di Marco Severo
Schiere di insegnanti in ciabatte vorticano online, si insinuano in casa a ogni ora, piombano sui loro alunni con giocondità un po’ naif. “Ragazzi ci vediamo sulla piattaforma!”. Da un paio di settimane è così. L’emergenza da Coronavirus, oltre ad averci messo addosso una paura inattesa e antica, ha liquefatto in pochi giorni la figura dell’insegnante. Prof e maestre sono diventati in breve un file da cliccare sul computer, un segnale in arrivo da lontano (di solito dal tinello di casa loro). I docenti di mezza Italia, e a seguire dell’intero Paese, hanno salutato un venerdì come tanti i propri alunni per ritrovarsi nel giro di un weekend lanciati sparati in un futuro che – in generale – non si erano nemmeno prefigurati. E che tuttavia hanno abbracciato con uno slancio persino commovente. “Prova, prova: ragazzi mi ricevete?”.
È la cosiddetta didattica a distanza, questa sconosciuta, di cui pure ci siamo messi a parlare come di un’ovvietà. “Ma come, non avete ancora un’aula virtuale?”. No, veramente era già tanto averne una analogica! Ma non fa niente, nulla è perduto. Prof e maestre sono così partiti per un’inedita gara della solidarietà didattica, arrabattandosi con brio. Il Ministero dell’istruzione in questa pagina del suo sito ha messo a disposizione alcune risorse per la scuola online e ha annunciato che “i dirigenti scolastici […] attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza […]”. (Intanto, per dire, si potrebbe metter mano al dominio di posta elettronica @istruzione.it, fossile del web capace di contenere appena una manciata di email prima di andare in tilt).
Certo è difficile immaginare il prof Keating ne L’attimo fuggente che sussurra “carpe diem” a un tablet. Ma al momento il futuro è capitato tra capo e collo ed è gioco forza per gli insegnanti fare appello alla creatività. Nelle nostre case, in questi giorni, incrociano mattina e sera i video registrati su Whatsapp dai prof, tra loro in gioiosa (seppur segreta) competizione tecnologica. I genitori assistono in equilibrio emotivo fra tenerezza e sgomento. Per la prima volta il lavoro dei docenti va in onda in chiaro, fuori dal chiuso delle aule. L’appuntamento quotidiano con il carosello della didattica è per grandi e per piccini. Giovani discenti in pigiama in ipnosi davanti al computer ascoltano la lezione, suonano il flauto, recitano poesie poi schiacciano invio. La maieutica, per ora, si pratica alla tastiera. In solitario.
La grande corsa è partita e non si può fare altrimenti. Qualcuno, inebriato da questo scorcio d’avvenire della scuola, profetizza che un giorno sarà normale fare lezione così. L’emergenza da Coronavirus sarebbe pertanto un’occasione da annoverare tra quegli acceleratori sociali che producono progresso nella scienza e nella tecnica, quali sono state nel Novecento le due grandi guerre o, più tardi, le missioni spaziali.
Sarà. La necessità per ora ha buon gioco e può prendere a calci qualsiasi obiezione. L’alternativa infatti è stare senza scuola. Impossibile. Spaventoso. Abbiamo capito in questi giorni di vuoto cosa rappresentano i corridoi, l’aula, la classe, l’insegnante. L’ora di lezione al computer non può essere, a maggior ragione, un moto d’entusiasmo né una posa disinvolta. L’ora di lezione, svolta al computer, resta – nell’angoscia di un presente che non è ancora futuro e anzi assomiglia a un remoto passato – un surrogato deprimente, una pratica meccanica ed utilitaristica. Il prof vaporizzato, allontanato, liquefatto non ha diritto di parola, è ridotto al silenzio della voce o è ingabbiato nelle maglie rigide della Rete. Sparisce il ruolo del transfert, insito nella sua azione e che nessun surrogato tecnico potrà sostituire. Se gli alunni del prof Keating nella scena finale del film si fossero levati in piedi ciascuno sul tavolo di casa propria, del resto, quel vecchio stronzo del preside Nolan non li avrebbe neppure calcolati.