di Erika Trombi*

Sabato 6 dicembre abbiamo partecipato all’incontro sulla vicenda che ha coinvolto il Teatro Due e un famoso regista, condannati a risarcire due attrici per molestie e violenze sessuali, avvenute durante un corso di alta formazione. L’incontro è stato un momento pubblico e necessario per interrogarsi su cosa è successo, come è potuto succedere, perché nessuno ha fatto nulla, cosa fare ora e ci ha portato ad alcune riflessioni che intendiamo condividere con l’obiettivo di continuare a riflettere collettivamente su quanto successo e quanto succederà.
Sulla credibilità
Più volte nel corso del dibattito è stato rimarcato da parte delle avvocate il fatto che le testimonianze delle due attrici erano “credibili”. E questo ci presenta già una parte del problema, perché mostra il dislivello, la differenza di potere tra chi accusa e chi è accusato. E la fatica, nel percorrere la strada della denuncia della violenza, del dover essere credibili e se si è credibili (credibili per chi poi? Ma questo è un altro problema) di dover essere inattaccabili, di vivere il trauma secondo schemi stabiliti (da chi?), nei tempi giusti (per chi?), con le modalità giuste, non troppo incazzate, posate il giusto. E dopo tutta questa fatica per costruirsi la credibilità e le barricate per essere inattaccabili come riuscire ad uscire dal ruolo di vittima e diventare soggetto attivo?
Sulla consapevolezza, il sostenersi e la rete di supporto
Le attrici hanno poi sottolineato l’importanza della rete. L’importanza del confronto, dello studio, del raggiungimento della consapevolezza, la presa di coscienza politica di quello che era successo loro. L’importanza di trovare competenza, nei centri antiviolenza, nelle avvocate, nei tribunali, in chiunque tratti il tema. L’ascolto, la presenza e il sostegno di una rete che ha funzionato ha permesso alle attrici di proseguire il loro percorso che ha portato a scoperchiare quanto tanti e tante già sapevano.
Ora a noi il compito di allargare lo sguardo dal singolo episodio e guardare il contesto, il teatro, la città, il mondo, insomma la dimensione strutturale e sistemica della violenza, andare oltre alle sentenze e all’istituzione di regole interne, strumenti stessi della struttura che vogliamo distruggere.
Certo, sono necessari, ma perché non diventino simulacri o strumenti inutili come un caschetto giallo su un ponteggio alto 20 metri vanno riempiti di senso, di consapevolezza, di persone preparate e che ci rendiamo conto che la violenza di genere nei luoghi di lavoro (e ovunque) va sanzionata e trasformata socialmente e culturalmente prima ancora che giuridicamente.
Creare le condizioni perché questi strumenti funzionino e creare le condizioni perché questi strumenti, un giorno, non debbano servire più. Semplificando, non più regole e più protezione, ma un cambio radicale che ci permetta di non essere regolate e protette.
In secondo luogo non fare della vittima il soggetto politico ma garantire l’allargamento del dibattito, per una giustizia femminista che deve partire dalla prevenzione e dall’educazione, che non punta alla punizione in sé ma alla rottura del muro di silenzio che accetta queste regole, alla non ripetizione della violenza su altre donne e soggettività oppresse (quante donne, più sole, meno credibili, razzializzate, meno consapevoli, minorizzate non hanno questa possibilità?)
E potendo ricondurre la causa della violenza nella struttura, nel muro di silenzio, la riparazione deve essere collettiva e la giustizia deve restituire qualcosa non solo alle donne vittime di violenza ma alla comunità tutta.
Questo è quello che è successo ieri, come il bambino che nella fiaba di Andersen sveglia il regno dall’incantesimo urlando quello che è sotto gli occhi di tutti e cioè che il re è nudo, così le attrici, e la loro rete di supporto hanno squarciato il manto.
Il primo passo è stato fatto, rompere il silenzio. Ora bisogna impedire che, passata la bufera, tutto torni come prima.
Come è emerso chiaramente ieri (e ripreso anche nella sentenza del tribunale del lavoro) chi sta in silenzio è complice e la responsabilità è collettiva.
Non è facile, ma dobbiamo osare immaginare e costruire l’avvenire.
Sosteniamo la richiesta di dimissioni della direzione, la necessità di un cambio radicale di gestione del lavoro e della formazione all’interno del teatro, (a quanto pare in corso, da quanto riferito da alcuni lavoratori e lavoratrici intervenute ieri) e la necessità di continuare una discussione cittadina, pubblica e aperta su questa pagina della nostra città.
Che sabato sia stato il primo passo.
* Potere al popolo Parma
