da Art Lab
I beni comuni (commons) sono beni collettivi, di cui nessuno è proprietario, ai quali è consentito il libero accesso e che di conseguenza non sono assoggettabili ad un prezzo quale corrispettivo del loro utilizzo. Questi elementi li escludono dalle logiche del mercato e della gestione privata. Gli stessi beni sono collegati ad una comunità, che attorno ad essi si crea o, se esistente, si rafforza.
I beni comuni sono comparsi per la prima volta nel diritto occidentale nella Magna Carta (1215) ma, da allora, sono scomparsi quasi del tutto dalla tutela del diritto moderno. Nel mondo infatti solo Bolivia ed Ecuador hanno formalizzato il concetto di beni comuni all’interno dei propri apparati giuridici.
Nella fattispecie italiana i commons sono stato l’oggetto della lotta per l’acqua pubblica, battaglia che ha poi contribuito a portare ad una prima formulazione giuridica di «beni comuni», quella elaborata dalla commissione Rodotà (2007). La commissione ha definito i beni comuni «come le utilità essenziali che soddisfano i bisogni collettivi corrispondenti all’esercizio di diritti fondamentali» che «devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future».
Tuttavia, la mancanza di tutele ha fatto sì che i commons siano stati sotto attacco, sia dal fronte pubblico che da quello privato, attraverso un meccanismo che antepone l’individuale al comune. Da una parte, la fase di accumulazione originaria, che continua in modo inarrestabile, erode dal forziere dei beni comuni; dall’altra, la tradizionale costituzione liberale protegge il passaggio da privato a pubblico ma non ci difende per nulla, o quasi, dalle privatizzazioni. Questo attacco da due fronti ha fatto sì che i beni comuni si trovassero intrappolati nella forbice pubblico/privato, stato sovrano/proprietà privata, una forbice che si sta chiudendo sempre di più, stritolando ciò che rimane al proprio interno.
I beni comuni, che in passato abbiamo accostato spesso al mondo dell’ecologia, alle lotte in difesa dell’aria pulita e dell’acqua pubblica, non sono tuttavia un insieme di oggetti definiti, e includono invece tutto ciò che associa gli esseri viventi e le condizioni del vivere in comune.[1] Essi possono quindi essere declinati in diversi ambiti di intervento. Per esempio, una piazza non è bene comune in quanto spazio fisico, ma lo diventa nel momento in cui è luogo di accesso sociale e di scambio esistenziale. In una piazza riconosciuta come bene comune sarebbe quindi illecito vietare delle panchine ai senza tetto, così come invece è stato fatto in molte città italiane (nel caso di Parma, in Piazza Ghiaia).
L’uso civico
Recentemente è stata avviata una discussione sull’utilizzo di spazi urbani inutilizzati che ha riacceso il dibattito attorno ai beni comuni, svelandone nuove potenzialità. Questa nuova ondata di interesse è incentrata non tanto sulla definizione di «beni comuni» quanto piuttosto sulla loro governance.
In tutte le nostre città esistono infatti diversi luoghi abbandonati, e alcuni di questi sono diventati spazi per nuove pratiche di cittadinanza.
Di recente queste pratiche hanno formato un nuovo strumento, quello di uso civico e collettivo urbano. Tale strumento mira a creare nuove istituzioni autorganizzate che in maniera innovativa assumano la gestione diretta di beni comuni urbani ed esprimano il potere di «autonormazione civica».[2]
Gli strumenti normativi, così come i metodi di autogoverno, costituiscono un passaggio fondamentale nell’elaborazione giuridica dei beni comuni. In questi esperimenti di uso civico possiamo quindi trovare l’incipit per tornare a ridiscutere di beni comuni, in modo tale da ritagliare nuovo spazio per una loro applicazione, scardinando il dualismo pubblico/privato.
Caratteristiche dell’uso civico
L’uso civico non riguarda né la gestione diretta da parte della pubblica amministrazione, né l’affidamento senza scopo di lucro a soggetti associativi; esso è «una terza ipotesi, ovvero che comunità richiedano il governo e la gestione diretta dei beni comuni […] promuovendone la fruizione collettiva».[3]
Il rischio è infatti che le amministrazioni, con il diminuire delle disponibilità economiche, cerchino di utilizzare strumenti simili a quello dell’uso civico per scaricare sui cittadini i propri oneri, di fatto abusando del lavoro volontario e della sussidiarietà, delegando sia la responsabilità della gestione di spazi pubblici inutilizzati, sia la conduzione di funzioni sociali.
La natura di questi luoghi è in continua ridefinizione, sia dal punto di vista giuridico sia da quello dei contenuti e delle pratiche di gestione. Analizzando le esperienze di Napoli (per esempio, quella dell’Ex Asilo Filangeri) si possono evidenziare alcune caratteristiche chiave:
1) Le comunità che costruiranno queste esperienze dovranno cercare di stabilire delle vere e proprie istituzioni spontanee che includano gli esclusi e i disillusi, che siano il più possibile eterogenee ed eterodirette, includenti, imparziali ed espressione dei talenti e delle propensioni individuali.
2) La forza che spinge questi meccanismi è la necessità di ricostruire spazi comuni pubblici, che finora sono stati distrutti dalla logica del centro commerciale e dei quartieri dormitorio; gli spazi comuni pubblici dovranno rispondere quindi alle necessità delle anime (collettivi, associazioni, gruppi e singoli individui) che arricchiscono questi ex luoghi riportati a nuova vita.
3) La gestione di uno spazio adibito ad uso civico non può che essere autonoma e autorganizzata. Ciò non esclude la possibilità di intraprendere una collaborazione con l’amministrazione comunale, ma si deve evitare che questa eserciti un controllo di tipo paternalista nei confronti dell’istituzione spontanea coinvolta nell’uso civico.
5) Queste realtà sono svincolate dalla logica del profitto e hanno nell’imperfezione e nel continuo mutamento i loro punti di forza, quali risultati di pratiche gestionali eterogenee e condivise.
6) I percorsi intrapresi dovranno trovare sintesi in un regolamento condiviso che la comunità scrive e, quando necessario, muta nel tempo.
L’uso civico apre così le porte ad una nuova definizione di beni comuni che, per la prima volta, identifica metodi di gestione e di governo, e instaura un nuovo terreno di conflitto sociale fra amministratori ed amministrati.
L’esempio di Napoli
Se è vero che diverse città hanno introdotto dei regolamenti sull’uso di beni comuni urbani (Bologna nel 2014, Chieri e Napoli nel 2012 e nel 2014), è anche vero che quello di Napoli si avvicina più di tutti a una reale amministrazione indipendente dei beni comuni da parte dei cittadini. Proprio a Napoli infatti l’uso civico è stato riconosciuto da diverse delibere comunali, sotto la giunta del sindaco De Magistris e dell’assessore Lucarelli e seguendo un iter prima interno (tavolo dell’autogoverno) e poi di mediazione con l’amministrazione portato avanti dal proponente, l’Ex Asilo Filangieri. Una seconda delibera ha poi riconosciuto quali beni comuni emergenti e «percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e come tali strategici»’ altri sette ex-luoghi della città, oltre all’Ex asilo Filangieri, occupati negli ultimi anni.
L’esperienza di Napoli, realizzatasi grazie all’appoggio ricevuto dai proponenti da parte della giunta De Magistris, è tuttavia ad oggi riconosciuta quasi come una anomalia, e non è facilmente replicabile in altre città. Nonostante questo, sulla spinta dell’esperienza napoletana stanno nascendo laboratori di uso civico in tutta Italia, da Firenze (Mondeggi) a Torino (Cavallerizza), da Reggio Emilia (Casa Bettola)[4] a… Parma.
E a Parma… Art Lab!
Ogni realtà che si sta avvicinando all’applicazione dell’uso civico ha delle caratteristiche proprie ed è arrivata a intraprendere questo percorso in maniera indipendente, attraverso strade spesso differenti da quelle compiute da altre realtà simili.
Art Lab a Parma è uno spazio che nasce dall’occupazione di ex-luoghi del quartiere Oltretorrente, abbandonati o sottratti alla loro funzione pubblica. In questi spazi sono state avviate pratiche di riattivazione tramite il mutualismo e l’auto-governo, coinvolgendo popolazioni (quali quella migrante e studentesca) escluse dai processi decisionali e politici della città.
I progetti avviati variano da quelli con finalità ludico-artistiche a quelli legati al cosiddetto welfare dal basso e coinvolgono gruppi, singoli, individui, associazioni e onlus. Fra queste attività la componente abitativa ha sicuramente un’importanza fondamentale per il quartiere e la città, e ha infatti portato a stipulare una convenzione con Comune e Università di Parma (proprietaria dello stabile). In base a tale convenzione Art Lab si è popolato di singoli o famiglie in emergenza abitativa.[5]
Se da un lato le amministrazioni pubbliche hanno da una parte riconosciuto più volte il ruolo di Art Lab, dall’altro però non ne hanno mai riconosciuto la totale indipendenza, utilizzandola invece come bacino di lavoro volontario e abusando del principio di sussidiarietà.
Alcuni elementi della recente politica cittadina fanno intravedere la possibilità di una mediazione con l’amministrazione comunale per il riconoscimento giuridico di Art Lab come bene comune.
I proclami elettorali, che poi si sono solo parzialmente realizzati, con il quale il sindaco Pizzarotti e il partito di maggioranza, Effetto Parma, hanno vinto le elezioni, parlavano infatti di coinvolgimento diretto dei cittadini nei processi decisionali, proponendo ad esempio di istituire sondaggi e votazioni on-line, di creare un bilancio partecipativo e consigli di cittadini volontari. Sullo stesso programma troviamo poi vari punti che spaziano dai programmi di inclusione alle tematiche abitative,[6] i quali sono fra le attività fondamentali dei progetti di mutualismo e riattivazione che si sono sviluppati e si stanno ancora sviluppando ad Art Lab.
Più recentemente l’Assessore alla Cultura, insieme alla consigliera Roberta Roberti, hanno redatto dieci proposte di politica culturale comunale di Parma, proposte che sono compatibili con le progettualità di Art Lab: ne è un esempio il punto 1:
«1. Costruire spazi e momenti liberi dal mercato: perché la cultura è quella cosa (ormai l’unica) che non ci fa clienti, spettatori, consumatori, ma cittadini sovrani. Recuperare, ove possibile, spazi pubblici inutilizzati, possibilmente non alienarli e metterli invece a disposizione delle associazioni di cittadini che sanno costruire cultura, garantendone in ogni caso la dimensione di spazi pubblici.» [7]
Alla luce di queste congruenze fra il nostro percorso e alcune visioni dell’amministrazione comunale ci auspichiamo che sia possibile avviare un tavolo di discussione che porti al riconoscimento dell’uso civico.
Questa battaglia deve essere una battaglia non solo nostra, ma di tutte le persone o i gruppi (più o meno organizzati) che vogliano prendere parte a questo percorso, ora o in futuro. A loro ci rivolgiamo perché attraversino questi spazi e portino il loro contributo.
Art Lab è un bene comune, aiutaci a costruirlo!
Appuntamento Domenica 25 Novembre ad Art Lab per incontrare gli attivisti e le attiviste di Casa Bettola e il ricercatore dell’Università di Salerno Giuseppe Micciarelli.
[1] Mattei, U. (2011), Beni Comuni, un manifesto. Milano: Laterza.
[2] Micciarelli, G.. “Introduzione all’uso civico e collettivo urbano. La gestione diretta dei beni comuni urbani”. In Munus, 1 (2017).
[3] A. Lucarelli, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 3, 2014
[4] https://www.dirittiglobali.it/2018/06/98829/
[5] https://www.globalproject.info/it/in_movimento/parma-art-lab-bene-comune/21514
[6] http://www.federicopizzarotti.it/wp-content/uploads/2017/01/20170424_ABSTRACT-PROGRAMMA-LE-PERSONE.pdf
[7] http://parma-comunica-stampa-parma.blogautore.repubblica.it/2018/04/13/piu-spazi-pubblici-biblioteca-aperta-fino-alle-24-non-solo-eventi-e-festival-le-dieci-proposte-di-roberti-a-parma/