I “capannoni” di Parma: storie di una città popolare

di Ilaria La Fata

Sabato 16 novembre, a partire dalle 9:30, presso l’auditorium del Palazzo del Governatore, si svolgerà un convegno sulla storia dei Capannoni di Parma. Organizzato dal Centro studi movimenti e dal Dipartimento di ingegneria e architettura dell’Università di Parma, in collaborazione con l’Archivio storico comunale e l’Archivio di Stato, l’iniziativa affronterà la questione dello sventramento dell’Oltretorrente durante il regime fascista, la vita nei caseggiati ultrapopolari ai margini della città e la loro demolizione negli anni dei governi democratici degli anni sessanta [ndr].

Cosa e soprattutto chi erano i “capannoni”? La prima volta che il termine fu usato pubblicamente risale al 26 giugno 1932, quando la «Gazzetta di Parma» uscì con un articolo su un processo per un omicidio avvenuto tra il 20 e il 21 dicembre 1931 all’interno di un’osteria della Navetta. Il luogo del delitto era «la località chiamata dal popolino Baia del Re per la sua posizione isolata e per l’apparenza assai triste, soprattutto nella stagione invernale e occupata da quattro vasti Capannoni costruiti parallelamente. In essi abitano 200 famiglie di sfrattati e fra queste tutti i protagonisti del delitto».

I Capannoni vennero edificati dal potere fascista per gli sfrattati delle case abbattute nell’Oltretorrente tra il 1929 e il 1935. Vennero costruiti in zone distanti dalla città, oltre la circonvallazione dei viali intorno a ciò che noi oggi chiamiamo centro storico. Circonvallazione che negli anni Trenta segnava ancora il limite urbano estremo: l’espansione della città al di fuori di essa doveva ancora per lo più avvenire. E dunque zone come la Navetta o via Venezia, il Cornocchio o il Castelletto, per fare qualche esempio, che oggi sono parte della città ma all’epoca erano molto distanti dal centro abitato. Per raggiungerli bisognava attraversare i campi, talvolta non c’erano neppure strade di collegamento.

Gli articoli descrivevano quelle abitazioni come «fabbricati popolari», assimilabili a grandi capanne: con una triste metonimia, da quel momento quei caseggiati finirono per bollare anche i loro abitanti. Ad uno sguardo esterno, infatti, chi viveva in “capanne”, come gli uomini primitivi, non poteva che essere primitivo esso stesso, e rivestire le caratteristiche di un mondo negativo, brutale e antimoderno. I “capannoni” erano considerati distanti e indecifrabili come gli zingari, o come i nativi americani, e per questo emarginati e confinati in riserve.

Il termine passò dunque a designare anche un tipo umano, come se lombrosianamente i delinquenti avessero potuto essere riconosciuti anche dallo stigma della residenza. I “capannoni” si distinguevano dagli altri cittadini per i loro atteggiamenti rozzi, triviali, assai lontani dall’etichetta dei modi urbani, civili, borghesi, e per questo venivano riconosciuti e segnati a dito, aiutati in questo anche dalle immagini regalate dal quotidiano ultraconformista locale, la «Gazzetta» appunto.

La stampa funzionava proprio da amplificatore dello “stigma del capannone”, con un tono a metà tra il giudizio severo e la compassione che però gettava una luce sinistra su quel mondo fatto di “teppa” irregolare e furfantesca, composta prevalentemente da ladri, stupratori, alcolisti, disoccupati. In poche parole, lo stereotipo del deviante. Anche quando non erano immediatamente bollati come devianti, però, il divario tra i “capannoni” e “gli altri” restava forte e sembrava marcare una differenza della quale ci si poteva anche vergognare. E tuttavia, se da un lato questa «metafisica del selvaggio», li offendeva, dall’altro venne talmente introiettata da diventare una sorta di modello antieroico, uno status di cui vantarsi e che gli “altri” dovevano temere, ma che in ogni caso li collocava in una dimensione alternativa e orgogliosamente differente dal resto della città.

Alla Navetta, al Cristo, al Cornocchio, e poi in via Venezia, Doberdò, Toscana, Castelletto si visse in condizioni molto difficili, soprattutto per la precarietà delle strutture e la scarsità di mezzi e nonostante i cambiamenti e le migliorie sopraggiunte col passare degli anni – come la costruzione del sistema fognario o di strade di collegamento con il centro città –, fino alla loro distruzione, avvenuta a “ondate” nell’Italia democratica, tra il 1956 e il 1970.

Lentamente, dunque, gli abitanti furono spostati e quelle abitazioni precarie e malsane furono distrutte, mentre si presentava il problema di vivere una vita “normale”, alla quale, a sentire i commenti della gente, quei parmigiani “particolari” non sembravano abituati. La voce del popolo, ad esempio, ha registrato e ancora racconta che i “capannoni” non conoscessero le vasche da bagno – come se nelle altre case popolari invece fossero esistite – e dunque, appena trasferiti nelle case più moderne, avessero riempito di terra le vasche che avevano trovato in casa per farci l’orto.

Al di là delle voci, una volta fuori dal ghetto e dentro la città i “capannoni” poterono lentamente cominciare a spogliarsi dello stigma originario e, non essendo più possibile riconoscerli o segnarli a dito per la loro residenza, uscirono anche dalla miseria “comune”. Se da un lato molti continuarono a chiamarsi orgogliosamente “capannoni”, il termine si fece più generico, e passò a designare un tipo umano più che persone definite dalla propria scomoda abitazione.