a dei provocatori ricatti che si poterono appianare, e per conseguenza evitare tanti arresti, per l’intromissione di qualche amico. Agli ultimi del luglio scorso approfittando che io ritornavo a casa, l’organizzazione mi incarico di riferire che il Picelli aveva l’intenzione di inviare all’interno la moglie per fare interessare il partito sulla sua personale situazione in vista al suo ritorno a casa che doveva avvenire dopo 4 mesi. Non appena fui a Venezia, ai primi dell’agosto scorso espletai a mezzo del corriere l’incarico avuto mettendo appunto in guardia il partito sulla prossima venuta della moglie del Picelli.
Con la certezza che quando avrete esaminato l’autenticità di quanto vi dico sarete del mio parer che il Picelli è il meno adatto a parlare nelle riunioni in nome del partito.
Vi saluto. Biondo”[vi].
Come si vede il tono è particolarmente aggressivo e addirittura si dà conto di una “espulsione” di Picelli dal Partito Comunista per “indegnità” avvenuta nel dicembre del 1930. La polemica coinvolge anche la moglie Paolina, la quale si sarebbe associata alla “più fegatosa parrocchia di anarchici”. Questa lettera ci conferma quanto risultava già intuibile, ovvero che l’assunzione della moglie di Picelli alla delegazione commerciale sovietica (dove guadagnava, secondo la polizia, le mitiche “1.000 lire al mese”[vii]) era dovuta ad un intervento diretto del PCI.
Ora si tratta di individuare l’autore di questo testo e di comprendere quali siano state, se ci sono state, le conseguenze per Picelli.
Il testo ci fornisce già diverse indicazioni importanti. Si tratta certamente di un comunista veneziano (“non appena fui a Venezia”) dato che normalmente i confinati dovevano tornare nel loro luogo di residenza. Inoltre sappiamo che il “Biondo” aveva lasciato il confino di Lipari nel luglio del 1931 (“agli ultimi del luglio scorso approfittando che io ritornavo a casa”).
Sono circa una decina i comunisti veneziani che hanno frequentato la “villeggiatura di Lipari”. Tra questi, il principale indiziato quale autore del documento è sicuramente Bruno Zecchini. Sappiamo che era di Venezia e, secondo la scheda contenuta nel database Antifascisti in Spagna[viii], aveva lasciato il confino nel luglio 1931. Abbiamo poi un’ulteriore conferma dalla scheda biografica dedicatagli dal Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier francese (comunemente detto Maitron, dal cognome del suo promotore) e redatta da Philippe Bourrinet su “Bruno Zecchini, detto Il Biondo”, nato a Venezia nel 1903[ix]. In questo testo l’autore, storico del movimento bordighista, colloca la fine del confino a Lipari nel 1932, ma si tratta certamente di un errore. Sia la nota del database dell’Aicvas già citata, sia i necrologi pubblicati dai giornali bordighisti nel 1967 (“Il Programma Comunista” e “Le Proletaire”[x]), fanno riferimento alla liberazione di Zecchini nel 1931.
Una volta rimesso in libertà, Zecchini si reca in Belgio dove si trova Ottorino Perrone, marito di sua sorella Ida Zecchini e principale esponente dei bordighisti con lo pseudonimo di Vercesi. Il “Biondo” aderisce alla frazione di sinistra e verrà espulso dal PCI nel febbraio 1933. Successivamente si recherà in Francia dove resterà anche dopo la guerra per militare nel piccolo gruppo di bordighisti che fanno capo a “Programma Comunista”. Al momento della scomparsa era il segretario della sezione parigina di questa organizzazione antistalinista.
Evidentemente a Lipari, Zecchini faceva riferimento alla fazione guidata da Repossi e contrastata da Picelli. La polemica bordighista contro Picelli non si limiterà però alla lettera scritta nella prima metà del 1932. Nell’archivio del PCI si trova anche questa sintetica nota:
“164 ha incaricato 941 di informare il P. che molti compagni non approvano l’uso che il P. ha fatto di 1375, cioè di fargli fare dei comizi e di averlo valorizzato come ex confinato, dato il suo contegno tenuto al confino in occasione dell’agitazione contro la riduzione de sussidio. (Dal rapporto di 941 – gennaio 1933)”[xi].
Il testo è chiaro nel contenuto, perché rimanda sinteticamente a quanto scritto dal “Biondo” qualche mese prima, ma va decifrato per quanto riguarda i riferimenti alle persone. 164 rimanda a Repossi, 941 è Natale Premoli e 1375 è naturalmente Picelli.
Natale Premoli, milanese come Repossi che aveva certamente conosciuto agli inizi della sua militanza politica, era stato arrestato il 1° marzo 1930. Non era al confino a Lipari, bensì incarcerato a San Gimignano e a Civitavecchia, quindi non era testimone diretto dei conflitti tra le correnti comuniste nell’isola. Nel novembre 1932, venne rilasciato anticipatamente beneficiando dell’amnistia promulgata in occasione del “decennale” del regime fascista. Una volta uscito dal carcere espatriò con l’aiuto del PCI e si installò a Bruxelles. Nel gennaio del 1933 tenne un rapporto al centro estero nel quale si faceva portavoce delle critiche a Picelli. Premoli morirà a Mosca vittima dal terrore staliniano[xii].
Quando vengono nuovamente riportate le critiche al comportamento di Picelli, Luigi Repossi era già stato espulso dal PCI per le sue posizioni di opposizione da sinistra alla politica del partito. Inoltre, l’ex deputato di Parma era arrivato a Mosca nell’agosto del 1932 e di queste accuse non risulta traccia nell’ulteriore documentazione disponibile. D’altra parte i suoi accusatori (Zecchini e Repossi) in momenti diversi erano stati eesclusi dal PCI e, considerato il settarismo dell’epoca, le loro dichiarazioni potevano semmai essere considerate titolo di merito.
Le polemiche di Lipari consentono anche di comprendere meglio l’accanimento con il quale “Prometeo”, il giornale bordighista pubblicato a Bruxelles, dà conto delle assemblee nelle quali interviene Picelli in Francia. Sono ben quattro gli articoli che gli vengono dedicati e oltre alla polemica politica non mancano toni di irrisione personale. Si ironizza di “gesti teatrali e tutta una gamma di intonazione della voce”, “poesia di pessimo gusto”, per poi definire la sua esposizione “confusa, disorientata, piena di inesattezze politiche, intercalata da qualche passaggio poetico-sentimentale”, “l’onorevole è la cima parmigiana” e così via. Si potrebbe supporre che in questi articoli, non privi di astio, si ritrovi anche la mano del “Biondo”[xiii].
Per uno dei paradossi di cui è ricca la storia, Bruno Zecchini e Guido Picelli avrebbero potuto incrociarsi nuovamente in Spagna. A metà agosto del 1936, in conflitto con la maggioranza del gruppo bordighista, Zecchini è tra coloro che vanno a combattere in Spagna. Questi militanti si presentarono inizialmente alla caserma della CNT ma entrarono rapidamente in conflitto con gli anarcosindacalisti e allora si trasferirono alla Caserma Lenin del POUM[xiv]. Quando entrò in vigore la militarizzazione, ovvero l’inquadramento delle formazioni che facevano capo a partiti politici o sindacali all’interno dell’esercito regolare (che loro consideravano “borghese”), Zecchini smise di combattere e si ritirò per qualche mese nelle retrovie a Barbastro, in Aragona, per fare il meccanico di camion.
L’arresto di Picelli a Fontenay sous Bois
La presenza di Picelli in Francia dura dalla fine di febbraio 1932 fino ai primi di luglio dello stesso anno. E’ la polizia francese a mettervi fine bruscamente con l’arresto e l’espulsione verso il Belgio. Ma certamente la permanenza di Picelli oltralpe era destinata a non durare, dato che già alla fine di aprile, nella lettera che scrive a Togliatti per informarlo del felice esito dell’espatrio clandestino della moglie, organizzato grazie al sostegno del PCI, Picelli fa riferimento al suo futuro trasferimento a Mosca.
Nella missiva, datata 30 aprile, Picelli scrive:
“Ora mia moglie chiede di partire con me, perché qui, sola, senza mezzi, senza lavoro e senza conoscenza della lingua nuova, si troverebbe nuovamente in serio imbarazzo.
Oltre a questi motivi, già importanti, io lo desidero a mia volta perché nell’U.R.S.S. completerebbe la sua educazione politica. Inoltre potrebbe rendersi utile in qualità di contabile o in altro genere di lavoro”[xv].
Paolina si era licenziata dalla delegazione commerciale sovietica il 28 aprile, infatti spiega Picelli “aveva da poco riscosso lo stipendio” e questo le permise di venire dall’Italia “con mezzi propri”.
Per alcuni mesi, come abbiamo visto, l’ex deputato comunista gira la Francia per incontrare le comunità di immigrati italiani e attivarli nella solidarietà ai prigionieri politici nelle carceri di Mussolini o nelle isole di confino. Attività nella quale viene regolarmente seguito sia dagli informatori della polizia italiana che dai militanti della “frazione di sinistra” del Partito.
L’intenzione di trasferirsi a Mosca, con l’obbiettivo di entrare in una accademia militare dell’Armata Rossa, desiderio che non si realizzerà, è molto probabilmente alla base del comportamento di Picelli al momento del suo arresto. Comportamento che un militante del PCI troverà strano.
Il racconto dell’arresto e della sua espulsione, lo stesso Picelli lo affida ad una lettera scritta da Bruxelles il 5 luglio del 1932 che riportiamo integralmente:
“Caro Barone
Sono arrivato a Bruxelles il 4 alle ore 8 circa del mattino.
Il pomeriggio del sabato 2 corr. sono intervenuto al Congresso della Regione Parigina ma non potetti prendere la parola, come il compagno che era con me avrà riferito, perché non c’è stato il tempo sufficiente. La presidenza del congresso però mi aveva assicurato che avrei parlato il giorno dopo e cioè domenica nel pomeriggio.
Alla sera del sabato sono andato a Fontenay. Sono arrivato sul posto ove aveva luogo la festa alle dieci circa ove io e qualche compagno abbiamo notata la presenza nel caffè seduti ad un tavolo, due individui dall’atteggiamento sospetto. Alle ore 11 mentre mi trovavo io pure nel caffè sono stato arrestato insieme al compagno. Siamo usciti ed un gruppo di operai ha tentato di reagire in modo energico circondando uno degli agenti. Quello che mi stava vicino, mi disse di aver visto uno del gruppo con una rivoltella. Ho risposto che non poteva essere e dopo aver detto ai compagni che io non correvo alcun pericolo grave l’agente mi ha invitato a seguirlo mentre l’altro rimaneva sul posto alle prese col gruppo. Poco dopo sono arrivati guardiani in rinforzo. Io in un’auto sono stato subito portato a Parigi alla Prefettura di Polizia e trattenuto. Al mattino della domenica mi hanno comunicato che dovevo subito uscire dal territorio francese. Alla sera alle ore 10 e cinquantacinque minuti, un agente mi ha accompagnato fin sul treno rilasciandomi un foglio di via per Jeumont stazione di frontiera. Qui era ad attendermi il Commissario di Polizia che ha ritirato il foglio.
Mi ha fatto entrare in una sala d’aspetto. Alle quattro mi ha accompagnato in paese indicandomi la strada che avrei dovuto fare a piedi per giungere alla vicina stazione della frontiera belga (Erquelinnes, ndr la parola scritta da Picelli non facilmente decifrabile è diversa ma si tratta del paesino belga immediatamente dopo la frontiera e attaccato alla francese Jeumont). A questa stazione sono riuscito, credo inosservato, a salire sul treno e partire.
A Bruxelles, mi sono prima recato all’indirizzo di Rue des Alexiennes ove sono stato ricevuto con diffidenza dicendomi di non sapere nulla. Mi hanno detto di andare alla sera al S. Ro. Allora ho pensato di presentarmi al compagno di rue Jorez n. 1 ove mi è riuscito parlare con lui.
Ti prego di informare i compagni di qui e di farmi avere il documento con sollecitudine.
Ti saluto fraternamente. Picelli Guido”[xvi]
Alla serata tra il conviviale e il politico che si svolge a Fontenay sous Bois, a pochi chilometri da Parigi, sono presenti altri esponenti del PCI. Uno di questi che trova poco comprensibile l’atteggiamento “mansueto” di Picelli nei confronti della polizia, scrive alla segreteria nazionale dei gruppi italiani del PCF. Riporto integralmente il testo della lettera (lasciando inalterati i numerosi errori ortografici):
“Compagni
Tengo a mettervi a conoscenza che sabato a Fontenay s/Bois fu arrestato il comp. Picelli e il comp. Pietro della Segg. P. nelle seguenti condizioni.
Due poliziotti in borghese si trovavano nella sala già fino dalle ore 20 precise avvisati già da prima che un ex Deputato del P.C.I. avrebbe dovuto parlare, individuarono i nostri due compagni fin dal suo (sic) arrivo e alle ore 23 circa li presero e li invitarono a seguirli e quindi partirono.
Io credetti in un primo istante vedendo il gesto eroico di queste due canaglie che essi fosero secondati al di fuori da qualche altro gruppo in divisa e quindi non opposi subito nella sala alcuna resistenza al suo aresto. Uscirono e io li seguii a qualche passo, e visto che al di fuori non cera nessuno e che solo queste due canaglie li portavano via invitai gli operai a seguirmi per impedire il loro arresto.
Subito un forte gruppo di operaio mi seguirono e si corse a dietro che si trovavano a cento metri distante e invitai i due nostri compagni a tornare in dietro. Il comp. Pietro ascolto subito il nostro intervento e torno indietro così fu salvo. Picelli invece opose una resistenza feroce contro di noi e non vuole esere difati liberato dicendoci di non ocuparsi di lui e invitando gli operai a continuare il ballo che per lui era nulla. Le raggioni per cui lui a preso questo ategiamento io non lo so ad ogni modo fu poco simpatico e gli operai lo comentavano malamente.
Salvatore”[xvii]
Il compagno Pietro di cui si parla e che riesce a sfuggire all’arresto grazie alla mobilitazione dei compagni presenti è certamente Pietro Dal Pozzo, dirigente del PCI nella regione parigina e responsabile del Soccorso Rosso. Sull’identità di Salvatore, che abbiamo potuto accertare al di là di ogni dubbio, torneremo successivamente.
Nell’archivio del PCI si trova anche una breve nota dattiloscritta che precisa: “Qui unite vi sono due pratiche, una è una relazione del compa Salvatore sull’arresto di Picelli, c’è un commento di Sergio”. Il Sergio in questione è certamente Giulio Cerreti, che era segretario dei gruppi di lingua italiana del PCF.
Non disponiamo di quanto commenta “Sergio”, ma possiamo verificare la valutazione del PCI sulla base dell’articolo pubblicato su “Fronte Indipendente” poco dopo gli eventi. Nel riferire dell’arresto, il foglio comunista scrive:
“Il compagno Picelli è stato arrestato e dopo due giorni di permanenza in prigione, espulso ed accompagnato alla frontiera. L’intervento degli operai di Fontenay al momento dell’arresto avrebbe potuto liberarlo, ma egli ha preferito non dare altre vittime alla reazione francese e dimostrare in modo lampante agli occhi di questi operai e di tutti i lavoratori immigrati che per i comunisti non vi è libertà di parola, che i comunisti sono perseguitati in Francia allo stesso modo che in tutti gli altri paesi (…)”[xviii].
In questo modo il Partito tiene a fare sapere che il comportamento di Picelli era stato corretto, nonostante le perplessità sollevate da Salvatore e che sarebbero state condivise anche dai lavoratori presenti.
Su questa vicenda abbiamo anche una successiva testimonianza, del tutto convergente al di là di qualche differenza di dettaglio, di Giovanni Mezzadri. Nato a Costa di Tizzano, in provincia di Parma ed emigrato in Francia per lavoro nel 1930, si era iscritto al PCI l’anno successivo. Mezzadri, che era presente, l’ha così raccontata:
Nel 1934 (ndr: in realtà 1932), a Fontanay sous Bois, comune della regione Est Parigina, in una festicciola tra italiani. Un compagno di Parma detto Frisé (Riccio) mi disse: “hanno arrestato Picelli” (ndr: Frisé è Achille Benecchi che sarà poi in Spagna nel Battaglione Garibaldi).
“Dove? Quando?” gli chiedo.
“Era lì, non l’hai visto? Quello grande, vestito di nero, con i baffi”.
“Andiamo a liberarlo” gridai. E, mentre correvo, mi seguirono dei giovani che mi avevano sentito. Nell’oscurità lo vedo, tra due sbirri in borghese, e in dialetto gli dico:
“Sono un parmigiano e sono venuto a liberarti”.
“No, ragazzi non dovete compromettervi; mi espellono, ma fra poco partirò dalla Francia, mentre voi bisogna che lavoriate”[xix].
Questa testimonianza, che arricchisce di pathos il racconto dell’arresto, conferma le ragioni del comportamento di Picelli che non solo voleva evitare l’arresto di altri suoi compagni, ma sapeva di dover comunque lasciare la Francia entro poco tempo. Forse in questo modo aveva anche voluto accelerare il suo trasferimento in Unione Sovietica.
Alla ricerca del “compagno Salvatore”
Picelli è costretto a lasciare la Francia dall’intervento della polizia francese, ma la sua destinazione sovietica era già decisa. Accompagnato al confine col Belgio vi resterà poche settimane. Ai primi di agosto inizia il viaggio verso Mosca che si completerà alcune settimane dopo. La permanenza a Mosca durerà poco più di quattro anni e già alla fine di febbraio del 1936, persa la speranza di entrare in una accademia militare sovietica, inizia a chiedere di tornare prima in Francia e poi, quando scoppia la guerra civile, in Spagna. Arrivato a Parigi a metà ottobre entra in contrasto col centro estero del PCI, spinto dal desiderio di mettere le sue idee militari al servizio del fronte popolare spagnolo. Convinto da Michele Donati, che aveva conosciuto a Lipari e con il quale aveva stretto amicizia a Mosca, entra in contatto con i socialisti massimalisti e attraverso questi con il POUM (Partito Operaio Unificato Marxista).
Picelli lascia Parigi quasi certamente venerdì 6 novembre, dopo avere incontrato pochi giorni prima il dirigente del POUM Julian Gorkin che gli ha promesso di affidargli la guida di una compagnia di miliziani che stanno combattendo in Aragona. Secondo tutte le fonti, a Barcellona, dove per alcuni giorni risiede alla caserma Lenin, controllata dai poumisti, avrebbe incontrato qualcuno che lo avrebbe convinto o, secondo alcuni, costretto, ad andare Albacete, sede delle Brigate Internazionali.
Valentin Gonzales (ex comunista passato all’anticomunismo) racconta di tre uomini, tra cui Vittorio Vidali, che praticamente lo avrebbero rapito. Per Gorkin, anch’egli diventato propagandista antisovietico nella guerra fredda, invece è un solo “straniero” a convincerlo a seguirlo proprio mentre sta per partire per Huesca e dal suo racconto si capisce che vuole far intendere che si tratti di un agente sovietico. Per Consani, dirigente del PSI massimalista nonché agente doppio dell’Ovra, incontrò un suo amico che lo convinse a tornare nelle file degli Internazionali. Per Francesco Fortini, Picelli si sarebbe trovato faccia a faccia con “due triestini” (impallidendo alla loro vista), di cui uno sarebbe stato un non meglio identificato “Lino il biondo”, che l’avrebbero costretto a seguirli. Sarà poi l’autore anarchico Furlotti a trasformarli, senza alcuna prova, nei “sicari” di Picelli.
Un’altra versione, meno melodrammatica, l’ha fornita Bocchi il quale ha scritto:
“Il vecchio compagno e amico Ottavio Pastore viene mandato in missione a Barcellona per convincere “il Ribelle” (…) ad aderire alle Brigate internazionali”[xx].
In un articolo successivo Bocchi preciserà la fonte di questa notizia:
“Fu Ottavio Pastore, che conosceva Picelli fin dalle Barricate di Parma, che convinse il comandante parmigiano a lasciare il Poum. Quello che si dissero fu pubblicato negli anni ’50 su l’Unità, il giornale che Pastore dirigeva all’epoca”[xxi].
Solo che di questo articolo dell’Unità finora non si è trovata traccia, mentre è certo che lo stesso Pastore spiegò sull’”Eco del lavoro” di aver incontrato Picelli per l’ultima volta a Mosca, quando ardeva dal desiderio di andare in Spagna[xxii].
Nel secondo libro dedicato a esporre le sue teorie del complotto sulla morte di Picelli, Bocchi cambia versione senza spiegarne le ragioni. Infatti scrive: “Picelli si imbatté casualmente davanti all’Hotel Colon di Barcellona in un compagno del PCd’I che tentò di riportarlo nei ranghi dei volontari italiani.”[xxiii] Anche in questo caso purtroppo non riporta alcuna fonte.
A tutte le diverse versioni sull’incontro con quello che ho battezzato come “l’amico sconosciuto” ho dedicato un’ampia e dettagliata analisi in un saggio ripreso nel mio libro[xxiv], quindi non ci torno in questa sede. Mi concentrerò invece su nuove verifiche, ritenendo di aver individuato chi fu a parlare con Picelli e a spingerlo a rientrare nelle Brigate internazionali e nel PCI.
Alcuni documenti successivi alla morte di Picelli che si trovano nell’archivio del Comintern forniscono informazioni importanti su quanto avvenuto a Barcellona, ma non riportano i nominativi di coloro che incontrarono Picelli. Il resoconto più dettagliato è quello di Roasio che si basa su informazioni di Dozza, che si trovava a Parigi. Questo è quanto riferisce Roasio nel giugno del 1938:
“Due giorni dopo del suo arrivo a Barcellona per caso incontrò due compagni italiani che lo conoscevano da lunga data, i quali rimasero stupiti di vederlo a Barcellona quando loro non sapevano niente di questo. Picelli rispose alle loro domande dicendo che dormiva alla caserma del POUM, che però non era contento perché gli pareva che questi fossero dei controrivoluzionari. I compagni sgridarono fortemente Picelli di quanto aveva gli dissero che se non rompeva immediatamente con il POUM l’avrebbero ufficialmente smascherato, e lo invitarono la sera stessa a partire da Barcellona per Albacete. Picelli rimase d’accordo di partire, i compagni comperarono il biglietto ferroviario e così partì e si aggregò alle Brigate Internazionali”[xxv].
Nel 1940, il documento di Pavanin e D’Onofrio presenta una ricostruzione simile ma con qualche piccola differenza. Scrivono i due:
“È così che Picelli pur essendo d’accordo con noi per andare alla Brigata “Garibaldi”, improvvisamente senza avvertire nessuno, partì per la Spagna con i massimalisti e i poumisti. Soggiornò qualche giorno nella caserma della divisione “Lenin” che era patrocinata dai poumisti e attendeva che le promesse che gli erano state fatte si realizzassero. Nel frattempo, i nostri compagni del partito, a Barcellona riuscirono a contattarlo e a fargli comprendere la sciocchezza che aveva commesso. Picelli, immediatamente, partì per Albacete per andare nella Brigata “Garibaldi”[xxvi].
Roasio e Dozza fanno riferimento “a due compagni che lo conoscevano da lunga data”, mentre Pavanin e D’Onofrio, più genericamente, parlano “dei nostri compagni del partito” che si trovavano a Barcellona.
Ma oltre a questi abbiamo un altro documento contenuto nel fascicolo del Comintern dedicato a Picelli, scritto in francese e non firmato, nel quale viene data un’indicazione aggiuntiva e per me decisiva. Il testo è anonimo e molto critico nei confronti del comportamento di Picelli. Per la parte che qui ci interessa riporta quanto segue:
“Noi sappiamo adesso, attraverso i compagni di Barcellona che si è recato laggiù al POUM. A Barcellona i compagni hanno criticato violentemente questo atteggiamento allora egli è partito per la col. (ndr: per Albacete). Il compagno Salvatore mi ha riferito una conversazione con Picelli”[xxvii].
Abbiamo finalmente un’indicazione su chi ha parlato con Picelli a Barcellona. Questo “compagno Salvatore” ha trasmesso due frasi che sarebbero state dette da Picelli: “Il P. (ndr: Partito) mi ha messo nelle mani di Masi (ndr: pseudonimo di Michele Donati) che mi ha messo nelle mani dei trotskisti”, e “sono partito senza accordo col P. per la febbre di fare più presto”.
Chi è quindi “Salvatore”? Il punto di partenza non può che essere il database dell’Aicvas degli antifascisti italiani che si sono recati in Spagna. Tra questi compaiono una trentina di Salvatore, ma abbiamo una serie di elementi che ci consentono di definire un identikit che restringe decisamente la ricerca. Sappiamo infatti che si doveva trattare di un comunista, che poteva trovarsi in Spagna nel mese di novembre del 1936 e che aveva già avuto occasione di conoscere bene Picelli. Inoltre si deve supporre che non fosse un semplice volontario ma qualcuno che aveva incarichi politici tali da potersi presentare come portavoce della volontà del Partito.
Tutti questi elementi ci portano in una precisa direzione che è quella di Antonio Cabrelli.
Di Cabrelli la ricerca storica si è ampiamente occupata per la vicenda del partigiano Dante Castellucci (Facio) ingiustamente condannato, durante la Resistenza, da un tribunale partigiano nel quale il ruolo di “pubblico accusatore” era toccato proprio ad Antonio Cabrelli. Quest’ultimo è sempre stato considerato il principale responsabile della morte di Facio.
Per sostenere la mia tesi dell’identificazione tra colui che in precedenza avevo chiamato “l’amico sconosciuto” e Antonio Cabrelli devo riportare una serie di elementi utili che ci vengono forniti dalla documentazione disponibile.
Il lettore più attento avrà già forse collegato il “compagno Salvatore” di Barcellona con quel “compagno Salvatore” che nel 1932 era presente all’arresto di Picelli a Fontenay sous Bois e aveva riferito criticamente del comportamento del comunista parmigiano. Avevamo lasciato in sospeso l’identità di “Salvatore” che però possiamo dare per certa. Essa risulta infatti, inoppugnabilmente, dal confronto tra la firma sul documento autografo del 1932, con una lettera del Cabrelli redatta nel 1945 e di cui è, senza alcun dubbio, l’autore. Abbiamo quindi un elemento che rientra nell’identikit che abbiamo delineato. Antonio “Salvatore” Cabrelli conosceva bene Picelli prima ancora di recarsi in Spagna.
L’esame delle due ricostruzioni autobiografiche che Cabrelli redige in momenti e con interlocutori diversi ci fornisce ulteriori informazioni importanti. Il personaggio in questione, prima ancora del suo ruolo nell’uccisione di Dante Castellucci, è stato protagonista di altre vicende controverse.
Giorgio Amendola, che viene inviato dal PCI in Tunisia nel 1939, vi accenna nel suo libro “Lettere a Milano” e così lo presenta ai suoi lettori:
“La situazione fu resa più difficile dalla accusa mossa dalle autorità francesi contro il compagno Cabrelli di essere un agente dei servizi di informazione fascisti. Ora, Cabrelli era nientedimeno che un comunista italiano scelto ed inviato dalla direzione del PCF come suo rappresentante, per controllare l’attività del gruppo dei comunisti italiani operante in Tunisia. Egli fu fermato ed espulso dalla Tunisia dalle autorità francesi, che ci mostrarono prove fotografiche delle sue attività di spionaggio per conto dei servizi segreti fascisti. In un drammatico confronto egli cercò di respingere l’accusa infamante e di passare come vittima di una provocazione. Ma quando scoprimmo che la donna presentata come moglie e che lo aveva accompagnato in Tunisia era un’amica (ciò che comportava la spesa per il mantenimento di due famiglie, cosa impossibile con i magri stipendi del partito), e che egli ci aveva ingannato su un punto importante della sua vita privata, ci confermammo nel giudizio di avere a che fare con un tipo sospetto, e avvisammo le organizzazioni del partito in Francia dei gravi fatti avvenuti”[xxviii].
Questi avvenimenti sono successivi alla guerra civile spagnola. Ma vediamo ora come lo stesso Cabrelli ricostruisce gli eventi precedenti e soprattutto i mesi relativi alla seconda metà del 1936 che più ci interessano.
Nell’agosto del 1940 Cabrelli, che nel frattempo era stato sospeso dal Partito Comunista a seguito dei sospetti di un suo doppio gioco con le autorità fasciste in Tunisia, attraversa il confine tra l’Italia e la Francia. Viene arrestato e rilascia delle dichiarazioni sulla struttura del gruppo dirigente del Partito. Per quanto riguarda la sua vicenda biografica scrive:
“Lavorando in Francia ero iscritto nella organizzazione sindacale e soltanto nel 1932 aderii al partito comunista. Fino al 1936 non ebbi incarichi speciali nel Partito salvo qualche piccola attività di distribuzione di stampe o di raccolta di fondi. Nel giugno di detto anno divenni funzionario della Federazione nazionale dei lavoratori edili addetto all’ufficio della manodopera straniera. Avevo dapprima mansioni esclusivamente amministrative e in seguito comincia con qualche incarico di fiducia come quello di dirigere lo sciopero dei muratori della regione di Grenoble nel 1937 e degli addetti ai materiali di costruzione nella vallata del Rodano anche nel 1937. Non appena fui nominato funzionario della predetta Federazione Nazionale pervenne dalla Spagna la richiesta di materiale da costruzione per il Genio Militare delle Brigate Internazionali e per due volte, mi recai in Spagna a prendere contatto con l’Autorità Militare del Genio per precisare nei quantitativi e nella qualità le forniture da inviare colà. Feci ritorno dal secondo viaggio in Spagna nel gennaio 1937 e da tale epoca non mi sono più interessato di quanto accadeva in detta nazione, dedicandomi esclusivamente alla organizzazione sindacale”[xxix].
In questa ricostruzione Cabrelli tende, comprensibilmente a svalutare le sue competenze e il suo ruolo politico. Per la Spagna fa solo riferimento a fornitura di materiale edile, ma conferma in ogni caso i viaggi fra la fine del ’36 e il gennaio del ’37, compatibili con la sua presenza a Barcellona a novembre in coincidenza con l’arrivo di Picelli.
In una nuova lunga ricostruzione autobiografica del 1945, rivolta in questo caso al PCI, al fine di ottenere la riammissione nel partito, l’attività politica del Cabrelli è ricostruita con più precisione a partire dal 1924. Scrive Cabrelli:
“Aderivo alla Gioventù Comunista Italiana nel Febbraio 1924, nel Maggio 1924, in seguito a persecuzioni Fasciste nel mio paese, emigravo in Francia passando la frontiera a piedi dove prendevo quasi subito contatto col P.C.F. svolgendo più particolarmente attività Sindacale fra i Lavoratori Edili Italiani imigrati in quel Paese.
Nel 1926, in collaborazione con i compagni Pietro BENSI di Genova e PREMOLi di Torino (ndr: si tratta certamente dello stesso Premoli che nel gennaio 1933 riferirà le lamentele di Repossi su Picelli), costituivamo a Parigi il I° Gruppo della Gioventù Comunista Italiana in Francia, qualche tempo dopo mi veniva affidato il posto di Segretario della Sezione del Soccorso Rosso del 20° Quartiere di Parigi ed occupavo quel posto fino al Febbraio 1928. A quella data lasciavo il suddetto incarico per far parte della Segreteria dei Gruppi Comunisti Italiani della Regione Parigina unitamente ai Compagni RICHARD e DIURAND, il primo fucilato a Parigi nel 1940 dai tedeschi e il secondo morto in Isvizzera di malattia; non ricordo con esatezza a quale data lasciai questo posto mi pare di averlo tenuto fino verso il mese di Marzo del 1932. Nello stesso tempo avevo continuato a svolgere la mia attivita Sindacale ciò mi aveva portato a guadagnarmi la simpatia della Direzione dei Sindacati Unitari Francesi e venivo chiamato dall’Ufficio esecutivo della C.G.T.U. al Segretariato della Commissione della Mano d’opera Straniera ove rimanevo per due anni quale Membro della Segreteria di detta Commissione. Durante tutto questo tempo avevo continuato a lavorare nella mia professione.
Nel primavera del 1934 (non ricordo il mese mi pare che fosse Febbraio o Marzo) fui nominato Segretario della sopracitata Commissione e lasciavo il lavoro per essere assunto quale funzionario della Confederazione Unitaria del Lavoro.
Restavo a questo posto fino al mese di Ottobre 1936 ove, in seguito alla Guerra di Spagna, venivo incaricato dell’organizzazione delle Brigate Internazionali ed entravo a far parte della Segreteria del Comitato Internazionale per l’aiuto alla Spagna Repubblicana. Facevo diversi viaggi in Ispagna accompagnando uomini e materiale fino alla primavera del 1937; i compagni di Vittorio e Luigi Longo (Gallo) conoscono bene la mia attività in questo campo”[xxx].
L’autobiografia di Cabrelli prosegue per altre 8 pagine fitte, ma da qui in avanti non ha più interesse per le vicende di Picelli, ma certamente per chi si è occupato del caso Castellucci[xxxi].
In questo testo “Salvatore” anticipa di due anni la sua assunzione del ruolo di funzionario sindacale rispetto al memoriale consegnato alla polizia fascista e soprattutto mette l’accento sul suo ruolo di organizzazione dei volontari verso la Spagna e non solo di fornitore del materiale edile, di cui parlava nel 1940.
Aggiunge che questa funzione politica inizia nell’ottobre del 1936 e da quel momento iniziano i viaggi in Spagna. Non c’è dubbio che nelle comunicazioni interne del partito e già a partire dal 1932, quando ci si riferisce al “compagno Salvatore” senza ulteriore specificazione si intenda proprio Antonio Cabrelli. Non risultano ulteriori contatti fra Cabrelli, che non parteciperà all’attività militare del Battaglione “Garibaldi”, e Picelli dopo questo incontro tempestoso a Barcellona.
Ci si può chiedere quanto sia stato decisivo l’intervento di “Salvatore” nella scelta definitiva di Picelli di orientarsi verso le Brigate internazionali. Forse fu solo l’occasione per confermare una decisione che stava già maturando. Le distanze tra Picelli e il Poum erano grandi. Il comunista parmigiano era a favore della politica dei fronti popolari mentre il partito di Nin e Maurin ne era ostile. Dal punto di vista militare, i poumisti avevano accettato controvoglia l’idea della disciplina militare mentre la concezione di Picelli, fin dal tempo degli Arditi del Popolo, lo spingeva verso la visione di un esercito ben strutturato e ispirato alle tecniche militari più moderne che aveva visto all’opera in Unione Sovietica[xxxii]. I poumisti, al di là delle promesse che poteva aver fatto Gorkin a Parigi, avevano poco da offrirgli. La Colonna internazionale era in crisi (il suo comandante, il bordighista dissidente Enrico Russo noto come “Candiani” aveva lasciato il fronte e se ne era andato in Francia) e il fronte di Huesca era diventato marginale nel conflitto militare in corso. Tutte queste ragioni non potevano che orientare Picelli a ripensare la scelta che per impazienza, per “fretta” di fare prima, come lui stesso aveva dichiarato, l’aveva portato alla Caserma Lenin.
Doveva sentire forte il richiamo delle Brigate internazionali, entrate da protagoniste sulla scena militare di Madrid proprio in quei giorni. Con o senza l’incontro con Cabrelli molto probabilmente sarebbe ugualmente arrivato ad Albacete, dove veniva immediatamente investito della guida di una compagnia e poi, il 16 novembre, di un provvisorio 8° battaglione[xxxiii].
Da parte sua Cabrelli, sospeso dal PCI nel 1939 per le ragioni ricordate da Amendola ma anche, secondo Madrignani per presunte simpatie “trotskiste” dimostrate nel campo del Vernet, dove era stato rinchiuso una volta tornato in Francia (e dove si trovava anche Luigi Longo), rientrerà in Italia nel 1940. Dopo varie traversie si troverà ad operare nella Resistenza in Toscana, al confine con l’Emilia. Resterà ai margini del PCI e finita la guerra cercherà di essere riammesso, anche con la lunga autobiografia di cui abbiamo citato i primi capoversi nella quale cercherà di chiarire tutte le vicende che avevano sollevato il sospetto del partito. Trovò fermissime opposizioni, in particolare dalla federazione comunista di Massa Carrara che il 2 novembre 1945 scriverà:
“Risulta a noi che il Cabrelli, già iscritto al nostro Partito, sia stato sospeso da ogni attività al campo del Vernet per sospetta convivenza con l’O.V.R.A., e deve quindi essere considerato fuori dal Partito.
Durante la guerra partigiana quale commissario politico della Brigata (Zona Parmense-Lunense) si è comportato da bandito. Ha fatto fucilare dopo un processo sommario, imbastito con noi (ndr: evidentemente sta per suoi) scherani, il capo formazione comunista, Facio di Pontremoli, catturato con l’inganno, con l’imputazione di essersi appropriato delle armi lanciate da aerei alla formazione del Salvatore e non a quella del Facio.
Tale delitto ha suscitato lo sdegno della cittadinanza che a Liberazione avvenuta ha tributato al nostro compagno solenni onoranze. E’ voce pubblica che Salvatore lo abbia ucciso per invidia e rivalità. (…)
Si richiama l’attenzione della Direzione del P.C.I. sulla situazione Cabrelli, affinché prenda immediati provvedimenti presso le Federazioni di Genova, La Spezia e Parma, di modo che questo provocatore sia allontanato da tutte le associazioni democratiche e smascherato”[xxxiv].
Un documento dell’anno successivo, a firma Valli (Sezione Quadri del Partito) aggiungeva, tra le accuse che impedivano a Cabrelli di essere riammesso nel PCI, i contatti avuti dopo la guerra con alcuni dissidenti di sinistra. A fine luglio del 1945 scriveva a Enrico Russo (lo stesso “Candiani” sopra richiamato) e nel novembre prendeva contatti con il “movimento comunista”, il gruppo romano noto come “Bandiera Rossa”[xxxv]. Nel febbraio del 1946 scriveva “una lunga lettera al movimento comunista in cui denuncia(va) l’opportunismo patriottardo del nostro Partito e la sua profonda degenerazione; faceva delle proposte per organizzare un congresso delle “correnti di opposizione”, ecc.” Questa lettera per errore finiva al PCI. “E ora questo signore ha la faccia tosta di chiedere un colloquio per chiarire la sua posizione “, proseguiva Valli per concludere: “PROPONGO di: scrivergli che non concediamo colloqui a nemici del Partito”[xxxvi].
Ad un certo punto Cabrelli rinuncerà a tentare di rientrare nel Partito Comunista e si iscriverà nel 1954 al PSI. Per questo partito diventerà anche consigliere comunale a Pontremoli [xxxvii]. Nel febbraio 1963, poco prima della sua morte in un incidente stradale, verrà segnalato dall’Unità quale capogruppo socialista nel comune della Lunigiana[xxxviii].
* * *
[i] F. Ferrari, Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze, 2023, Youcanprint, Lecce.
[ii] A. Pagano, Il confino politico a Lipari. 1926-1933, 2003, Franco Angeli, Milano, pp. 76-78.
[iii] Cit. in Guido Picelli, La mia divisa, a cura di W. Gambetta, 2021, BFS, Ghezzano (PI), pp. 122-123.
[iv] F. Sicuri, L’esilio di Picelli nelle carte della polizia politica fascista. 1932-1937, 2009, “Aurea Parma”, a. XCIII, f. III, pp. 369-404.
[v] G. Bocchi, Chi ha ucciso Guido Picelli?, 2023, IMP, s.l., p. 79.
[vi] Archivio PCI (APCI), Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo G. Picelli.
[vii] Archivio Centrale dello Stato (ACS), CPC (Casellario Politico Centrale), fascicolo Paolina Picelli, b. 4364. L’informazione è contenuta in una lettera del comando di Gorizia della 62° Legione della Milizia. La stessa lettera contiene però altre notizie, come quella dell’espatrio di Picelli attraverso Ventimiglia, che risultano poco credibili. Più accurate ricostruzioni della stessa polizia fascista ne ricostruiscono il passaggio attraverso la Svizzera. Così come poco credibile risulta che il passaporto falso sia arrivato a Picelli da “Giustizia e Libertà” di Parigi, considerato che nella stessa nota della Milizia viene scritto che “i passaporti falsi per l’estero verrebbero compilati a Milano presso la Delegazione Commerciale della Repubblica Sovietica ad opera principalmente della moglie dell’antifascista ex deputato Guido Picelli già confinato a Lipari”.
[viii] www.antifascistispagna.it, scheda Bruno Zecchini.
[ix] https://maitron.fr/spip.php?article146053, notice ZECCHINI Bruno, dit Il Biondo (“le blond”), ou Romeo par Philippe Bourrinet.
[x] “Il Programma comunista”, Milano, n. 20, novembre 1967, “Un militante esemplare : Bruno Zecchini”, “Le Prolétaire”, Parigi, n° 48, novembre 1967.
[xi] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Picelli.
[xii] R. Caccavale, La speranza Stalin. Tragedia dell’antifascismo italiano nell’URSS, 1989, Valerio Levi editore, Roma, pp. 252-258.
[xiii] F. Ferrari, Indagine su Picelli, cit., pp. 118-124.
[xiv] A. Durgan, Voluntarios por la revolucion. La milicia internacional del POUM en la guerra civil española, 2022, Laertes, Barcellona, pp. 106-107.
[xv] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Picelli.
[xvi] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Picelli.
[xvii] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Picelli.
[xviii] Cit. in F. Ferrari, Indagine su Picelli, cit., p. 125.
[xix] Cit. in F. Sicuri (a cura di), Guido Picelli, Centro di documentazione Remo Polizzi, Parma 1987, p. 108.
[xx] G. Bocchi, Il Ribelle, 2013, IMP, s.l., p. 112.
[xxi] G. Bocchi, Quelle bugie sulla morte di Picelli e i sospetti su un volontario stalinista, “Gazzetta di Parma”, 2017.
[xxii] Cit. in F. Ferrari, Indagine su Picelli, cit., pp. 130-132.
[xxiii] G. Bocchi, Chi ha ucciso Guido Picelli?, cit., p. 118.
[xxiv] F. Ferrari, Indagine su Picelli, cit., pp. 59-84.
[xxv] Ivi, pp. 159-160.
[xxvi] Ivi, pp. 160-161.
[xxvii] Ivi, pp. 158-159.
[xxviii] G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma 1976 (II edizione), p. 4.
[xxix] ACS, CPC, fascicolo Cabrelli, b. 920.
[xxx] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Cabrelli.
[xxxi] A questa autobiografia fa riferimento Luca Madrignani che, tra i diversi autori che si sono occupati della tragica vicenda di Castellucci (Facio), è quello che più si è occupato della figura di Cabrelli. Si veda L. Madrignani, Il caso Facio. Eroi e traditori della Resistenza, Il Mulino, Bologna, p. 50.
[xxxii] F. Ferrari, cit., pp. 144-147.
[xxxiii] F. Ferrari, cit., p. 165.
[xxxiv] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Cabrelli.
[xxxv] Madrignani identifica il “movimento comunista” citato nel documento della sezione quadri del PCI come “gruppo trotzkista affiliato alla Quarta Internazionale” (Il caso Facio, cit., p. 206), ma mi sento di escluderlo dato che in quel momento la sezione italiana del trotskismo era il Partito Operaio Comunista. Si veda in proposito R. Prager, Les congrès de la quatrième internationale. Vol 2 (L’Internationale dans la guerre 1940-1946), La Brèche, Parigi 1981, pp. 349-350. Mentre il nome ufficiale di “Bandiera Rossa”, formato da comunisti romani dissidenti era “Movimento Comunista d’Italia”.
[xxxvi] APCI, Fondazione Istituto Gramsci, fascicolo Cabrelli.
[xxxvii] G. Chiappini, Antifascisti della Lunigiana nella guerra civile spagnola, Giuseppe Chiappini Editore, Villafranca in Lunigiana, 2016, p. 39.
[xxxviii] Numerose adesioni al convegno regionalista, “L’Unità”, 24 febbraio 1963. Ringrazio la dott.ssa Cristiana Pipitone della Fondazione Istituto Gramsci, dove è depositato l’Archivio del PCI, per la cortesia e la professionalità; Fiorenzo Sicuri e William Gambetta per osservazioni e suggerimenti sulla prima bozza del testo. Naturalmente ogni responsabilità per il contenuto di questo articolo ricade interamente sul sottoscritto.