di William Gambetta
Domani, martedì 5 gennaio, come di consueto da ormai molti anni, la Camera del lavoro della Cgil e le associazioni partigiane e antifasciste della città ricorderanno la figura di Guido Picelli. Nella grande piazza dell’Oltretorrente a lui dedicata, prima davanti al busto, poi alla lapide di borgo Cocconi, presenti i rappresentanti di Comune e Provincia, si alterneranno i discorsi sul significato politico della sua vita (e della sua morte). Si tratta di una di quelle cerimonie particolarmente importanti per la costruzione e il consolidamento dell’identità democratica: la messa in scena di un rito politico nel quale una parte dei cittadini si ritrova e riafferma i propri vincoli a una comunità d’appartenenza.
Come quella più rilevante e autorevole del 25 aprile, anche questa piccola cerimonia è finalizzata a consolidare i legami dell’antifascismo democratico nel nome di uno dei suoi più famosi padri (almeno così si vuole lasciar intendere). E come tutte le celebrazioni politiche – siano esse istituzionali, di partito o di movimento – anche questa utilizza il passato secondo le necessità del presente. Abbandona il terreno della complessità della Storia, ne semplifica (si potrebbe dire anche banalizza o distorce) qualche aspetto, per poi giustificare finalità immediate.
Di Guido Picelli e degli eventi più noti che lo hanno visto protagonista – le Barricate di Parma nell’agosto 1922 e il suo ruolo nelle Brigate internazionali in terra di Spagna nel 1936 – si è scritto molto. Molte sono state le ricostruzione storiche, tante le narrazioni letterarie e artistiche, ma ancor più numerose, dalla sua morte ad oggi, sono state le interpretazioni politiche in articoli, discorsi e interventi per comizi e commemorazioni. Una narrazione che ha prodotto una memoria radicata e mitizzata, innanzitutto a Parma, nella quale il ricordo della sua figura, insieme alle giornate d’agosto, si è concretizzato in un diffuso orgoglio popolare. Racconti leggendari – condivisi e incoraggiati tanto dalle istituzioni quanto dalle forze democratiche dell’Italia repubblicana – che hanno attraversato almeno quattro generazioni e che hanno superato i confini locali, assumendo un posto di rilievo nel pantheon dell’antifascismo italiano e non solo.
Tuttavia, come altre figure, anche quella di Picelli è stata deformata delle mutevoli necessità dell’uso politico. La sua personalità è diventata una sorta di ologramma a più facce, utile sia per enfatizzare le democrazie liberali che per esaltare il socialismo reale, anticipatore del movimento partigiano ciellenista e, al tempo stesso, figura libertaria e insofferente a ogni organizzazione e disciplina, antifascista unitario e misurato e, contemporaneamente, esponente della fazione più radicale della lotta al fascismo. Durante alcune cerimonie istituzionali, pochi anni fa, mi è capitato persino di sentirlo decantare come anticipatore dell’Unione europea, o come difensore dei «diritti civili», quasi appartenesse al liberalismo progressista.
Le varie versioni della sua morte che periodicamente si sono fronteggiate, ucciso in combattimento dalle truppe franchiste o a tradimento da sicari dello stalinismo, mi risultano appassionanti non per le argomentazioni storiografiche – nessuno studioso di storia ha finora avvalorato la tesi dell’assassinio “per mano amica”, dato che, nonostante le numerose e approfondite ricerche, non sono emerse tracce che la possano confermare, al contrario della morte in combattimento contro i franchisti – ma per questioni di ordine prettamente ideologico.
Picelli, insomma, è celebrato tanto da chi idealmente si ricollega al comunismo novecentesco, quanto da coloro che lo censurano quale espressione autoritaria e illiberale. Se per i primi Picelli è diventato il modello dell’eroe comunista, poiché incarna la triplice immagine di capopopolo, uomo d’azione e dirigente di partito, per i secondi è soprattutto la sua personalità di ribelle a ogni arbitraria imposizione, tanto “di destra” quanto “di sinistra”, a renderlo straordinario.
A confermare il carattere prettamente ideologico di queste differenti interpretazioni è la constatazione che raramente esse tengono conto dei risultati cui sono giunte le ricerche storiche, né hanno preso in considerazione la consistente mole di documenti d’archivio e di scritti dello stesso Picelli, pubblicati in appendice ai numerosi volumi a lui dedicati. Forse proprio perché questi scoraggiano una narrazione troppo disinvolta del suo pensare e agire politico.
E cosa ci raccontano questi suoi scritti e discorsi? Ci rimandano innanzitutto una figura politica proveniente dai ceti popolari di una città di provincia che diventa uno dei protagonisti del movimento operaio dei travagliati anni Venti e Trenta. Dunque una figura complessa e contraddittoria, come il contesto storico che visse. Una figura che, in questa sede, per ovvi motivi di sintesi, possiamo solo brevemente delineare per la sua opposizione al fascismo utilizzando un suo pamphlet del 1922, Unità e riscossa operaia (Tipografia Pelati, Parma, conservato oggi alla Biblioteca Palatina ma ristampato più volte).
Secondo uno schema classico dell’epoca, lo squadrismo delle camicie nere era visto da Picelli come il frutto della necessità della borghesia italiana di rispondere alla conflittualità operaia del biennio 1919-1920. La violenza fascista, insomma, era la nuova forma assunta dalla lotta di classe in una sua fase più avanzata. E la risposta a quelle aggressioni, dunque, non aveva affatto il carattere della difesa delle istituzioni monarchiche (che peraltro, oggi, risulterebbe alquanto difficile definire democratiche), poiché anch’esse erano protagoniste della repressione e dello sfruttamento ai danni dei lavoratori. A tal proposito Picelli parlava di una “duplice reazione”: la prima esercitata dallo Stato borghese e la seconda dalle squadre del Partito nazionale fascista.
Dunque, la resistenza dei lavoratori animata dagli Arditi del popolo era concepita all’interno delle dinamiche della “guerra di classe”: battere la violenza borghese significava aprire la prospettiva rivoluzionaria, seguendo le indicazioni della rivoluzione russa del 1917. Anche l’unità dei lavoratori auspicata da Picelli non era affatto l’unità dei democratici ma quella degli operai e dei partiti della sovversione sociale.
Un’analisi del fascismo, questa, che non solo non cambiò ma che si rafforzò e approfondì nel corso della sua formazione politica da deputato e dirigente del Partito comunista d’Italia. Si pensi che ancora in uno dei suoi ultimi scritti, pur rivendicando la necessità dell’unità dei lavoratori, continuava a scagliarsi contro il “tradimento” dei socialdemocratici e a maledire la loro politica di “collaborazione” con la borghesia progressista (La rivolta di Parma, in “lo Stato Operaio”, n. 10, ottobre 1934).
La concezione dell’antifascismo di Picelli, insomma, ben poco aveva a che fare con l’antifascismo democratico, rappresentato da altri esponenti, con differenti analisi e opposte prospettive. E col quale lui stesso si pose in polemica e contrasto.
Ciò significa che Picelli non può essere celebrato da coloro che oggi prospettano la difesa delle istituzioni democratiche? Che dovrebbe essere ricordato solo da coloro che avanzano analisi e forme di antifascismo antisistemico? Non credo. Sia gli uni che gli altri, celebrando il passato, esercitano forzature nell’uso politico della sua figura nel presente.
La questione è un’altra. La questione è che quando si maneggia la Storia, i suoi eventi, i suoi protagonisti, i suoi fenomeni, bisognerebbe farlo con onestà intellettuale. Quando si fanno analogie tra il passato e il presente, bisognerebbe essere consapevoli delle differenze e renderle esplicite. Bisognerebbe rendere queste interpretazioni trasparenti e comprensibili. Senza imbrogli retorici.