di Dea Severino*
Il ritrovato senso di comunità che aleggia negli animi in questo periodo non è altro che una gigantesca illusione collettiva. Davanti al virus non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse possibilità. Tuttavia per chi ci comanda, questa è l’occasione perfetta per sfruttare la visibilità mediatica di alcune iniziative (come i canti dai balconi), facendo leva sul nostro profondo desiderio di comunione e socialità, che avvertiamo in modo ancora più latente, costretti come siamo in casa, isolati. Questo nella speranza di poterci congratulare l’un l’altr* su che grande popolo siamo, a patto che tutt* rispettiamo le regole. Quanto migliori e forti usciremo da questa crisi, se tutt* seguiamo le regole.
Ma di quali regole stiamo parlando? Quale legge?
Attraverso questo lavaggio del cervello mediatico, viviamo tutt* l’illusione di essere gli unici responsabili del “futuro della nazione”. In questo modo ci sentiamo quasi in dovere di fare le veci dello stato, (non siamo in fondo noi, lo stato?) e performiamo quotidianamente questa sensazione denunciando chi fa jogging intorno al proprio palazzo, chi porta fuori il cane a più di 200 metri dalla propria abitazione, chi esce a buttare la spazzatura senza mascherina, ecc.. Ed ecco che improvvisamente diventiamo veri e propri “sceriffi da balcone”, pronti a difendere lo Stat(us qu)o al prezzo di manganellate contro “pericolosi” antagonisti, “minacciosi” anziani che vanno a fare la spesa con la propria moglie disabile, coppie “senza scrupoli” che addirittura si permettono di “opporre resistenza” esprimendo la volontà di non mostrare i propri documenti alla polizia municipale. In questo modo contribuiamo a dare all’autoritarismo una parvenza di democrazia. All’idea di aver compiuto il nostro dovere di cittadini rispettosi della legge, tiriamo un sospiro di sollievo. Ma il confine tra legale e illegale non siamo noi a deciderlo, e cambia troppo rapidamente.
La partita, però, si sta giocando altrove, ed è iniziata da tempo.
Ora ci sembra normale pensare ad una piazza cittadina occupata da camionette militari. Forse ci sentiamo anche al sicuro, senza riflettere sul perché, in tempo di pace, ci troviamo ad essere sottoposti ad un continuo controllo e pattugliamento. Ci hanno testat*, hanno visto fin dove potevano spingersi, fino a che punto avremmo accettato questo “dito puntato”. Oggi osserviamo le conseguenze di questa resilienza. La violenza finora riservata principalmente ai “dannati” della città, come i senzatetto, i tossico-dipendenti, persone senza documenti, in questo momento ricade su chi va a ritirare lo stipendio allo sportello e rifiuta di presentare i documenti, su una coppia di genitori che porta la propria figlia in ospedale a fare un controllo dopo essere guarita da poco dalla leucemia, su un rider di 21 anni che viene fermato e multato durante una consegna per una cifra superiore al suo stipendio. Ed improvvisamente diventa giusto che queste persone siano sanzionate, picchiate e arrestate se necessario, in nome dell’”ordine pubblico”, con un dispiego spropositato delle forze del cosiddetto-ordine. D’un tratto questa non è più da considerare violenza o abuso di potere, perché giustificato dalla situazione straordinaria di emergenza.
Tutto questo è inaccettabile. Queste agenzie dell’ordine sono finanziate da noi cittadin*, e sono quindi obbligate a rendere conto del servizio che prestano. Nessun* di noi può provare a giustificare nemmeno per un momento questa repressione. Nel momento in cui accetteremo senza fare rumore che una sola persona sia percossa perché si rifiuta di esibire i documenti, perché viaggia senza biglietto su un autobus, perché compra solo 2 bottiglie di vino, o 4 banane o 2 zucchine, significherà che ci saremo abituat* a non sentire più nostre le strade che camminiamo, i parchi che attraversiamo. Le nostre decisioni non saranno più veramente nostre, ma sempre condizionate e oppresse da questo sistema che ci vuole uniti nel separarci.
Tra qualche giorno è il 25 Aprile. 77 anni fa le persone si riversavano nelle strade e nelle piazze per riappropriarsene e festeggiare la loro liberazione dai fascisti. Oggi gli unici a circolare per le strade delle nostre città saranno proprio quelli che stanno riproponendo quel modello squadrista, prevaricatore e oppressivo che volevamo morto e sepolto da tempo.
Quello che tutt* dobbiamo chiederci oggi è, che tipo di società desideriamo? Quale comunità realmente sentiamo nostra? Per risollevarci domani, occorre iniziare a ripensare una società umana in cui a nessuno viene delegato il diritto alla prevaricazione.
Il vero senso di comunità dobbiamo ritrovarlo riconoscendo la violenza strutturale a cui la maggior parte di noi è sottopost*. Dobbiamo darci forza per combattere assieme chi ci opprime, e ci chiede di ubbidire a leggi superficiali e grette, che vanno ancora una volta ad infierire su chi già si trova in una situazione svantaggiata.
Nessun* deve essere legittimato a svilire la nostra persona, in nome di una condizione straordinaria, mai più.
* attivista di Art Lab Occupato