a cura del Centro studi movimenti
È quasi il tramonto, sta per piovere e fa molto freddo. In giro per la città, smarrito e alla ricerca di una libertà che pensava più facile, il portalettere di un’oscura agenzia postale gestita da due individui che tutti chiamano La Pratica e il Teorico, ha ancora un mucchio di posta da consegnare. Mentre cadono le prime gocce e il suo satellitare parlante comincia a sproloquiare, al citofono la gente rifiuta di aprirgli il portone. «Ma è proprio sicuro di essere un postino?». Anche se non vorrebbe ammetterlo, Angelo – giornalista per formazione e postino per necessità (o «quasi-postino», come lo chiama Siokjna, la domestica di via Isonzo 22 amica sua) – deve riconoscere d’aver commesso un errore ad abbandonare il suo lavoro di cronista, collaboratore precario di un quotidiano online. In fondo, la capo della redazione che era solita ripetere «non vi ha mica ordinato il medico di fare i giornalisti», non poteva sapere che a lui, davvero, un medico aveva ordinato di fare il giornalista.
Pensato come un racconto sul precariato nel settore dell’informazione, intrecciato con un reportage dagli uffici di una misteriosa agenzia postale dove i dipendenti accettano turni e orari di tipo ottocentesco, il nuovo libro di Marco Severo Sempre meglio lavorare, edito da StrettLib Write (2018, pp. 207), non è solo uno sconsolato lamento sulla società del lavoro flessibile, ma anche un diario intimo sui sogni delusi, sul senso di abbandono e sulla sete di libertà di quanti sono diventati adulti mentre il mondo intraprendeva radicali mutamenti. E così Angelo, che era stato ammesso alla «West Point del giornalismo italiano» dopo aver superato un esame battendo sui tasti di una vecchia macchina da scrivere, si era poi ritrovato a lavorare per un quotidiano online a cui interessavano i «temi caldi» dei social network e dove scriveva e montava video a ripetizione.
Il suo giornale, oltretutto, era sprovvisto di una vera redazione: le redazioni, gli era stato detto, non servono più. Come rimedio aveva finito allora per accettare l’ospitalità addirittura della sua vecchia parrocchia, disposta a concedergli una stanza uso ufficio in cambio della promessa fatta a una cara amica di sua mamma, ras dell’oratorio, di dare una mano in sagrestia in caso di necessità.
Con il trascorrere del tempo però, complice il rapporto ormai conflittuale con la capo della redazione, Angelo aveva deciso di rinunciare al sogno del giornalismo e di cercarsi un lavoro qualsiasi, finendo per contrapporre alla famosa frase di Luigi Barzini Jr – secondo cui il mestiere del giornalista «è sempre meglio che lavorare» – una sua più prosaica verità, ispirata al desiderio di costruirsi una nuova condizione economica e personale: piuttosto che praticare questo giornalismo, è sempre meglio lavorare.
Si tratta di un libro a metà strada fra narrativa e racconto sul campo, con il quale Marco Severo ci accompagna nei bassifondi non soltanto del mondo del lavoro precario ma, più in generale – e pur se attraverso un tono ironico con frequenti incursioni nel grottesco -, nel mare nero dell’umore di un’epoca. Oltre il primo livello di lettura, infatti, di tipo schiettamente sindacale, affiora lo spirito vero e forse più interessante del racconto: quello dell’irriducibilità dell’esperienza dell’individuo alla morale del tempo, del ricorrente topos romantico, presente nel primo Orwell, dell’uomo inadatto alla propria società, “venuto male”, non funzionale, con le sue inquietudini, le nevrosi, le contraddizioni che non si lasciano incasellare in una definizione valida sempre. C’è un momento nel libro in cui il protagonista, mentre struscia nel sottosuolo della sua stessa condizione, si scopre ad apprezzare quel sottosuolo, i suoi vantaggi in termini di spontaneismo, di adesione alla natura dei più umili, di libertà. O forse si tratta solo di autocommiserazione e di resa definitiva alla propria inabilità? Nelle ultime pagine, del resto, in un commento lasciato in internet il protagonista afferma: «A quanti, infine, leggendo queste righe di sfogo sospettassero che lasciare dopo quattro anni di gavetta sia, in fondo, semplicemente una prova di debolezza, una sconfitta, un po’ come per la proverbiale volpe che maledice l’uva solo perché non riesce a saltare abbastanza in alto da afferrarla, ecco, benissimo, a chi pensasse questo io vorrei rispondere: evviva le volpi! Sia finalmente riconosciuto merito alle volpi sognatrici d’ogni epoca e luogo. Le uve, altezzose e sterili, restino pure a marcire sui loro tralci».