di William Gambetta
In una città di provincia, dove bene o male ci si conosce tutti, dove bisogna pur convivere (e lavorare) senza troppi grattacapi e non è bello essere additati come guastafeste, non si usa criticare apertamente né la ricerca né la produzione culturale altrui. A meno che costoro non siano “nemici” giurati. In questo caso, si usa – abbondantemente – sputtanare sottovoce. Magari infarcendo il racconto con malignità e pettegolezzi. Normalmente, però, si fa finta di nulla. Il silenzio, così, vale come recensione negativa: degli altri non si parla, non si citano i libri, né i saggi, né le collaborazioni, perché la loro menzione potrebbe essere intesa come considerazione: meglio lasciare andare senza essere accusati di alcunché. O ancora, si può lodare senza motivo con vuoti complimenti, come in una commedia dove attori consumati si incontrano tra baci, abbracci e sorrisi che, dopo essersi lasciati, diventano smorfie.
Questo nauseante conformismo è senz’altro un problema che riguarda non solo la nostra piccola città e non solo il mondo della ricerca. Eppure, visto che ora abbiamo iniziato a sfoggiare il titolo di “capitale della cultura”, sarebbe bene impostare nel migliore dei modi il 2020, senza falsità né silenzi ipocriti. Per cultura, infatti, si dovrebbe intendere – prima di ogni altra cosa – una tensione critica a comprendere e interpretare il mondo, un processo di conoscenza che non può limitarsi alla fatica personale e privata ma deve per forza affrontare il mare aperto della dimensione collettiva e pubblica. Ecco perché la discussione culturale, anche quella feroce e anticonformista, è certo immensamente più stimolante e produttiva dei cerimoniali di un’élite formalmente rispettosa ma amorfa. Sì, amorfa. Perché quelle modalità untuose che molto spesso vediamo intorno a noi non aiutano certo né la riflessione né la ricerca. Quando il re è nudo, non bastano gli inchini dei cortigiani a far apparire le sue vesti.
Molti potrebbero essere gli esempi. Tra i tanti, vorrei analizzarne uno che mi sembra emblematico. Tra le prime iniziative di Parma2020 – promossa dall’Unione Parmense degli Industriali, in collaborazione con la Gazzetta di Parma e il Complesso Monumentale della Pilotta – c’è la mostra I ricostruttori. La Parma del boom, dedicata ai «protagonisti della rivoluzione industriale» del Parmense (aperta, presso i Voltoni del Guazzatoio della Pilotta, fino al 29 febbraio).
Il curatore dell’esposizione – nonché del catalogo che la accompagna – è Pino Agnetti, giornalista noto per i suoi editoriali liberali e ultraconformisti sul quotidiano cittadino. Con alle spalle molte curatele di eventi, Agnetti si fregia anche dei titoli di «storico, saggista e di consulente d’immagine». E, di fatti, mostra e catalogo sono ben curate graficamente: grandi ritratti e fotografie di aziende accolgono il visitatore, accompagnate da sintetiche descrizioni della loro storia.
Ci si accorge subito, tuttavia, che la scelta dei protagonisti è alquanto limitata. I “ricostruttori” non sono operai, tecnici, impiegati o le mille figure che hanno animato il passaggio dal mondo del lavoro agricolo a quello industriale, ma i capitani d’industria, gli imprenditori. Sono loro, secondo Agnetti, ad aver fatto la storia del Parmense. Ed è difficile non pensare a quella poesia di Bertolt Brecht dove un lettore operaio si domanda: Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? / Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. / Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
A differenza di Brecht, Agnetti non ha alcun dubbio e raffigura la ricostruzione economica del paese come il frutto del puro ingegno dei “suoi” imprenditori. Sono loro ad essere celebrati in quanto uomini dalle «visioni straordinarie» − seguendo definizioni dello stesso Agnetti − dai «passi fulminei», dall’«inesauribile fuoco nelle vene», dall’«etica del dovere», dagli «spiriti illuminati»… Mentre i loro prodotti si caratterizzano per le «qualità senza precedenti», lo «stile inconfondibile», «capolavori tecnologici» e «primati internazionali». Come le aziende, del resto, dallo «sviluppo ininterrotto», nate dal nulla e diventate, nei diversi settori, «leader mondiali». Racconti davvero imbarazzanti per chiunque conosca minimamente l’arte della storiografia. Un lavoro eccellente, invece, nel campo della comunicazione commerciale.
Anche sulla scelta dei profili degli imprenditori bisognerebbe capire in base a quale criterio Agnetti abbia agito. Sì, certo, è comprensibile che il committente (nonché finanziatore) abbia voluto dire la propria sui contenuti. Per cui non ci si meraviglia di trovare tra i diciotto medaglioni quelli di Pietro Barilla, Luigi Bormioli, Camillo Catelli, Giacomo Chiesi, Pietro Pizzarotti o Ampelio Simonazzi (e i rispettivi eredi, ovviamente). Eppure, fa piuttosto impressione il vederne omessi altri – come Rocco Bormioli, Angelo Salamini o Callisto Tanzi della Parmalat – le cui aziende, pur cadute in crisi, hanno sicuramente svolto un ruolo di primo piano nell’economia parmense degli anni Sessanta (e oltre). Forse Agnetti avrà pensato che anche solo nominare quegli uomini avrebbe potuto turbare il suo consolante spot pubblicitario.
Deve aver pensato lo stesso riguardo alle condizioni di lavoro in fabbrica e ai conflitti industriali che caratterizzarono molte delle industrie citate: pure quelli dimenticati senza problemi. Ecco, a pensarci bene, i grandi assenti della ricostruzione di Agnetti sono proprio i duri ritmi della produzione, i bassi livelli salariali, le condizioni d’insalubrità, le multe imposte dai capi, l’ostruzionismo verso i sindacati, il paternalismo più equivoco e le rigide regole della fabbrica. Elementi che certo aiutarono non poco lo sviluppo (e i profitti) delle imprese tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Ne emerge, dunque, l’affresco di una storia del Parmense che è – banalmente, solamente, encomiasticamente – la storia di quella borghesia industriale ancor oggi sulla cresta dell’onda. La storia di chi ha il potere economico e, sembrerebbe, anche quello “culturale”.
E non a caso, ad Agnetti e a I ricostruttori la stampa e l’intellettualità di provincia ha tributato solo sorrisi e applausi.