Ancora sul 10 febbraio

di Ilaria La Fata

La legge n. 92 del 2004 – ormai è noto – istituisce un «giorno del ricordo» per conservare la memoria «della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Su questa legge, e sulle celebrazioni del ricordo di foibe ed esodo mi paiono opportune almeno due considerazioni.

La prima è sulle radici della legge e sull’uso politico di quella storia, che sembra sminuire, quando non addirittura ignorare del tutto, il lavoro svolto prima della sua istituzione da storici, sia locali che di respiro più “nazionale”. Dal 1946 al 2004 sono una novantina i testi pubblicati, sia jugoslavi che italiani, che raccontano la storia del secondo conflitto mondiale in quelle zone affrontando anche questi temi. Tra questi spicca il lavoro della commissione storico culturale italo-slovena, istituita nel 1993, che sfociò, nel 2000, nella relazione I rapporti italo-sloveni tra il 1880 e il 1956. La relazione non fu subito resa pubblica né adeguatamente diffusa; l’Anpi fu tra i pochi a renderla nota nel 2008 con un numero speciale del suo giornale «Patria indipendente». Certo ci sono dei limiti, ad esempio non viene usato mai il termine “crimini”, ma si comprende che foibe ed esodo non furono così deterministicamente interdipendenti, né una necessaria conseguenza l’uno delle altre, e ci permette di iniziare a conoscere meglio quanti vissero in quelle terre di confine.

La seconda considerazione riguarda le vicende complesse, come rileva anche la legge, proprio di quelle persone, abitanti di una zona dove la pluralità di lingue e culture costituiva una grande risorsa, e dove la «ricchezza del meticciato», come è stata definita dallo studioso Lorenzo Filipaz, è stata coscientemente sacrificata da politiche nazionaliste in nome di una visione unitaria e “pura” di popoli e terre.

In questo senso la «guerra civile europea» non si arrestò con il mese di maggio 1945 (per restare solo in Europa) ma proseguì trasformandosi in progetto politico. Inoltre, a partire dai trattati di pace di Parigi del 1947, per finire con il Memorandum di Londra del 1954, si tese proprio a una sorta di “omogeneizzazione” nazionale, separando nettamente chi era italiano e chi era slavo: chi aveva la “lingua d’uso” italiana poteva chiedere di mantenere la cittadinanza italiana e quindi trasferirsi in Italia. In questo quadro, per oltre un decennio, a ondate e da luoghi diversi circa 250.000 persone (ma le cifre cambiano se si includono anche l’esodo di guerra o gli espatri successivi al 1956) tornarono in Italia. La scelta fu ponderata, sofferta, a volte obbligata: alcuni erano più terrorizzati dall’idea di restare minoranza in un paese politicamente ostile, altri attratti dal desiderio di ricominciare una vita con nuove prospettive di benessere in un paese a democrazia occidentale; in ogni caso appare pretestuoso e infondato attribuire questi avvenimenti a un progetto di pulizia etnica.

 

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