di Cristina Quintavalla
Il genocidio del popolo palestinese ad opera di Israele è tra i più efferati dalla fine della II guerra mondiale: si compie in diretta, sotto gli occhi inorriditi ed increduli della popolazione mondiale che assiste ad un massacro in assoluta violazione del diritto internazionale e in totale dispregio di ogni sentimento di umana pietà. Tanta ferocia criminale ha suscitato grande sdegno nel mondo, come raramente è accaduto. Le piazze ovunque sono solidali coi palestinesi.
Parliamo di mobilitazioni mai viste dalla guerra in Vietnam o nella ex-Jugoslavia, che investono persino gli ebrei della diaspora residenti altrove e tutte le popolazioni arabe e musulmane, anche dei paesi tradizionalmente alleati di Israele. Investono massicciamente la popolazione bianca occidentale, quella i cui governi sostengono senza alcun pudore Israele.
Si sta verificando qualcosa di inedito. Il massacro del popolo palestinese, per la storia che lo precede, per il modo in cui viene perpetrato, per la giustificazione che ne viene data, è diventato una straordinaria lente di ingrandimento che smaschera gli interessi reali, le ragioni delle alleanze, le coperture di cui ha beneficiato per oltre 70 anni.
È come se si cominciassero a vedere nitidamente, dietro le false narrazioni, la mano omicida che lo guida, gli interessi materiali e geopolitici che lo muovono, la mente criminale di un sistema di dominio che lo ispira. È come se si fosse aperto uno squarcio nel velo di Maja che ricopre la storia. E a questo punto non solo la storia dei palestinesi, ma la storia dei popoli oppressi del mondo si appalesano come il prodotto di processi epocali e strutturali, che sono il portato del plurisecolare governo imperiale del mondo, che, pur nelle sue varianti, si protrae dall’età moderna ai nostri giorni.
Si direbbe che si stia aprendo una fase storica diversa, quella della resa dei conti che la storia restituisce ad “un’economia che uccide”, che ha costruito la sua potenza sulla spregiudicata opera di conquista di popoli, terre, risorse, spartiti tra le grandi potenze, che hanno assoggettato milioni di esseri umani, schiavizzati, martoriati, privati degli elementari diritti.
Ad oltre un secolo di distanza rimane illuminante la relazione istituita da Lenin tra imperialismo e capitale monopolistico, che ha potuto procedere alla ristrutturazione dei processi produttivi, all’accentramento della produzione nelle mani dei grandi monopoli, alla fusione del capitale bancario con quello industriale, all’esportazione di capitale, schiavizzando e sottoponendo ad una sistematica spoliazione miliardi di esseri umani.
Papa Francesco qualche anno fa ha parlato di “un debito storico, sociale, economico, politico e ambientale che deve essere saldato”, che deve pagare l’occidente ricco, rovesciando l’idea che siano i popoli del sud globale, incatenati dentro le morse del debito, ad essere debitori dei ricchi, perché in realtà ne sono i creditori.
È come se la falsa coscienza dell’occidente e “la smemoratezza storica” che lo colpisce in questi casi apparissero con maggior nitore. E con esse si delineasse il solco profondo che sempre più separa il mondo colonizzato da quello dei colonizzatori.
Dentro questa contrapposizione echeggia la storia. Si vedono gli oppressi e si vedono gli oppressori. Si vede ancora affiorare la natura coloniale del potere dell’occidente capitalistico, fondata sulla classificazione razziale della popolazione mondiale, che ha assicurato la concentrazione del controllo delle risorse produttive e del capitale nelle mani dei dominatori bianchi, borghesi, proprietari. Questa distribuzione razzista di nuove identità sociali fu combinata con una corrispondente distribuzione razzista delle forme di lavoro e di sfruttamento del capitalismo coloniale, che perdura nelle attuali forme neocoloniali (A. Quijano).
Si vede l’inanità della costruzione europea, avviluppata dentro le spire della crisi egemonica dell’economia statunitense (Brancaccio), subordinata ai suoi colpi di coda, sulla soglia della stagflazione per gli effetti disastrosi delle sanzioni imposte alla Russia, imprigionata dentro un’economia di guerra, che certo alimenta il complesso industriale-militare, ma impoverisce le sue popolazioni.
La storia non si ripete, ma almeno potrebbe esserci “magistra vitae”. E invece sembra che la lezione degli accordi di Monaco del 1938, in cui la scelta di una politica di appeasement da parte delle cancellerie occidentali, che aprì la strada ad Hitler e all’immediata invasione della Cecoslovacchia e della Polonia, non sia servita. Se allora era preferibile essere accondiscendenti con Hitler piuttosto che allearsi con l’Urss, oggi è meglio sostenere Israele che il popolo palestinese. Troppo arabo, troppo islamico, con amici troppo antiamericani, che ha sconfessato l’abbraccio mortale dell’Unione europea ad una leadership troppo filo-occidentale, la cui causa è elemento di destabilizzazione “nel disegno Usa di divisione del pianeta in blocchi economici di amici e nemici”(Brancaccio).
Meglio far parte ed essere parte attiva del “blocco occidentale a guida statunitense”. Meglio riarmarsi sino ai denti, prospettare – come ha appena dichiarato la Germania – un formidabile piano di riarmo su cui investire altri 100 miliardi di euro, finalizzato alla costituzione di una Bundeswehr forte e potente. “Dobbiamo riabituarci all’idea della guerra in Europa” ha dichiarato Pistorius, ministro della Difesa tedesco.
Questa sconcertante dichiarazione è tanto più paradossale quanto più si consideri che l’integrazione europea fu teorizzata proprio per scongiurare i rischi di una nuova deflagrazione, dopo gli orrori della II guerra mondiale.
Si vede l’altra faccia dell’occidente, nascosta dietro la retorica della modernità.
Pace, diritti, democrazia, libertà, autodeterminazione, uguaglianza, tolleranza, che hanno costituito degli approdi culturali fondamentali per tutto il genere umano, hanno rappresentato le grandi teorizzazioni, che dovevano essere contrapposte al corso violento e oppressivo della storia, per invertirne la rotta.
Hegel ha persino definito alcuni di questi approdi come tappe dello spirito, a voler rimarcare il carattere di conquista spirituale, che si è andata imponendo nella storia per effetto della riflessione razionale del genere umano, che andava via via “deponendo” le sue parziali, unilaterali, individuali esperienze precedenti.
Le bombe su Gaza, scagliate sulla popolazione civile, sugli ospedali, sulle infrastrutture essenziali per la vita, il divieto persino di far passare gli aiuti umanitari mostrano il carattere retorico di quelle teorizzazioni.
Già il buon vecchio Sartre l’aveva detto, assistendo agli orrori compiuti in Algeria dai francesi, che pure avevano alle spalle le più grandi rivoluzioni della storia:
“Che cicaleccio, poi: libertà, uguaglianza, amore, onore, patria, e che so io? Questo non ci impediva di tenere allo stesso tempo discorsi razzisti, porco negro, porco ebreo, porco arabo. Spiriti buoni, liberali e delicati – neocolonialisti, insomma – si pretendevano urtati da questa incongruenza: niente di più congruo, da noi, che un umanesimo razzista, poiché l’europeo non ha potuto farsi uomo se non fabbricando degli schiavi e dei mostri” (J.P. Sartre).
Non era l’umanitarismo l’elemento di vanto del mondo occidentale, il titolo della sua civiltà e della sua superiorità rispetto ai popoli cosiddetti animali, come quello africano, indio, latino, del medio e dell’estremo oriente, distribuiti su tutto l’orbe terraqueo, tra cui quello palestinese? Talmente umanitario da teorizzare persino “la guerra umanitaria”, il massacro di popoli compiuto per il loro bene, non importa se poi estinti sotto un bombardamento.
Si distrugge per ricostruire e far arricchire i gruppi che già calcolano i profitti davanti alle macerie. Si distrugge per ridisegnare i rapporti di forza sullo scacchiere internazionale, controllare le risorse energetiche e non, le vie di transito delle merci, i corridoi attraverso cui fluiscono gli alimenti che finiscono nelle voraci fauci del grande capitale.
Probabilmente non siamo alla vigilia di processi insurrezionali popolari.
Il colonizzatore è certo penetrato intimamente nella coscienza del colonizzato.
Basterà allora togliere Netanyahu dalla scena politica, criminalizzarlo, istituire una forza di interposizione internazionale, esautorare il popolo palestinese dall’esercizio della sua sovranità politica, scegliere per esso il governo compiacente col blocco occidentale-americano, stringere nuovi accordi come quelli di Abramo?
Forse sì, forse no.
Un grande ribollimento trasuda dalle piazze del mondo: il congolese riconosce i suoi problemi in quelli del popolo palestinese; il turco, il pachistano, il curdo, il magrebino si riconoscono nel popolo palestinese. La rabbia dei popoli islamici contro Usa ed Israele da Tunisi ad Amman, ad Alessandria d’Egitto, a Teheran, si fa minacciosa. Le popolazioni delle periferie del mondo occidentale, emarginate e segregate, si riconoscono nella disperazione del popolo palestinese.
Una polveriera che forse sarà sopita con ulteriori menzogne.
Ma fino a quando?