Qualcuno ha il cellulare di Banksy?

di Marco Severo

Lo sprovveduto automobilista che, anni fa, si trovò ad attraversare l’Appennino centrale tra Lazio e Abruzzo fu colto da una specie di sincope allorché nei pressi di Antrodoco, in provincia di Rieti, levò gli occhi sopra l’orizzonte. Come un’epifania inattesa del passato, era esplosa dietro una curva un’enorme scritta sul fianco di una montagna. “Dux”, vi si leggeva. La monumentale epigrafe era composta dagli alberi dei boschi, verde cupo sul giallo dei prati estivi. L’Appennino stesso, il suo paesaggio, cielo e terra, invocavano il Duce, Benito Mussolini, il fascismo: lì, oltre mezzo secolo dopo la caduta di un regime responsabile del biennio nero, del ventennio dittatoriale, della guerra d’Etiopia, della guerra di Spagna, delle leggi razziali, della seconda guerra mondiale, della Repubblica di Salò.

Lo sprovveduto automobilista, ripresosi dalla catalessi, una volta a casa (non esistevano gli smartphone) apprese da internet che quello con la scritta era il monte Giano, 1.820 metri sul livello del mare all’imbocco della valle del Velino. E che nel 1939, anno XVII dell’era fascista, nella necessità di arginare la frequenti frane della parete ovest, la Guardia forestale vi mise a dimora migliaia di pini disponendoli in modo da comporre la silvestre scenografia, in omaggio a Benito Mussolini.

Poco più a sud, ancora sull’Appennino, a Villa Santa Maria in provincia di Chieti, giusto un anno fa un altro “Dux” è tornato alla luce. Stavolta l’iscrizione appare scolpita su una roccia, una parete spiovente che l’amministrazione comunale ha posto in sicurezza per farne un percorso d’arrampicata. Nei fondi pubblici impiegati è stata inclusa anche la pulizia dell’incisione fascista, che data 1940 e che con il tempo era scomparsa sotto la polvere calcarea.

Figura sempre in questi fatti di cronaca un sindaco o un assessore che al bar del paese si dichiara allibito per tanto clamore, “perché, che ho fatto?”, “ma che c’entra la politica?”, “quella scritta fa parte del paesaggio!” eccetera. Pino Finamore, lista civica di centrodestra, primo cittadino di Villa Santa Maria, ha onorato il ruolo affermando l’anno scorso che l’incisione “non inneggia a niente, è una scritta che c’era, e se serve da attrattiva per far venire gente nel mio paese va benissimo”.  Ad Antrodoco, sotto al monte Giano, gli abitanti – intervistati dopo che nel febbraio 2018 alcuni militanti di Casapound erano saliti a ripristinare la pineta “Dux” danneggiata da un incendio (estate 2017) – affermarono che l’iscrizione “è un monumento, ci siamo affezionati, come è giusto che sia con i monumenti, niente di più”.

In questi giorni su quest’ultima affermazione non c’è grande consenso, in giro per il mondo. I monumenti vengono buttati giù con molta facilità, e con grande dispendio di energie critiche, editoriali, post sui social network (a cui si unisce anche questo articolo: ma con una variante). Dopo la statua di Edward Colston, lo “schiavista benefattore” di Bristol in Inghilterra, abbattuta per protesta dai manifestanti del Black Lives Matter il 7 giugno scorso, come si sa sono cadute o sono state danneggiate diverse statue di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti, insieme a quelle di parecchi personaggi storici legati con vari gradi di parentela allo schiavismo. La morìa di statue ha riaperto un dibattito sulla rappresentazione della memoria pubblica avviato nel 2017 proprio negli Stati Uniti, durante una serie di manifestazioni riguardanti la guerra civile americana. In Italia torna a suscitare controversie la statua dedicata a Indro Montanelli a Milano, a Parma si parla della statua di Vittorio Bottego in piazzale Dalla Chiesa.

I “Dux” tatuati sulla pelle d’Italia sono un’altra cosa, ma non più di tanto. A differenza delle statue di Colston e compagnia, che costituiscono, diciamo, fonti storiche di una memoria pubblica (cioè ci dicono della sensibilità, delle conoscenze e del sistema dei valori di coloro che eressero il monumento, i quali per esempio non ravvisarono nulla di ostativo nell’attività di schiavista del benefattore Colston), ecco, a differenza delle statue, la pinetona del monte Giano e l’incisione rupestre in Abruzzo sono fonti dirette del fenomeno storico rappresentato, ovvero del fascismo. I “Dux” ci raccontano proprio della dittatura, non di come essa sia stata raccontata in seguito. Sono fossili autentici. Ci parlano per esempio del culto della personalità che era in auge durante il ventennio e che mosse le entusiaste Guardie forestali a quel gigantesco “unisci i puntini” giocato su un fianco dell’Appennino laziale. E su questo possiamo muovere le nostre considerazioni, approntare comparazioni, farci venire tranquillamente i brividi sulla schiena. Lo stesso si può dire delle numerose scritte murali ancora visibili in molte zone del Paese, soprattutto nelle regioni centrali, disseminate a suo tempo dalla propaganda fascista.

Pertanto, trascurando il “ci sono affezionato” e il “non c’entra la politica”, l’obiezione più problematica rivolta a quanti ne vorrebbero la cancellazione è: “Ma si tratta di un reperto storico, ha un valore culturale!”. Dunque non si tocca. Talvolta sono le pregevoli caratteristiche tecniche o estetiche del manufatto a garantire una tutela del manufatto stesso, motivo per il quale per esempio a nessuno viene in mente oggi di abbattere il Colosseo in quanto simbolo dei soprusi e dei massacri in esso compiuti secoli fa.

Ciò che viceversa rende i “Dux” del tutto equiparabili alle statue cadenti, e dunque li rende interattivi, cioè toccabilissimi, risiede proprio nella risposta che essi suscitano nell’osservatore, nelle sue conoscenze e nel suo sistema di valori. In fondo, non è il fossile a costituire materiale prezioso ma la storia che esso racconta. E se la storia che esso racconta suscita sgomento, rabbia o provoca una sincope tale da inchiodare sulla Salaria nei pressi di Antrodoco e lasciare mezzo pneumatico sull’asfalto, vuol dire che in quel momento – con quella storia –  si compie un dialogo fra passato e presente. Fra le sensibilità di due epoche. Dunque comprensione, conoscenza, progresso.

Ma perché questo dialogo si realizzi in modo corretto e maturo occorre che il manufatto, il fossile, i “Dux” vengano in un certo senso smontati, metabolizzati, sottratti alla piccola comunità che ne difende la “proprietà” (“c’è sempre stato, fa parte del paesaggio”: fa parte del paesaggio un corno! Che diritto ebbero quelle Guardie forestali invasate del ’39 di solcare e modificare un tratto di paesaggio, bene pubblico del presente e del futuro, vendendone l’anima a un istrione travestito da statista?).

Bisogna in altre parole che la collettività possa trarre interesse e possa decifrare il significato di una fonte storica. Passaggio che non può darsi però se tutto resta così, fatalmente, con la scrittona piazzata lì come niente fosse, come un bosco deforme che – guarda te – è cresciuto a forma di Mussolini e pazienza (salvo diventare sfondo di selfie per i militanti di Casapound). E se questo comporta la museificazione e, nella fattispecie l’edificazione ad Antrodoco o a Villa Santa Maria di un luogo dedicato alla storia, o anche una “strada della memoria” con installazioni, opere d’arte (qualcuno ha il cellulare di Banksy?), animazioni ispirate ai nostri di valori: quelli della pace, del rispetto e della convivenza umana – ecco allora ben venga la museificazione.

Si salvi il paesaggio – si rimaneggi e risignifichi il reperto – per salvare la memoria pubblica.

(In alternativa, almeno, mettete un gommista su quel tratto di strada).