Il 10 febbraio fa bene alla Repubblica democratica?

di William Gambetta

Il Giorno del ricordo del 10 febbraio – dedicato alle «vittime delle foibe» e all’«esodo» delle popolazioni italiane dalle terre del confine orientale – è stato istituito nel marzo 2004. In quel momento al governo del paese c’era Silvio Berlusconi, a capo di un’alleanza che comprendeva Forza Italia, Lega Nord, Alleanza nazionale (erede del Movimento sociale italiano) e i cattolici ipermoderati di Ccd e Cdu.  La Legge 92 che istituì quella nuova ricorrenza fu approvata con una maggioranza ben più ampia di quella che sosteneva il governo, dagli ex missini (mai pentiti delle loro radici neofasciste) ai Democratici di sinistra (questi sì pentiti del loro passato comunista). Una legge bipartisan, insomma, esemplare del clima politico dell’epoca, segnato dall’alternanza tra centrodestra e centrosinistra alla guida del neoliberalismo imperante.

Quella legge, tuttavia, fu aspramente criticata da molti eminenti storici (Enzo Collotti, Giovanni De Luna, Filippo Focardi e Angelo D’Orsi, per far solo qualche nome) che la interpretarono come una sorta di alternativa alla Giornata della memoria del 27 gennaio (liberazione del lager di Auschwitz), istituita poco tempo prima (luglio 2000).

Già, perché fin dall’inizio quella legge ammiccava alle inclinazioni della destra più nazionalista. Non che gli studiosi non volessero approfondire le vicende delle foibe e delle fucilazioni di italiani (gerarchi e militari fascisti, ma anche civili) da parte dei partigiani della resistenza jugoslava. Non che non volessero recuperare la drammatica memoria delle famiglie italiane che dovettero emigrare dopo la seconda guerra mondiale da quelle terre. Ma gli storici più consapevoli avevano sentore che l’istituzione del 10 febbraio come ricorrenza civile dello Stato avrebbe imposto un clima di retorica politica talmente pesante da negare una riflessione pacata su quel passato. E così infatti è stato. Dal 2005 ad oggi, all’ombra di quella legge – nonostante convegni, ricerche, libri e persino i risultati di una commissione paritetica composta da studiosi italiani e sloveni – sulla ricerca storica sono prevalse le necessità politiche, sull’analisi critica la loro enfasi patriottica, sull’indagine storiografica la loro prepotenza censoria.

L’estrema destra, poi, sembra essere riuscita a impossessarsi di quel giorno al di là di ogni previsione, trovando spesso una sponda in partiti e dirigenti della destra istituzionale. In molte città, compresa Parma, la giornata del 10 febbraio è diventata l’occasione in cui sigle neofasciste (camuffate da fantomatici “comitati spontanei”) animano marce paramilitari nel nome del “sangue della patria” e contro la bestiale-violenza-partigiana-comunista. Per costoro celebrare i “martiri delle foibe” significa poter finalmente organizzare cortei dalla ritualità fascista, nascondendosi dietro la memoria di un giorno istituzionale. Confidando nella benevolenza di prefetture e questure, quelle parate hanno di fatto la possibilità di occupare strade e piazze nelle forme tipiche delle sfilate del regime, con il tripudio di bandiere tricolori e di partito, con i discorsi dei vari ducetti, i loro sodali impettiti sull’attenti, le parole di onore per i “martiri” trucidati dalla resistenza. Per l’estrema destra, insomma, il 10 febbraio è diventato un vero e proprio appuntamento nazionale: un rito politico dove ostentare la propria forza.

Si tenga in considerazione, infatti, che negli anni della “prima” Repubblica – quando i riferimenti alla cultura antifascista erano condivisi e comuni a tutte le principali forze politiche (pur con marcate differenze), dal Partito comunista alla Democrazia cristiana, dall’area laica ai gruppi della sinistra rivoluzionaria – ciò non era tollerato. Ai neofascisti, compresi quelli del Movimento sociale italiano di Almirante, era di fatto impedito, in un modo nell’altro, l’ostentazione di simboli e icone tradizionali della dittatura, così come i cortei che richiamassero il regime o, ancora, alcune delle sue ricorrenze celebrative (la marcia su Roma del 28 ottobre o la nascita di Roma del 21 aprile). Vi erano sì zone franche, come Predappio e l’anniversario della morte di Mussolini. O le commemorazioni di alcuni attivisti uccisi negli anni settanta, come Ramelli a Milano o i morti di Acca Laurentia a Roma. Ma erano eccezioni, peraltro dal carattere territoriale. Ogni celebrazione che fuoriusciva da questi confini era impedita dallo sdegno e dall’azione popolare, prima ancora che dalle istituzioni democratiche.

Col l’istituzione del 10 febbraio sembra tutto cambiato. L’estremismo di destra ha ora un appuntamento fisso e nazionale, sul quale può far convergere le sue diverse anime. Un rito che, al tempo stesso, esalta la “patria”, onora i “propri martiri”, maledice l’eterno “nemico antifascista”. Altro che celebrazione dei drammi del confine orientale.