di Lorena Carrara*
Ogni adolescenza coincide con la guerra
Che sia falsa, che sia vera
Ogni adolescenza coincide con la guerra
Che sia vinta, che sia persa
E non ti vantare se la tua è stata mondiale
La mia sembra solo un fatto personale.
Davide Toffolo
Il 5 gennaio 2021 genitori spaesati e adolescenti già disillusi hanno trovato al loro risveglio la notizia che, nella notte, il Consiglio dei Ministri aveva deciso per l’ennesimo slittamento in avanti della riapertura delle scuole. Da ormai dieci mesi le scuole secondarie superiori e le Università sono chiuse ed è un continuo ed estenuante susseguirsi di dichiarazioni e contrordini, proroghe e rinvii, cifre e percentuali, proposte e controproposte, tanto che affidarsi agli aruspici per conoscere il futuro della scuola ci farebbe forse sentire più sicuri.
“Ogni adolescenza coincide con la guerra”, cantavano i Tre Allegri Ragazzi Morti ma, a questo punto, sarebbe meglio dire ‘dovrebbe coincidere’.
Se con il termine guerra intendiamo in senso lato un confronto, un conflitto, una contestazione – anche dura – ai modelli di pensiero e di comportamento che ci vengono tramandati, di fatto oggi stiamo privando i giovani della possibilità di opporsi, di lottare, di esprimere dissenso. Li stiamo rendendo imbelli, fiacchi, deboli nel corpo e nel pensiero. Li stiamo isolando, mortificando, scoraggiando. In questi lunghi mesi la loro età, le loro esigenze, le loro istanze sono letteralmente sparite dalle pagine di cronaca. Abbiamo trasformato la lotta al Covid in una questione generazionale. Li abbiamo ammutoliti, ma sono convinta che a lungo termine il danno ricadrà sull’intera collettività, perché è nei giovani che nascono le idee rivoluzionarie, la capacità di ricostruzione e la voglia di cambiare.
I pedagogisti e gli psicologi dello sviluppo concordano nell’individuare nell’adolescenza un momento cruciale per la definizione del Sé attraverso la relazione con i pari e l’opposizione ai modelli adulti di pensiero e di comportamento. Ma noi stiamo chiedendo ai ragazzi di restare chiusi tra quattro pareti, di rinunciare a ogni attività scolastica ed extrascolastica, di cancellare l’affettività dalle loro vite; e nel frattempo, possibilmente, di continuare a rendere al massimo – pur rimanendo atomizzati davanti a uno schermo – di essere prestanti, autonomi e responsivi nello studio individuale. Non basta: pretendiamo che si mostrino indipendenti e sereni, per favore, ché noi adulti di problemi ne abbiamo già fin troppi.
Eva e Anita hanno voluto manifestare il loro dissenso, seguendo le lezioni davanti al cancello della scuola media di Torino che frequentano. Hanno affermato il loro diritto all’istruzione con grande maturità, agendo nel rispetto delle regole e in modo assai creativo (non è creativa la capacità di lanciare un messaggio eversivo restando all’interno di confini tracciati da altri?). Per tutta risposta Eva è stata sospesa. Per fortuna, non è andata così ovunque. Mattia e Chiara, che hanno deciso di seguire le lezioni dalla strada davanti al liceo Romagnosi di Parma, sono stati ricevuti dal Sindaco, e il Dirigente Scolastico li ha accompagnati.
Anche Alfonso ci ha provato: preside della scuola di Vo’ che è diventata il simbolo della lotta al Covid; premiato nel 2016 come miglior docente innovatore italiano; nominato dirigente con l’ultimo concorso e salito dalla Campania nel Nord-Est per svolgere la sua professione, si è ritrovato a febbraio nell’occhio del ciclone pandemico ed è divenuto, suo malgrado, egli stesso il simbolo di tutti quei docenti che ogni giorno, tra mille ostacoli burocratici e organizzativi, cercano di offrire ai bambini e ai ragazzi la scuola che meritano. Alfonso però si è spinto oltre e ha commentato sui social le politiche scolastiche messe in campo dal Ministero, ritrovandosi presto sottoposto a un’istruttoria disciplinare. Così va il mondo.
Riportando il discorso ai meri aspetti didattici e formativi, di fatto stiamo privando questa generazione di ogni opportunità di crescita e di confronto autentico con l’altro. Senza contare che, in un’ottica intersezionale, si dovrebbe aprire un grande dibattito sull’esasperazione e sulla divaricazione del divario sociale. In parole povere, se togliamo quelle possibilità di esplorazione del Sé e delle predisposizioni individuali che normalmente sono offerte con la scuola e dalla scuola (penso ai laboratori, ai corsi extrascolastici, agli sportelli d’ascolto, alle attività di potenziamento dell’offerta formativa) ne usciranno ancora una volta penalizzati i più deboli.
È altamente probabile che nel nostro paese l’opportunità di coltivare l’arte, la musica, il teatro o lo sport torni a essere ancora una volta riservata a chi ha il vantaggio (familiare ed economico) di potersi pagare corsi e lezioni individuali. Storpiando un’altra vecchia canzone: anche l’operaio vuole il figlio… attore o pianista, ma – ahimè – di questi tempi non se lo può più permettere. Stiamo togliendo ai ragazzi la gioia della scoperta di sé e degli altri, il piacere di sperimentarsi, il sogno.
Per quanto riguarda la didattica, poi, per parlare di innovazione non basta avere a disposizione strumenti tecnologicamente all’avanguardia e piattaforme funzionali, bisognerebbe, invece, trovare il coraggio di rinnovare alla radice le metodologie di insegnamento e di conoscere a fondo il funzionamento dei nuovi media e dei cervelli dei nativi digitali, per implementare l’uso di entrambi. Perché di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi, la Dad si è tradotta in estenuanti lezioni frontali old style che però (e questo non lo dice nessuno) richiedono un livello di attenzione e una capacità di concentrazione mai viste e mai pretese da noi, che passavamo le ore di filosofia o matematica a guardar fuori dalla finestra e a lanciare messaggini (cartacei) alle compagne della fila accanto.
Spingiamoci ancora oltre. In questi mesi non mi pare di aver sentito nessun discorso serio sull’impatto psicologico della reclusione sui ragazzi, nonostante fino a poco prima dello scoppiare della pandemia, su ogni rivista o sito pedagogico specializzato non si perdesse occasione per spronare gli insegnanti a una rieducazione emotiva. Sto dicendo che siamo molto bravi a riempirci la bocca di bei discorsi sull’attenzione all’emotività, ma di fatto non siamo capaci nemmeno noi di leggerne i segni. In una società che spinge le performance all’eccesso, dove qualunque vicenda è equiparata a una prestazione valutabile in termini di successo o di sconfitta e in cui sono sempre le persone più estroverse e propositive (forse quelle un pochettino egoiste) a risultare vincenti, nessuno si è chiesto che fine faranno i talenti dei timidi, degli introversi, di quelli che si tengono un passo indietro e che di fronte a una videochiamata, esposti allo sguardo e alle orecchie di tutti, riescono solo a stare muti e immobili, aspettandone la fine, e sudandosela tutta. Lo dico per esperienza diretta, perché io – docente di quasi cinquant’anni – mi sento ancora una di loro.
La questione, già di per sé abbastanza complessa, non si esaurisce qui. Iniziano soltanto ora a uscire studi che indagano le più preoccupanti ripercussioni del lockdown sugli adolescenti: la crescita del fenomeno hikikomori (come reagire se sono chiuso in casa?), le ricadute di una prolungata esposizione agli schermi sul piano cognitivo, l’abuso crescente di sostanze psicotrope e alcool, l’aumento dei disturbi del comportamento alimentare, il proliferare dei casi di cyberbullismo e le allarmanti percentuali dell’abbandono scolastico.
Dopo l’iniziale trauma collettivo, che tutti abbiamo vissuto, noi adulti avevamo il dovere morale e politico di raccogliere la sfida. Una sfida culturale e antropologica di difficoltà elevatissima, che ci ha offerto, però, l’opportunità di eradicare modelli educativi stantii e di trovarne di nuovi, di ridefinire i paradigmi comunicativi e formativi, di usare la nostra posizione di potere per uscirne migliori.
E invece… Il 2020 pare aver esasperato l’assoluta incapacità della società adulta di mettere le intelligenze in rete, di comunicare con gli altri, di fornire chiare linee d’azione, di delineare una visione del futuro. Nuove, contraddittorie regole appaiono e scompaiono ogni giorno, dal tramonto all’alba, come ectoplasmi normativi che non lasciano traccia, perché privi di sostanza. Ciò che rimane è un desolante effetto di frustrazione e caos.
Se l’etimo di ‘educazione’ significa ‘tirare fuori, guidare’ – ah, quanto possono insegnare le parole! – la generazione adulta ha fallito nell’educare: fallisce quando i genitori consentono ai figli di togliere la mascherina appena usciti da scuola, quando gli insegnanti pretendono ore di attenzione fissa davanti a uno schermo, senza mai entrare in dialogo autentico con gli allievi, quando la classe politica e dirigente finge di credere che, dopo dieci mesi di “emergenza”, la scelta di non riaprire le scuole sia una forma di tutela della salute pubblica e non il segno di una precisa scelta. Continuiamo a fallire – e gli effetti si vedranno a lungo termine – ogni volta che scriviamo, diciamo e leggiamo senza battere ciglio che la scuola è un problema, che il disagio dei ragazzi e delle ragazze è cosa facilmente superabile, e lo consideriamo poco più di un capriccio da soffocare.
* Insegnante e saggista, cura il blog Il racconto di mamma Loca.