E la Columbus se ne va…

di Francesco Antuofermo

“Una notte, un omino di neve ancora senza naso riceve in dono una carota da una bambina appena tornata dalla spesa con la famiglia, e decide di andare a scoprire da dove viene il suo bellissimo naso nuovo. Cammina e cammina, dopo aver riconosciuto la S del sacchetto sulla facciata di un edificio illuminato che si staglia nella città addormentata e innevata, scopre non solo carote, ma un mondo di meraviglie”. (Pubblicità del natale 2019 di Esselunga)

Chi vive a Parma sa che la nostra città deve parte della sua ricchezza alla commistione tra sistema agricolo e industriale. Vale per le imprese che sul food hanno visto crescere i loro fatturati come testimoniano manifestazioni come Cibus. Ma lo stesso si può dire per le opportunità di reddito che la forza lavoro parmigiana, soprattutto quella stagionale composta da tanti disoccupati e molti studenti, prevede di recuperare. Parma, secondo le classifiche, è tra le prime città italiane per vivibilità ma l’altra faccia della medaglia è il costo della sopravvivenza, composto da affitto, carrello della spesa, bollette e servizi, che diventa spesso insostenibile per migliaia di famiglie. Il lavoro stagionale, e il reddito che se ne ricava, allevia questo fardello e, quando comincia la campagna estiva del pomodoro, la rabbia e la frustrazione di arrivare alla fine del mese si scioglie in questa opportunità.

Si capisce quindi che la notizia della chiusura della Columbus, 80 operai attivi tutto l’anno e 150 lavoratori stagionali, pur passando quasi inosservata sugli organi di informazione locale, rappresenta un duro colpo alle aspettative di centinaia di lavoratori in attesa del periodo estivo per dare sollievo alle proprie finanze. Lo stabilimento di Martorano, è una delle fabbriche emiliane storiche del comparto. Fondata nei primi anni del secolo scorso, l’azienda ha appena raggiunto i 100 anni circa di attività, risultando come una delle più moderne realtà del settore. «Amiamo fare le cose per bene − si legge sul sito aziendale –. La cura che mettiamo nel creare un ambiente sereno e collaborativo, nella ricerca delle migliori condizioni di sicurezza sul lavoro, nel rispetto dei diritti dei lavoratori, rende i nostri prodotti diversi da tanti altri».

Nonostante questa diversità, però, l’azienda chiude. Ma non è un’azienda decotta, obsoleta, fuori dal mercato. È una realtà produttiva moderna e all’avanguardia. Il che acuisce la contraddizione di un sistema che periodicamente deve distruggere capacità produttiva per sopravvivere a sé stesso. Nei suoi impianti, mentre si lavorava alla salsa concentrata, si sono condensate migliaia di ore di lavoro di persone che hanno lasciato nello stabilimento sudore, fatica, anni di vita per la valorizzazione del prodotto. Quindi, come mai nel 2020, in una realtà produttiva come quella parmigiana, non c’è più posto per un’azienda con queste caratteristiche?

La risposta va cercata all’interno delle contraddizioni della filiera del pomodoro, uno dei principali prodotti dell’agricoltura italiana che vanta un fatturato annuo di 3 miliardi di euro, ma che oggi è piombato in una crisi dominata da sfruttamento e insostenibilità. I problemi del settore cominciano subito, già nel momento della maturazione. Soprattutto al Sud, dove la raccolta a mano ha ancora un peso consistente. Qui vengono impiegati circa 45.000 lavoratori stagionali, per lo più di origine straniera, che devono riempire un cassone da tre quintali di prodotto per ricevere la miseria di 4 euro, in una condizione di sfruttamento e caporalato simile a quelli degli albori del sistema industriale.

La faccenda suscita ogni anno rabbia e indignazione che si riflette all’interno degli organi di informazione con inchieste che conquistano la prima pagina, per poi sparire subito il giorno dopo, come la fiamma di un cerino. Nel 2016, la polemica sugli schiavi del pomodoro ha spinto il Parlamento ad approvare una legge che prevede forti sanzioni non solo per il caporale, ma anche per le aziende che si avvalgono della sua intermediazione, aggiungendo una responsabilità in solido tra le due figure. Ma come spesso accade, la punizione verso qualche trafficante o lo sbattere il piccolo mostro in prima pagina, serve solo a nascondere i veri colpevoli dello sfruttamento. Il nostro sistema è come un drago dai tanti artigli: a volte conviene perderne uno. Dare in pasto un mostro alla pubblica opinione indignata e sacrificare qualche pesce piccolo, diventa funzionale alla salvaguardia della testa, del fulcro pensante.

Operaie al lavoro in Columbus

Se rovesciamo la piramide della filiera del pomodoro, scopriamo che di fatto il caporalato è ad oggi il solo mezzo di reclutamento della manodopera che permette di garantire un costo del prodotto compatibile con le esigenze remunerative del mercato. Ed è per questo che, aldilà dei proclami, l’attività è largamente tollerata da tutti i protagonisti della filiera. In altre parole, senza gli schiavi del pomodoro i costi di raccolta andrebbero rapidamente in contrasto con le esigenze di redditività dell’industria e della grande distribuzione. Le industrie di trasformazione come la Columbus si inseriscono a questo punto della filiera. Esse subiscono da un lato la pressione degli agricoltori alla ricerca di un prezzo del prodotto congruo e, dall’altro, il ricatto della grande distribuzione.  

La grande distribuzione, come ad esempio la Coop o l’Esselunga, di fatto controlla quasi l’intera filiera. Con la politica dei cosiddetti “primi prezzi” e del “sotto costo”, impone all’industria – e di conseguenza all’agricoltore e ai braccianti − prezzi di acquisto spesso insostenibili, attraverso il meccanismo della doppia asta: nella prima chiede alle imprese un’offerta sui quantitativi al massimo ribasso, poi prende l’offerta migliore e indice una nuova asta partendo da quella più bassa. Un meccanismo che somiglia in tutto e per tutto al gioco d’azzardo, pregiudicando fortemente il funzionamento della filiera e costringendo l’industriale a strozzare il produttore, imponendogli a sua volta prezzi d’acquisto al limite della sussistenza.

Così, mentre l’omino di neve cammina e cammina con la carota al posto del naso, rigorosamente acquistata all’Esselunga, i profitti corrono e ad avvantaggiarsi sono soprattutto le grandi catene di distribuzione e i loro proprietari, la vera testa del drago. La resa del gioco delle aste e del lavoro degli schiavi del pomodoro è difficile da quantificare. Non ci sono statistiche né studi di settore che lo indichino. Possiamo, però, avere un’idea di dove finisce la ricchezza estorta in questo modo andando a curiosare direttamente nel testamento dei magnati della grande distribuzione. Come ad esempio quello di uno dei grandi capitalisti dei supermercati, Bernardo Caprotti. Solo alla figlia Violetta l’eredità del padre ha riservato una fortuna: la sua casa di Via Bigli a Milano, quella di New York sulla Quinta strada, alcuni quadri tra cui un olio di Zandomeneghi, ma soprattutto il castello di Bursinel sul lago di Lemano in Svizzera. Ma nel testamento c’è ben altro, vedere per credere.

Nel frattempo la Columbus chiude. 80 lavoratori perdono il posto e in 150 dovranno trovare lavoro altrove la prossima estate. Gli operai della raccolta, invece, dovranno sussumersi all’oro rosso e reiterare la condizione di schiavitù. Qualcuno ci lascerà la pelle per quei maledetti 4 euro a cassone, mentre il sistema continuerà ad arricchirsi con tutte le proprie distorsioni in attesa della prossima Columbus da stritolare nelle sue spirali. Tutto questo è disponibile ogni giorno, sui coloratissimi scaffali del vostro supermercato. Con lo sconto del 50%, naturalmente!