“Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”

di Elisabetta Salvini*

Così si conclude la lettera che Elena Cecchettin ha scritto al «Corriere della Sera» in seguito alla notizia della morte di sua sorella Giulia. E noi sabato mattina scenderemo in piazza esattamente così, con l’idea che di minuti di silenzio ne siano già stati fatti tanti, troppi e che ora serva tutta la nostra rabbia, tutto il nostro rumore.

“Se toccano una, rispondiamo tutte”, sono queste le parole del nostro striscione che non possono e non devono essere solo uno slogan, ma una presa di responsabilità collettiva, rispetto alla violenza di genere che non è mai una violenza privata, ma sistemica, culturale, universale e colpisce le vite delle donne e di tutte le libere soggettività che si sottraggono alle norme di genere imposte.

La violenza di genere non appartiene a mostri isolati ma a tutt3 noi.

Appartiene al privilegio degli uomini bianchi e cisgender che credono di essere “bravi” quando in casa aiutano la loro compagna nelle faccende domestiche, perché ancora, in cuor loro, sono convinti che quelli siano compiti “da donna”. Appartiene ai “bravi ragazzi” che fanno i biscotti, ma che sono cresciuti nella convinzione che i loro gesti, le loro parole, le loro scelte abbiano un peso specifico maggiore rispetto a quello delle loro sorelle, delle loro madri, delle loro compagne, solo perché sono nati uomini.

Appartiene ai datori di lavoro che continuano a pagare di meno le loro lavoratrici, solo perché donne, alimentando una disparità economica che rende le donne più vulnerabili, più ricattabili, più povere. Oppure ai capi del personale che, a parità di merito, ancora continuano a preferire l’assunzione di un uomo a quella di una donna, perché non vogliono gravarsi di alcuna conseguenza del suo carico familiare.

Appartiene al presidente della federcalcio spagnola che, in diretta mondiale, si è sentito legittimato a baciare sulla bocca la neo campionessa del mondo Jennis Hermoso, convinto di non star facendo nulla di male. Mai, prima di allora, nessun esponente della federcalcio si era nemmeno sognato di fare altrettanto con Leonard Messi o con Kylian Mbappè.

Appartiene a quanti ancora continuano a fare cat calling per strada, sul lavoro, sui social, convinti che i loro siano solo complimenti e che alle donne faccia pure piacere riceverli.

Appartiene a quanti continuano a rifiutarsi di nominare le professioni al femminile, cancellandone l’esistenza, a quanti – in un qualsiasi contesto accademico, professionale, mediatico – preferiscono invitare a prendere parola solo uomini, riconoscendo loro autorevolezza e competenze che si fatica a riconoscere ad una donna. E ancora a quanti, in una discussione pubblica, si rivolgono ad una donna chiamandola per nome proprio o, in caso di conflitto, le intimano di stare zitta.

Appartiene ai compagni, fidanzati, amici che per gelosia e senso di possesso devono controllare in modo ossessivo ogni spostamento delle loro compagne, fidanzate, amiche, ma anche a chi lo sa e lo vede ma non fa nulla per provare a cambiare.

Appartiene alle donne che screditano le altre donne e a quelle che alimentano e riproducono, anche in modo inconsapevole, ruoli e stereotipi imposti dalla cultura patriarcale.

Appartiene agli omofobi, ai lesbofobici, ai transfobici perché riproducono sulle soggettività LGBTQAI+ le stesse forme della violenza patriarcale in nome di un potere e di un privilegio cis ed etero che li pone in una posizione di forza e di “normalità”.

Appartiene a tutti quegli uomini che sono sempre pronti a riconoscere il mostro nell’altro, invocano punizioni esemplari o pene di morte, ma negano l’esistenza del patriarcato e di una responsabilità collettiva maschile. Appartiene a quanti sempre pretendono di spiegare alle donne come va il mondo e in questi giorni si arrogano persino il diritto di insegnare a Elena Cecchettin cosa dire, come e quando dirlo e come piangere una sorella uccisa.

Ecco perché in piazza dobbiamo esserci tutt3 ed esserci insieme, per dirci che non siamo sole, non staremo più zitte, non staremo più ferme. Per urlare che “CI VOGLIAMO VIVE, LIBERE, IN PACE”.

* Casa delle donne di Parma