La città che abbracciò Lupo e quella di oggi

di William Gambetta

Foto di Beppe Fontana
Foto di Beppe Fontana

Domani, 25 agosto, alle ore 18:30, in viale Tanara, l’Anpi provinciale di Parma e Officina  popolare hanno convocato l’annuale commemorazione di Mario Lupo, giovanissimo militante di Lotta continua ucciso a Parma nel 1972 da un gruppo di neofascisti. In questa occasione riproponiamo un articolo di William Gambetta uscito due anni fa (ndr).

La sera del 25 agosto 1972 la notizia dall’assassinio di un giovane diciannovenne di Lotta continua corse veloce per le strade di una città semideserta. Grazie a diversi testimoni le informazioni erano precise. Alcuni neofascisti, nomi noti alla questura e alla stampa cittadina, vicini al Movimento sociale italiano, erano improvvisamente balzati fuori da una siepe, di fronte al Cinema Roma, in viale Tanara. Tutti erano armati di coltello a serramanico e uno di loro, senza tentennamenti, aveva colpito al cuore Mario Lupo, uccidendolo. Seguirono giorni di intense mobilitazioni, fino a quando una manifestazione della sinistra rivoluzionaria si diresse verso la sede della federazione missina, in via Maestri, devastandola.

Il 28 agosto, poi, si svolse il funerale in forma pubblica. Vi parteciparono migliaia e migliaia di persone, tra le 30 e le 40 mila secondo le cronache dell’epoca. Una folla immensa composta da uomini e donne, giovani e anziani, studenti e lavoratori, intellettuali e rappresentanti delle istituzioni. La bara del giovane fu stretta in un grande abbraccio da una città che si ritrovò nei valori dell’antifascismo. Nella camera ardente allestita presso la sala consiliare del Municipio, a presidiare il corpo di Mario, si alternarono il sindaco e i consiglieri comunali, ex partigiani e giovani “estremisti”. E poi il corteo si diresse in Oltretorrente, dove in piazza Picelli, tenne l’orazione Giacomo Ferrari, il vecchio comandante partigiano “Arta”, ex sindaco della città e uno dei politici più rispettati del Partito comunista parmense.

In quei giorni la stampa non poteva non presentare Parma come “democratica e antifascista”. Una definizione non lontana dalla realtà. Gran parte delle forze sociali e politiche, infatti, al governo municipale come all’opposizione, nei sindacati come nei partiti, nelle scuole come nei luoghi di lavoro, aveva fatto proprio il paradigma dell’antifascismo repubblicano, sulla base del quale misurava le proprie scelte civili.

In realtà non si trattava di un unico modello di antifascismo. Vi erano – proprio come oggi – differenti riferimenti teorici e politici in quel composito mondo. Si andava dalle sinistre rivoluzionarie, legate ai conflitti sociali e alle spinte antisistemiche, fino alle forze che confidavano nei corpi dello Stato e nelle istituzioni repubblicane (tra queste anche alcune, come i liberali o molti dirigenti della Dc, che associavano il proprio antifascismo a un radicato anticomunismo). Il terreno comune, tuttavia, era l’avversione all’agibilità dell’estrema destra.

Tutti erano consapevoli della sua pericolosità per la convivenza democratica. Non vi era necessità di smascherare i metodi di mobilitazione violenta dell’estrema destra né di denunciare i suoi principi razzisti e nazionalisti. Non vi era necessità di spiegare il duplice volto delle sue organizzazioni che ad atteggiamenti diplomatici e fintamente vittimistici alternavano quelli aggressivi ed eversivi. Non vi era necessità perché l’omicidio di Lupo si collocò nel pieno della “strategia della tensione”, tra le bombe del 12 dicembre 1969, con la strage di piazza Fontana a Milano, e quelle del 1974, con la strage di piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus.

Nelle loro aspre differenze, dunque, tutte le forze democratiche erano attive nell’isolare il neofascismo. Molti esempi si potrebbero fare. Si pensi alla decisione del sindaco comunista Enzo Baldassi, nel maggio 1968,  di negare il balcone del Palazzo del Governatore e ogni sala comunale ai comizi missini; oppure, nei primissimi anni Settanta, alla decisione del Consiglio comunale (anche con il voto dei democristiani) di escludere i rappresentanti del Msi dai futuri consigli di quartiere; o ancora si pensi alle tante mobilitazioni unitarie per lo scioglimento del partito di Giorgio Almirante. Atti che contribuirono senz’altro a diffondere in larga parte della cittadinanza un senso democratico fondato sui valori dell’antifascismo.

Se infatti si analizzano i dati elettorali di Parma tra il 1948 e il 1994 (anno in cui il Msi si trasformò in Alleanza nazionale) si può notare che, sì, vi era un settore di elettorato che caparbiamente sulla scheda segnava la “fiamma tricolore”, che probabilmente rimpiangeva nostalgicamente i tempi del regime, dell’ordine e della disciplina, ma era un settore circoscritto (intorno al 4/5 % dei voti, tra le 4 e le 5 mila preferenze). Il massimo storico lo raggiunse proprio nelle elezioni del giugno 1972, quando arrivò al 5,8%. Un limitato successo che, peraltro, non poteva essere speso nell’arena delle relazioni politiche poiché i missini erano, di fatto, isolati dalle dinamiche istituzionali. Nessuno voleva pubblicamente sporcarsi le mani con loro.

Anche le vicende successive di Alleanza nazionale e dei rimasugli missini (particolarmente della Fiamma tricolore e de La Destra) a Parma non furono particolarmente eclatanti. Pur cambiato il clima politico rispetto alla “prima Repubblica”, dopo il 1994, con i governi Berlusconi, molte forze (tra le quali la stessa lista civica di Elvio Ubaldi) ebbero problemi a relazionarsi con la federazione di An. E infatti questa poté contare solo sui voti ereditati dal Msi e nulla più. Essa rimaneva isolata anche se in uno scenario politico-istituzionale ormai favorevole.

Solo dopo le elezioni comunali del 2007 gli esponenti di Alleanza nazionale vennero cooptati nella giunta di Pietro Vignali ma, anche in questo caso, il loro ingresso fu silenzioso, senza clamore. Eppure, come tanti altri elementi, la partecipazione al potere municipale di uomini provenienti dal neofascismo segnalò in modo evidente che anche a Parma, come a livello nazionale, l’antifascismo era ormai entrato in una nuova fase, nella quella non potevano più bastare le vuote e retoriche cerimonie per commemorare il passato. Una fase nella quale l’antifascismo si trova tuttora. Da un lato, nelle sue mobilitazioni, esso può ancora contare su un senso d’identità culturale e politica diffuso profondamente in vasti settori popolari. Dall’altro, però, soprattutto nelle giovani generazioni e nei nuovi cittadini del neoliberismo in crisi, quei riferimenti e quell’identità è tutta da costruire. Le condizioni della lotta al neofascismo sono dunque estremamente più difficili rispetto all’agosto 1972.