L’anno zero della politica tra Pizzarotti e Minniti

di Marco Adorni

Se siete amici dell’ambiente, dei diritti individuali e delle libertà democratiche, e avversate tanto il razzismo fascistoide della Lega quanto il populismo fanfarone del Movimento 5 Stelle, dovete fare un pensierino al nuovo movimento politico fondato dal sindaco di Parma, Italia in Comune. Consultandone la Carta dei valori potreste ritrovare il vostro entusiasmo per la politica. Politica è servizio, senso dello Stato, buone pratiche, protagonismo delle comunità, apertura al cambiamento, unità di idealismo e pragmatismo, adesione ai Valori Sacri della Costituzione, democrazia, libertà, inclusione, centralità delle persone, ambiente, legalità, ecc. Non potete essere sorpresi. Seriamente, potevate aspettarvi di meno da un sindaco che si è autodefinito promotore di una «rivoluzione gentile» o, più prosaicamente, «normale», come da omonimo memoir (F. Pizzarotti, Una rivoluzione normale, Mondadori, Milano, 2016)?! Italia in Comune si fonda sull’idea che gli unici politici realmente vicini alle esigenze dei cittadini siano gli amministratori locali. Sono questi ultimi i paladini di una rigenerazione dell’intera classe dirigente nazionale, ponendo fine all’egemonia del PD nell’area del centro-sinistra! Potremmo davvero fermarci qui: perché rovinare un buon racconto con la verità? Il dubbio s’insinua: stiamo assistendo a un discorsetto degno del buon Conte Raffaello Mascetti?

Per chi non è di Parma ed è ancora così innocente e puro da credere alle notizie riportate dalla «Pravda» del centro-sinistra-Pd (che in italiano si traduce con “verità” e che invece nelle edicole italiane si trova nella forma fisica del quotidiano denominato «la Repubblica»), Pizzarotti non dice (o fa dire) scemenze, né pubblica (o fa pubblicare) supercazzole prematurate con lo scappellamento a sinistra. Un autorevole penna della «Pravda» nostrana, Michele Smargiassi, in un articolo pubblicato sul quotidiano il 16 dicembre scorso, affermava – dimenticandosi, dato l’entusiasmo, di controllare su un sito qualunque di cronaca politica, se la sua memoria fosse poi così infallibile – che Pizzarotti aveva ottenuto una seconda trionfale investitura a sindaco. Errore strano, questo. A me, che ho fatto un po’ di fact checking, risulta che, al primo turno, Pizzarotti avesse ottenuto 26.496 voti contro i 24.934 di Paolo Scarpa (una differenza dunque di 1.562 voti) e che, al secondo turno, avesse partecipato al voto solo il 45,17% degli aventi diritto (in calo rispetto al 53,65% del primo turno): un trionfo, sì… ma del partito degli astensionisti. Infine, a me pare anche di ricordare che non poche preferenze del secondo turno fossero arrivate da quell’elettorato di “destra” le cui rappresentanze politiche vengono oggi tenute a distanza di sicurezza dal primo cittadino (il M5S «ha fallito», la Lega è «un partito di estrema destra», ecc.). Ma Smargiassi non si ferma, è un fiume in piena: afferma che Pizzarotti ha scavalcato agevolmente anche l’«abisso delle inchieste per corruzione», ignorando che vi sono sei procedimenti ancora in corso, di cui tre a carico del sindaco.

Anche nel regno fiabesco della «rivoluzione gentile» non tutto è come sembra, dunque, mentre l’esprit cittadino è sempre meno propenso a farsi incantare dalla propaganda di regime. Forse perché anche i cittadini di Parma sono stanchi di non vedere soddisfatti i propri bisogni fondamentali? Forse perché cominciano a chiedersi come mai a pagare i debiti del Comune siano sempre loro e non coloro che li hanno prodotti?

Ma stiamo ai fatti: l’aria di questa città è irrespirabile, vengono portati avanti progetti per la realizzazione di imponenti infrastrutture (mega centro commerciale, ampliamento aeroporto) che impoveriranno il centro storico e aumenteranno il traffico veicolare, si alienano pezzi del patrimonio pubblico per sanare il debito, si approvano debiti fuori bilancio delle precedenti amministrazioni, si innalzano tasse, tariffe e rette ai massimi livelli, non si attivano azioni di responsabilità e risarcitorie nei confronti dei dirigenti responsabili del debito, si privatizzano diversi servizi comunali, ci si rassegna allo strapotere del colosso Iren e al probabile aumento dei rifiuti, provenienti anche da fuori regione, per bruciarli in quell’inceneritore che nella prima campagna elettorale era definito un tumorificio e per la cui realizzazione si sarebbe dovuti passare sul suo corpo. E si potrebbe andare ancora avanti. Di recente, Legambiente ha denunciato una lunga serie di criticità e situazioni poco chiare nel progetto di ampliamento dell’aeroporto di Parma – un progetto costoso e probabilmente inutile, destinato a far arrivare aerei cargo in una città già molto inquinata e complessa sul piano della viabilità – e Pizzarotti dichiara che si alleerà con i Verdi per un’Europa solidale, unita e vicina all’ambiente. 

Quanto di normale e gentile vi è nel fatto che domani, 1° febbraio 2019, Pizzarotti presenterà, al Cinema D’Azeglio di Parma, l’ultima fatica di Marco Minniti, ovvero il volume intitolato Sicurezza è libertà, in cui l’ex Ministro degli Interni del governo Gentiloni spiegherà come ha compiuto la magia di conciliare umanitarismo e disumanità?! All’incontro, organizzato dal circolo Il Borgo, parteciperà anche don Luigi Valentini, vicario generale della Diocesi di Parma e responsabile della Comunità Betania – che, tra gli altri bisognosi, accoglie anche migranti – per parlare di attualità e prospettive del fenomeno migratorio.

Prima di andarci, consultate la prima pagina de «Il Fatto Quotidiano» del 15 novembre 2017, dove un articolo di Marco Pasciuti ci informa che le Nazioni Unite hanno condannato il «patto disumano siglato dall’Italia con Tripoli». Dopo 24 ore di silenzio, Minniti, alla Camera, si è difeso sostenendo che, pur essendo la questione dei diritti umani irrinunciabile, non bisogna rassegnarsi all’impossibilità di governare i flussi. Era consapevole, lui, delle atrocità commesse dagli uomini di Tripoli nelle terrificanti prigioni in cui i migranti finiscono rinchiusi e torturati, però al primo posto doveva esserci il «governo dei flussi migratori» e la possibilità di sconfiggere il traffico di esseri umani. Se il decreto Salvini è il male, ci dovranno spiegare dove si colloca la rinuncia alla difesa, hic et nunc, dei diritti umani. E come interpretare, ancora oggi, ciò che disse l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein, quando affermò che la sistematica violazione dei diritti umani era tollerata in solido da Italia e Ue al fine di evitare gli sbarchi.

Come sorprendersi, dunque, se trionfano gli astensionisti e se le élite si pentono a più non posso (ricordiamo il recente pianto del coccodrillo Juncker sull’assenza di solidarietà dell’Europa verso la Grecia) di non aver saputo ascoltare il popolo? A maggior ragione, soprattutto per chi si ostina a collocarsi verso la sinistra, è opportuna una riflessione: perché è stato disertato il discorso della trasformazione sociale? 

Il punto è che, se escludiamo dall’analisi i partitini e i gruppetti politici che dimostrano una capacità egemonica inversamente proporzionale all’intensità del loro irriducibile attaccamento alla bandiera della testimonianza, il Pd e i suoi satelliti hanno abbandonato da lungo tempo un terreno che ha costituito un formidabile collante ideologico di Pci e Psi nel secondo dopoguerra, ovvero quel significante chiamato “anticapitalismo”, che non era tanto la lotta contro il padrone quanto la capacità di leggere criticamente l’apparato ideologico del presente, la realtà del capitale come forza non solo economico-materiale ma anche discorsiva, cioè in grado di strutturare ciò che è possibile e ciò che non è possibile fare, il senso del fare, il suo perché.

La desolante mancanza di un’analisi dei dispositivi del potere odierno da parte delle forze politiche è la ragione per cui Pd e satelliti sono finiti – e finiranno – per non avere gli strumenti discorsivi necessari a trascendere l’egemonia neo-liberale, a rendere possibile l’impossibile. Il problema, evidentemente, è che il there is no alternative è diventato parte anche del loro immaginario, che si risolve in puro folklore o spietato cinismo. Per questo, persino quando troviamo l’umanitarismo, lo troviamo insieme al calcolo economico, al controllo e alla minaccia delle vite, alla soppressione dei diritti umani. È un diabolico paradosso!

Ecco, dunque, in che cosa si risolverà anche l’incontro di domani sera: nella manifestazione dell’impotenza, non solo della politica, ma anche del sociale, a immaginare un altrove possibile e praticabile, a costruire un mondo veramente diverso – cosa che riesce solo a partire dal momento in cui si accetta in modo netto e deciso che questa è una prigione per tutti, per i migranti e anche per noi (anche se a noi va decisamente meglio). Siamo intrappolati in un immaginario neoliberale, perché siamo nella rete delle necessità della crisi economica, e finché le forze politiche non avranno la lungimiranza o la disperazione per dirlo, nulla mai cambierà. Il fatto che nessuno abbia questa disponibilità, oggi, rivela il carattere totalitario di questo “Occidente”, che non ammette più deviazioni, scelte, decisioni che non siano in linea con il pensiero unico: che non ammette tout court il conflitto, l’antagonismo, cioè il sale della democrazia. Scriveva Norberto Bobbio: «Se volete far tacere il cittadino che protesta, che ha ancora la capacità di indignarsi, dite che fa del moralismo».