a cura della redazione
Dall’8 settembre scorso, nelle sale di Palazzo Pigorini (strada della Repubblica, 29/A), a Parma, è visitabile la mostra Archivio Amoretti. Il volto della città nel secolo breve. Parma 1922-1997. Promossa dal Comune di Parma, in collaborazione con la famiglia Amoretti e il Centro studi movimenti, l’esposizione racconta la storia di Parma nel corso del Novecento. Lo Studio Amoretti, infatti, ebbe una straordinaria longevità, fondato da Armando nel 1938 (dopo una lunga collaborazione con altri importanti atelier della città) passò ai figli Mario e Giovanni e poi alla nipote Bianca. Della mostra (visitabile fino al 5 novembre, da mercoledì a domenica, dalle 10 alle 19) e del lavoro fotografico degli Amoretti ne abbiamo parlato con Andrea Tinterri (curatore dell’esposizione insieme a Cristina Casero).
Redazione di Voladora: Partiamo dal titolo della mostra: “Archivio Amoretti. Il volto della città nel secolo breve”. Ci potresti spiegare qual è l’intento dell’esposizione…
Andrea Tinterri: Credo sia importante sottolineare un aspetto dell’archivio Amoretti, ossia la sua vasta portata, probabilmente quasi centomila immagini, e l’eterogeneità della proposta. Introduzione necessaria per far emergere la complessità di scegliere poco più di 130 scatti e restituire un “corpo” espositivo coerente e in grado di sintetizzare settant’anni di storia fotografica dello studio in questione. Da un punto di vista curatoriale questo implica delle scelte e soprattutto delle esclusioni, il tentativo mio, di Cristina Casero e del consulente storico William Gambetta, è stato quello di cercare delle possibili chiavi di lettura dell’intero archivio. Queste sono state individuate nel ritratto che, anche spazialmente in mostra, delimita un percorso cronologico di manifestazioni politiche, culturali e sportive che inizia nel 1922, anno delle Barricate, e si conclude nel 1997, anno dell’inaugurazione del monumento a loro dedicato. Quindi una ricostruzione storica e culturale attraverso episodi simbolo, come il comizio del 1948 di Palmiro Togliatti in piazza Garibaldi, o eventi apparentemente minori, come la festa dell’Unità di San Lazzaro del 1950, oppure i ritratti, realizzati in sala di posa o in situazioni più estemporanee e reportagistiche, segnalano la duttilità dello studio Amoretti e creano un tessuto di volti capaci di leggere la complessità di un secolo.
Red.: Chi visita la mostra ha la sensazione di avere un doppio registro sul quale l’esposizione si muove: da un lato quello della comunità cittadina e dunque le folle, le masse, il pubblico… dall’altro le singole persone, con i ritratti che evidenziano le personalità di ciascuno…
A.T.: La folla nel Novecento è stata un corpo politico. Probabilmente lo è sempre stata e continua anche oggi ad esserlo ma forse, anche grazie alla fotografia, nel Novecento si è palesata ed è stata rappresentata e quindi sfruttata da qualunque schieramento politico. In mostra vediamo le folle fasciste, irregimentate e spesso ordinate militarmente e le folle scomposte e spontanee del dopoguerra. Sono scatti che non erano dettati da una committenza, questo li affranca dalla necessità di rispondere ad una tesi prestabilita ed emanciparsi da un perimetro ideologico imposto.
Queste immagini si contrappongono alla puntualità del ritratto che per la storia della fotografia è stata una delle forme che più ha caratterizzato e, forse, motivo per cui è nato questo linguaggio. Come sottolineato in precedenza, il ritratto è stato individuato come chiave di lettura e possibile sintesi dell’intero archivio, ma anche come testimonianza privata. Infatti la prima stanza della mostra è dedicata ai ritratti dell’archivio di famiglia, immagini che testimoniano una dimestichezza con il mezzo fotografico che oltrepassava la professione.
Red.: Dalla scelta degli scatti sembra che lo Studio Amoretti si sia attrezzato per incarichi professionali molto vari: dai ritratti a singoli clienti fino a servizi per aziende e istituzioni, fino alla fotografia sportiva e giornalistica. Ci spiegheresti le ragioni di questa eterogeneità?
A.T.: Continuando a parlare di ritratti, all’interno dell’archivio sono conservate quasi ottantamila fototessere, dal 1938 alla fine degli anni Novanta. Questo corpo numericamente importante si inserisce all’interno di un lavoro molto eterogeneo, che include fotografie di matrimoni, funerali, fino alla collaborazione con aziende del territorio come Barilla e Salvarani, alla collaborazione con enti pubblici e privati, come la pinacoteca nazionale di Parma, il museo archeologico, l’Archivio di Stato, istituti e fondazioni bancarie, gallerie d’arte. Oppure la diretta collaborazione di Giovanni Amoretti con storici dell’arte come Arturo Carlo Quintavalle, architetti come Guido Canali o artisti come Pietro Cascella. O ancora la documentazione sportiva delle partite del Parma Calcio e Parma Rugby tra gli anni Cinquanta e Sessanta o la collaborazione, sempre di Giovanni Amoretti, con committenti internazionali come il ministero del Turismo della Siria e quello della Cultura dell’Iraq.
Questa complessità testimonia il lavoro, oggi ormai radicalmente trasformato, a cui era sottoposto uno studio fotografico di medie-grandi dimensioni nel Novecento. La fotografia era un mestiere che, nel caso dello Studio Amoretti, doveva soddisfare l’esigenza iconografica di un territorio e quindi assecondare la sua trasversalità.
Red.: Pur appartenendo alla stessa famiglia lo Studio Amoretti ha visto alternarsi fotografi diversi, da Armando (famoso soprattutto per i suoi scatti alle barricate dell’Oltretorrente dell’agosto 1922) ai suoi figli Mario e Giovanni, che hanno operato in periodi differenti, fino a Bianca (figlia di Mario). Ci potresti dire se esiste una continuità stilistica tra loro o se invece esistono caratteristiche autoriali specifiche?
A.T.: Bisogna considerare che tra gli anni Cinquanta e Sessanta operavano contemporaneamente Armando, Mario e Giovanni e le fotografie non venivano “firmate”, ma uscivano dallo studio come prodotto collettivo, come se l’autorialità non fosse determinante. L’obiettivo primario era portare avanti un mestiere, un’attività commerciale. Questo non impediva ai singoli fotografi di cimentarsi in ricerche personali che escludevano il lavoro, ma l’archivio è composto principalmente da incarichi su committenza. Fatta questa essenziale premessa, vorrei citare tre episodi, uno per ogni fotografo, che evidenziano un approccio distintivo.
Naturalmente partirei da Armando con le fotografie delle barricate. Immagini scattate quando aveva poco più di vent’anni ed era ancora assistente presso l’atelier di Luigi Vaghi. Ventiquattro fotografie in cui la barricata non è isolata dal contesto urbano, anzi essa è posta all’interno di un più ampio teatro permanente: la città. Come se la morfologia di quei borghi che Armando conosceva e abitava non potesse essere esclusa, restituendo così dignità ad una città, o parte di essa, che aveva deciso di resistere e proteggere la propria storia proletaria.
Il secondo episodio, invece, vede protagonista Mario Amoretti che nel secondo dopoguerra documentò la maggior parte dei borghi della città. Fotografie in cui la presenza umana è ridotta il più possibile, in modo da evidenziare, anche in questo caso, la configurazione urbana ed avere una mappatura completa dei borghi parmigiani. Un lavoro numericamente importante la cui paternità, almeno da un punto di vista progettuale, va condivisa con il poeta dialettale Alfredo Zerbini che suggerì, allo stesso Mario, di “proteggere” fotograficamente quei borghi a cui entrambi appartenevano.
L’ultimo episodio che vorrei citare è la lunga e ampia campagna fotografica che realizzò Giovanni, che dai primi anni Settanta si avvalse della costante assistenza della nipote Bianca, sulla scultura romanica. Questi lavori, di cui molti risultati vennero pubblicati su alcuni importanti volumi come ad esempio La strada Romea, ebbero come guida lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle che contribuì notevolmente a definire e istruire lo sguardo di Giovanni. Grande attenzione era riservata alla luce che, nella maggior parte dei casi, doveva essere morbida, in modo da dare una lettura completa e chiarificatrice alla scultura o al bassorilievo (si ricordino ad esempio le fotografie dello zooforo del battistero di Parma).
Red.: Anche tu, in qualche modo, sei parte della storia dello Studio e hai già lavorato su alcune di queste fotografie con saggi e volumi, penso ad esempio al libro che hai pubblicato con Silvana Editoriale sulle fotografie delle Barricate di Armando Amoretti, edito nel 2022. Per te, dunque, aver scandagliato questo gigantesco archivio non sarà stata solo un’esperienza arricchente sul piano della formazione professionale…
A.T.: Occupandomi come critico e curatore di fotografia, l’Archivio Amoretti è sempre stato una fonte di studio e confronto. Per questa mostra mi sono dovuto nuovamente approcciare al suo vasto patrimonio, ma stavolta, a differenza di altre mostre o pubblicazioni, senza l’importante memoria dell’ultimo fotografo dello studio, Giovanni Amoretti, scomparso lo scorso anno. Giovanni era una fonte orale molto utile per ricostruire alcuni passaggi del lavoro della famiglia, oggi rimane la nipote Bianca che lo ha affiancato per molti anni e che ha custodito l’archivio fino ad oggi. Gli archivi fotografici sono corpi molto complessi e fragili anche dal punto di vista conservativo e quello degli Amoretti racchiude al suo interno principalmente negativi e lastre in vetro. In percentuale le stampe e le provinature sono una minima parte e le immagini digitalizzate comprendono forse solo un quindici per cento dell’intero patrimonio. Questo comporta un lavoro di lettura e rilettura delle immagini lento e minuzioso, ma che riserva ancora oggi nuove scoperte e il ritrovamento di materiale inedito.
Red.: La mostra esce in occasione della donazione, da parte della famiglia, dell’intero patrimonio fotografico dell’archivio dello Studio Amoretti al Comune di Parma. Ci puoi descrivere la quantità, la qualità e gli estremi cronologici di questo fondo. E ci sai dire se esso sarà consultabile e fruibile a breve dagli studiosi e dalla città?
A.T.: È difficile indicare una quantità precisa, in mostra abbiamo dichiarato oltre ottantamila immagini, ma presumibilmente superano le centomila. Cronologicamente le prime fotografie che fanno parte dell’archivio sono quelle delle Barricate del 1922, quando Armando lavorava ancora nell’atelier fotografico di Luigi Vaghi. Ma lo studio fotografico Amoretti fu aperto nel 1938 e cessò la sua attività nei primi anni Duemila.
Dopo la scomparsa di Giovanni Amoretti nel 2022, la famiglia, e in modo particolare Bianca Amoretti, ha deciso di trasformare un patrimonio privato in patrimonio pubblico senza nessun tentativo di capitalizzare l’importante eredità, ma mossa dall’esigenza di mantenere compatta e non disperdere la storia dell’archivio. Questa scelta vuole preservare l’interezza della raccolta, presupposto necessario per uno studio e una consultazione del bene. Ora il Comune di Parma ha il dovere etico di proseguire con una catalogazione scientifica e una digitalizzazione dell’intero patrimonio, naturalmente l’archivio sarà consultabile dagli studiosi e spero che parte di esso, in futuro, potrà essere visibile in maniera permanente.