di Francesco Antuofermo
Non si ha idea di che cosa sia un’alluvione se non ci si trova immersi da un momento all’altro nella melma e nel fango, se non si guarda con i propri occhi la casa invasa dall’acqua nera. Non è come la tragedia del terremoto che spinge subito centinaia di persone a prestare solidarietà e soccorso. No. Non si sente il rumore delle ruspe, dei mezzi di soccorso o le urla di disperazione della gente intrappolata sotto le macerie. È qualcosa di tragico ma al contempo mesto, disperato. Dopo il boato della rottura degli argini, l’acqua stagnante diventa maleodorante, manda via i rumori e lascia in dote un silenzio triste, di disperazione. La disperazione di un paese che ogni volta china la testa davanti alla logica degli affari, alle esigenze dello sviluppo ad ogni costo, alla voracità di un’industria agro-alimentare che si alimenta attraverso il salasso continuo di interi territori.
Perché la chiave di lettura è proprio qui: oltre alla tragedia della popolazione civile che si trova ad affrontare l’ennesima catastrofe, la furia dell’acqua si è abbattuta sul cuore del capitalismo agrario e agroalimentare italiano. Il comparto di eccellenza del made in Italy, che coinvolge oltre 300 mila aziende per un valore di 15 miliardi di euro di fatturato senza contare l’indotto. Basta mettersi in viaggio da Parma verso sud per toccare con mano questa ricchezza. Lungo la via Emilia è tutta un susseguirsi di alberi da frutta e vigneti. Le serre per la coltivazione di fragole e ortaggi sono a perdita d’occhio. Non si distingue più la campagna dai centri abitati. La parte più orientale della regione è un pullulare di capannoni industriali, magazzini per la lavorazione dell’ortofrutta, stalle, porcilaie e aziende per la trasformazione del latte e della carne. Nel corso degli anni la regione è stata trasformata in un’imponente megalopoli che si estende a chiazze sul territorio e si alimenta grazie alla linfa vitale di centinaia di operai salariati italiani e stranieri, con contratti precari, reclutati dalle agenzie interinali della tratta di essere umani per i capitalisti agrari e agroalimentari, spesso attraverso l’intermediazione di cooperative fittizie o “caporali”.
I fanatici dello sviluppo ad ogni costo, hanno spiantato i boschi, spianato le valli, costruito ogni genere di infrastrutture e cementificato. Di conseguenza le colline ora franano e interi paesi sono cancellati dalla sabbia che le alluvioni passano al setaccio lasciandosi dietro una scia di fango e morte.
Le auto che galleggiano sulle strade sommerse, i maiali degli allevamenti con l’acqua alla gola che si interrogano terrorizzati, le frane e gli smottamenti di terreno, le lacrime che scendono copiose: le abbiamo già testate. Sono simili a quelle già viste a Ischia nel novembre 2022, e ancora nelle Marche a metà settembre, quando gli allagamenti avevano provocato 12 morti e oltre 50 feriti.
Si parla di fenomeni eccezionali. Ma che in Italia sono piuttosto la regola: viviamo sempre in emergenza. Il 94% dei comuni – secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) – si trova a rischio idrogeologico. Nel nostro paese si verifica ogni anno circa il 70% di tutti i fenomeni franosi europei. Una vera maledizione. Ma che non insegna mai abbastanza. La responsabilità dei governi e della gestione passata del territorio puntualmente viene sommersa dall’acqua nera “che ammazza e passa oltre”, e occultata. E allora diventa un facile gioco addebitarla altrove: al mare grosso che impedisce il deflusso dell’acqua, alla struttura e alla traiettoria del ciclone, ai cambiamenti climatici. Un vergognoso scarica barile per tentare di uscirne senza colpa per poi ripartire, una volta terminata l’emergenza, ad assecondare gli interessi dei padroni della rendita fondiaria e di tutti gli squali che hanno sempre guadagnato dalle speculazioni.
E intanto si continua a cementificare. A Monticelli ad esempio, proprio sulle colline parmensi, è pronto a realizzarsi il nuovo mega progetto dell’ennesimo centro commerciale. Questa volta firmato Conad. “Un progetto innovativo – sottolinea l’azienda – che punta al risparmio energetico, al contenimento delle emissioni CO2 e, in particolar modo, al rispetto e alla valorizzazione del paesaggio circostante”. (Parma Repubblica del 24 maggio 2023). Che tradotto senza la velina della faccia tosta significa il macello di un’area complessiva di circa 60mila mq dove sorgeranno attività commerciali, parcheggi, una rotatoria, le aree verdi e varie opere di urbanizzazione in un paesino di neanche 5 mila abitanti a ridosso di un capoluogo già saturo di centri commerciali a rischio di chiusura e di scheletri di cemento di opere mai terminate.
L’Emilia Romagna concorre al podio delle regioni più cementificate d’Italia. Per ora ha conquistato il terzo posto e lo stesso vale per il consumo di suolo che nel 2021 ha superato i 358 ettari, il 10% del consumo dell’intero territorio nazionale. Un “successo” che ha reso il terreno refrattario all’acqua. Come risultato di questo abuso forsennato da parte del capitale agricolo/industriale romagnolo, più di 40 comuni sono stati alluvionati e isolati da quasi trecento frane sfregianti e oltre cinquecento strade risultano inagibili.
Secondo le stime di Stefano Bonaccini, pronunciate mentre passeggiava saltellando come un giullare con la bava alla bocca intorno alla Presidente del consiglio Meloni, occorreranno dai cinque ai sette miliardi di euro per risanare quanto è stato distrutto nelle zone colpite. Cifra che naturalmente intende gestire lui e che comincia già a solleticare i pruriti degli uomini d’affari perché si sa, dal letame nascono i fiori ma dalle catastrofi fioccano i profitti e quattrini a palate.
“Siamo di fronte a un nuovo terremoto, – dice il Presidente della Regione – ma ricostruiremo tutto”.
Ebbene, noi a Parma lo vogliamo aiutare e abbiamo un’idea. Abbiamo un tesoretto di 12 milioni di euro destinati dalla regione per ampliare l’aeroporto Giuseppe Verdi per la gioia degli industriali del nostro territorio. Parliamoci francamente: per noi qui a Parma quei soldi non sono prioritari, possiamo farne a meno. Gli aerei Cargo possono atterrare altrove, dove le strutture sono già esistenti. Non c’è bisogno di costruirne altre. Bonaccini ha un’occasione importante, un’occasione unica per dare un segnale, per cominciare. Una proposta semplice che potrebbe coniugare l’esigenza di ridurre il consumo di suolo ad un uso più razionale della ricchezza estorta ai cittadini. Un’intuizione che è già stata avanzata in questi giorni. Un’idea da condividere come esempio contro tutti gli sprechi di opere inutili e dannose. Come sintomo di buona volontà e di inversione di rotta rispetto a inutili autostrade che finiscono nel nulla. La proposta è questa che rilanciamo e che diventa un appello: destiniamo i 12 milioni di euro previsti per allungare la pista dell’aeroporto Verdi di Parma verso la ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla piena o verso le casse d’espansione che servono a fronteggiare la prossima.
È una decisione da prendere con urgenza perché una cosa ormai l’abbiamo imparata. La prossima alluvione è molto più vicina di quello che si pensa. La nuova catastrofe non è lontana anni luce: è dietro l’angolo. Bonaccini: aguzza la vista! Il ciclone che la causerà è lì, beffardo, stagliato all’orizzonte. E si vede, se si hanno occhi che vogliono vedere, naturalmente.