di William Gambetta
Si avvicina il 25 novembre e le iniziative per discutere di violenza di uomini sulle donne si moltiplicano, così come gli incontri per prepararsi alla giornata. Molte ne sono le realtà protagoniste: dal Centro antiviolenza alla Casa delle donne, da Maschi che si immischiano agli studenti che organizzano assemblee di istituto per parlarne e maturare maggior consapevolezza. Alcune di queste iniziative hanno il sostegno delle istituzioni, dall’amministrazione comunale ai vertici scolastici e universitari. Forse – nonostante vi sia ancora chi nega la persistenza di una cultura patriarcale, nonostante l’ipocrisia virilista che invoca la pena capitale o la castrazione chimica a ogni nuova donna ammazzata o violentata, nonostante i molti direttori di giornali che continuano a giustificare con raptus e pazzia i femminicidi, nonostante i deliri filorazzisti di qualche ministro – forse, dicevamo, qualcosa si muove. Ben oltre la “giornata” di sensibilizzazione. E non potrebbe essere altrimenti visto che la strage continua: da gennaio ad oggi sono 96 le donne uccise in Italia da mariti, ex mariti, compagni, ex compagni, padri o fratelli che volevano mantenere il controllo sulle loro vite. Una ogni 3 o 4 giorni. Una strage appunto. Eppure…
Eppure ciò non basta. Se la violenza degli uomini sulle donne è la punta dell’iceberg della cultura patriarcale che ha caratterizzato molte delle civiltà umane per millenni; se quella violenza è il volto più manifesto della volontà di controllo di un uomo su una donna che percepisce come sua proprietà (“tu sei mia”, “fai quello che dico io”, “con me o con nessun altro”…); se i femminicidi (e più in generale la violenza degli uomini sulle donne) è una risposta reazionaria del mondo maschile al processo destabilizzante e inarrestabile della liberazione femminile (destabilizzante perché mette in discussione i ruoli che per millenni il modello patriarcale ha riprodotto e inarrestabile perché intrinseco allo sviluppo della società capitalista); se tutto questo è vero la sola educazione a una nuova affettività maschile non può bastare.
Non è sufficiente il controllo delle emozioni da parte di noi uomini al fine di evitare i nostri “raptus” nel relazionarci a un protagonismo femminile (per noi ‒ e solo per noi ‒ perturbatore dell’ordine delle cose).
Il controllo delle nostre emozioni, l’accettazione delle nostre fragilità e la consapevolezza della nostra parzialità nel mondo (e dunque il rispetto per scelte che sono di altre e altro da noi) non sono sufficienti a mettere in discussione la profonda cultura del dominio maschile sul mondo. E in particolare non sono sufficienti a metterne in discussione gli odiosi tratti di possesso e di controllo sul corpo e sulla libertà femminile. Controllare la parte aggressiva nelle nostre relazioni verso altri esseri umani non è che l’aspetto più banale, il minimo che chiunque sia tenuto a fare. Sembra dunque incredibile che si debbano ancora sentire assurde giustificazioni (il raptus appunto) per l’aggressività degli uomini verso le donne e promuovere una sorta di educazione emotiva come soluzione del problema. Aggressività che ‒ come ha scritto Christian Donelli un anno fa ‒ spazia ben oltre la violenza fisica e segnala quanto il maschile continui a considerare il femminile un territorio da dominare e sottomettere, perché così è stato “dalla notte dei tempi”.
Dunque ‒ è bene ribadirlo ‒ la violenza maschile sulle donne, la prepotenza maschile, l’insolenza maschile sono il frutto di un modo di “essere uomini” figlio di millenni di patriarcato. Una mascolinità che la liberazione delle donne mette radicalmente in discussione perché impedisce loro di rendersi protagoniste della propria vita. Tale processo di liberazione ha spaccato il mondo maschile: da una parte chi reagisce irrazionalmente alla perdita dei propri privilegi e ruoli, di modelli tradizionali e obsoleti; dall’altra chi ritiene sacrosante le rivendicazioni femminili ma, ciò nonostante, non ha forse compreso bene cosa esse mettano in discussione. Molti di noi infatti confondono la volontà di liberazione delle donne con una forma di tensione alla parità e all’eguaglianza di diritti. Ma questa lettura è troppo semplice. Occorre comprendere che il protagonismo delle donne, mettendo in discussione il modello di relazione patriarcale tra uomo e donna, non solo mette in discussione la subordinazione delle donne, il modo tradizionale di “essere donna” (voluto dall’uomo), ma anche quello di “essere uomo”. In sintesi il femminismo, mentre costruisce nuove forme di protagonismo delle donne, destruttura tanto le gabbie del mondo femminile quanto quelle del mondo maschile.
Uno degli slogan del movimento transfemminista degli ultimi anni recita che “la liberazione delle donne libera tutt*” e si può concordare sul fatto che quanto più le donne destruttureranno i centri sui quali si fonda la cultura patriarcale (dalla famiglia alla sessualità, dalla vita pubblica a quella privata, dalle gerarchie sul lavoro a quelle in ogni ambito sociale) tanto più “libereranno”, con loro, altre soggettività marginalizzate e oppresse, uscendo dal duplice modello “donna”/”uomo”, e insieme “libereranno” lo stesso mondo maschile che potrà, finalmente, cercare nuove e più libere forme di mascolinità.
Sembra contraddittorio ma, mentre distrugge i nostri privilegi, il femminismo offre a noi uomini una straordinaria opportunità.
Ecco perché anche noi uomini dovremmo imparare ad “essere femministi”. Non solo ascoltare la voce del protagonismo femminile, non solo rimettere in discussione il nostro privilegio rispetto a quel protagonismo, come già successe a una parte di uomini della generazione degli anni Settanta. Qui non si tratta solo di rimboccarci le maniche e “fare i lavori domestici”, non si tratta solo di “fare la nostra parte”, non si tratta solo di permettere alle donne di sfondare il “soffitto di cristallo” (come pensano alcune femministe neoliberali). Si tratta di liberarsi da relazioni segnate dal modello patriarcale e da una mascolinità che “non deve chiedere mai”, che deve sempre prendere la parola, che deve essere piacente e prestante, che deve affrontare gli altri maschi in una continua competizione…
Per noi uomini essere femministi potrebbe significare condividere (ma il termine sarà corretto?) il processo di liberazione già intrapreso dalle donne, perché solo così possiamo liberare noi stessi da una mascolinità privilegiata ma asfissiante, una mascolinità seducente ma opprimente e terribilmente frustrante.
Molti uomini della mia generazione hanno già iniziato faticosamente a fare i conti con questo modello di virilità obsoleta, hanno iniziato a spogliarsi delle loro maschere di “uomini veri” per essere semplicemente uomini. A volte i risultati sono positivi. Altre meno, perché non siamo abituati a subire o contrattare decisioni e tempi. Fatichiamo in questa ricerca di un nuovo noi. E la tentazione di tornare ad antiche certezze è forte. Siamo uomini che hanno iniziato a sperimentare modi differenti di essere un compagno, un padre, un figlio, un amico. Tuttavia questi sono spesso percorsi personali: ci manca la dimensione collettiva, il confronto, lo scambio, l’aiuto reciproco. Una dimensione collettiva che è la premessa necessaria affinché tale liberazione assuma valore politico. Forse anche in questo dovremmo imparare dal femminismo.