A Faenza, con una pompa idrovora. E qualche pensiero su clima, capitalismo e una Regione amica del cemento

di Potere al Popolo Emilia Romagna  e Casa del Popolo Thomas Sankara – Parma

Siamo stati a Faenza portare supporto e solidarietà! Grazie ai vostri contributi, siamo riusciti a consegnare una pompa idrovora, oltre ad alimenti e materiale tecnico per spalare. Ci sentiamo a questo punto di fare qualche riflessione più politica.

L’alluvione che ha colpito la Romagna quest’anno è figlia di un evento atmosferico “estremo”, è caduta la pioggia che cade in sei mesi dicono i dati, si tende così a invocare la tragica fatalità. Invece sarebbe il caso di chiedersi come mai questi eventi si ripetono quasi uno dietro l’altro in Italia e in Europa, prendere atto che forse non si tratta di eccezioni. Sono, piuttosto, il segnale che l’equilibrio climatico in cui abbiamo vissuto finora si è rotto e che è necessario non solo mitigare ma anche adattarsi, pensare a come affrontare questo cambiamento al meglio e certo non accontentarsi di sgranare un rosario di frane e alluvioni ogni anno, col loro corollario di morte e sofferenza.

Partiamo da una premessa chiara: l’equilibrio climatico è compromesso dal modo di produzione, dallo schema capitalista della crescita economica infinita. Quindi si pone un dilemma molto serio: è possibile riuscire ad adattarsi al cambiamento utilizzando la stessa ricetta che ci ha portato a questa situazione? Alcuni rispondono di sì, i fautori della green economy, trainata da istituzioni e imprese che vedono nella crisi ecologica una straordinaria occasione di crescita.

Incentivare attività economiche più sostenibili certo, ma rincorrendo comunque la crescita infinita.

È la tesi dominante nel mondo occidentale degli ultimi 30 anni, quella che ha informato gli accordi sul clima e pensato di ridurre le emissioni climalteranti tramite la finanziarizzazione dell’atmosfera: i risultati concreti di tre decadi di politiche neoliberali di gestione del clima sono irrisori, se non peggiorativi, dal momento che le emissioni hanno addirittura accelerato il passo rispetto al passato.

Faenza, la consegna della pompa idrovora ad Emergency da parte di Potere al Popolo Parma

Una tesi che, nonostante abbia dimostrato tutta la sua inefficacia, peggiorando la situazione, trova ancora molto credito in ambito politico. A destra, con una faccia di bronzo notevole, si punta il dito contro gli ambientalisti, “colpevoli” di aver impedito tutte le grandi opere necessarie a mettere in sicurezza il territorio. In questo pezzo di classe dirigente italiana il cambiamento climatico è il vero complotto per coprire la sostituzione etnica, il piano Kalergi e quindi si deve procedere come se non stesse succedendo niente di che, in fondo, diceva Vittorio Feltri, con due gradi in più a Bergamo si sta meglio.

Ma questi lungimiranti amministratori sono in buona compagnia. Anzi, il vero interprete in Italia del “non-adattamento” climatico è proprio il Pd: “siamo per la transizione ecologica ma anche per la crescita infinita; siamo per lo stop al consumo di suolo ma anche per le grandi opere”. Durante le campagne elettorali e nella propaganda gli esponenti del Pd sono indefessi paladini dell’ambiente, anzi richiamano spesso alla resistenza contro i barbari distruttori, in questo parati a sinistra da Verdi e Sinistra italiana che chiedono voti su programmi avanzati per poi fare da stampella ad amministrazioni che cementificano selvaggiamente, a patto di chiamare questo scempio “consumo di suolo zero”.

È il caso della nostra regione, l’Emilia-Romagna governata da Bonaccini, la cui vice fino a poco tempo fa era proprio Elly Schlein. Qui, nella fu rossa Emilia, la recente legge urbanistica ha regalato alla speculazione immobiliare il destino della regione, facendola arrivare tra le prime per consumo di suolo in Italia, e prima per consumo di suolo in terreni ad alto rischio idrogeologico.

Un primato che si ricorda meno volentieri della Ferrari o del Parmigiano, ma che forse dovremmo tenere più presente. L’interesse del territorio d’altronde è declinato unicamente sulla sua resa, sulla sua profittabilità, utile per un po’ di marketing territoriale, coniando veri e propri miti come la food valley, la motor valley, la data valley. Miti che hanno contribuito a rendere la nostra terra la più inquinata d’Europa.

Ma il territorio non è solo la sua valorizzazione economica: ce lo ha ricordato, brutalmente, l’alluvione.

Occorre avere il coraggio di guardare in faccia la contraddizione che è esplosa: o cambiamo il nostro modo di produrre, oppure sarà impossibile continuare a vivere come siamo stati abituati finora. E per far in modo che questo cambiamento non si trasformi in un bagno di sangue per chi lavora è necessario che il cambiamento sia gestito pubblicamente e non lasciato alla libera iniziativa dei privati e all’idea che il mercato possa risolvere la crisi ambientale. Questo modo balzano di vedere le cose si è rivelato un tragico abbaglio: è necessario che i soldi vengano investiti in manutenzione del territorio e in una riconversione agroindustriale seria, che ingenti risorse pubbliche vengano recuperate tassando chi più ha inquinato e più guadagnato di più dalla malagestione degli ultimi decenni, chi ancora specula su questa difficile situazione.

A cominciare dalla finanza immobiliare che ha invaso col cemento le nostre città. È necessario diventare attori della transizione, attivarci per fornire soluzioni dal basso, prendendo ad esempio esperienze proprie della nostra regione (Campi aperti) e fornire alternative alla narrazione monotematica. Mobilitarci, come stiamo facendo ora, per difendere il nostro territorio, mantenere alta la rabbia e l’attenzione anche quando acqua e fango saranno spariti.

È davvero più probabile la fine del mondo che la fine del capitalismo?