di Emanuele Leonardi
A pochi giorni dall’uscita in libreria di Clima diseguale(Unicopli 2024, a cura di Emanuele Leonardi e Sergio Manghi), proponiamo l’Introduzione al volume, a firma di Emanuele Leonardi. Il libro sarà presentato venerdì 15 marzo, alle ore 17, in Aula Voladora (plesso universitario di via D’Azeglio, Parma).
Spesso si dice anche che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili e sviluppando forme di energia più pulita porteranno a una riduzione dei posti di lavoro. Ciò che sta accadendo è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato parecchia gente alla deriva. D’altra parte, la transizione verso forme di energia rinnovabile, ben gestita, così come tutti gli sforzi per adattarsi ai danni del cambiamento climatico, sono in grado di generare innumerevoli posti di lavoro in diversi settori. Per questo è necessario che i politici e gli imprenditori se ne occupino subito.
Papa Francesco, 2023
Se vogliamo avere una possibilità di minimizzare ulteriori danni irreparabili al pianeta, dobbiamo scegliere ora. O salvaguardiamo le condizioni di vita per tutte le generazioni future, oppure lasciamo che pochi super-ricchi mantengano i loro stili di vita distruttivi e conservino un sistema unicamente orientato alla crescita economica a breve termine e al profitto degli azionisti.
Greta Thunberg, 2023
La Conferenza delle Parti […] nota che la transizione giusta della manodopera e che la creazione sia di lavoro dignitoso sia di impieghi di qualità, nonché la diversificazione dell’economia, sono cruciali per massimizzare gli impatti positivi e minimizzare quelli negativi delle misure di contrasto [al riscaldamento globale].
Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, 2023
Un percorso accidentato, un esito multi-stratificato
Scrivo queste righe a distanza ravvicinatissima dalla pubblicazione di tre testi fondamentali per il tema che ci apprestiamo ad affrontare: in ordine cronologico, l’Esortazione Apostolica Laudate Deum;[1] il report di Oxfam Climate Equality: A Planet for the 99%;[2] il documento conclusivo della ventottesima Conferenza delle Parti – cosiddetto Global Stocktake.[3] In modi diversi, ma non necessariamente incomponibili, essi ratificano la traiettoria evolutiva del nesso clima-diseguaglianza: dalle origini postbelliche alla svolta della green economy, dai grandi scioperi globali a una nuova configurazione – le cui implicazioni politiche, tuttavia, sono ben lungi dall’essere definite una volta per tutte.
È bene però specificare fin da subito che nulla di ciò che appare “lineare” oggi era a portata di analisi quando, assieme a Sergio Manghi, abbiamo concepito la riflessione collettiva che stringete fra le mani. Il punto d’origine fu il convegno “Ambientalismo operaio e giustizia climatica”, ospitato dal Centro Studi Movimenti di Parma presso l’Auditorium di Casa Matteo Bagnaresi, il 14 giugno 2019. Si trattava certamente di un momento di grande entusiasmo – archiviato il secondo sciopero globale per il clima (25 maggio), fervevano i preparativi per il terzo (previsto per il 27 settembre: la partecipazione fu straordinaria) – ma sarebbe del tutto errato proiettare après-coup su quel frangente una reale consapevolezza della cesura rappresentata dalle parole pronunciate da Greta Thunberg ai negoziatori Onu nel dicembre 2018. Tale consapevolezza, infatti, sarebbe giunta solo nei mesi successivi. Non è invece pretestuoso sostenere che tra i molteplici stimoli di quella discussione – davvero ricchissima – emergesse in filigrana l’intuizione che un certo modo, stabilito e consolidato, di intendere il rapporto tra clima e diseguaglianza stesse venendo meno. In particolare, traspariva controluce una rimodulazione del ruolo del lavoro e della sua rappresentanza, per tradizione soggetto preposto al contro-bilanciamento (tendenzialmente egualitario) delle pulsioni (tendenzialmente elitarie, cioè disegualitarie) della logica di mercato.
Fui dunque particolarmente felice – era fine estate – di ricevere una telefonata di Sergio, che mi proponeva di proseguire la riflessione in forma di volume collettaneo, allargandola a voci che non avevano partecipato al convegno, ma avrebbero iniziato, parallelamente, nel gennaio del 2020, un interessante confronto (al quale io stesso avrei peraltro preso parte) sulla sfida del cambiamento climatico ai modi correnti di “abitare la città”, nell’ambito dell’Associazione culturale Luigi Battei. Scrivemmo il progetto, lo inviammo ad autrici e autori, cominciammo a raccogliere contributi. Fummo poi costretti a bloccarci – come chiunque altro – a causa della pandemia. Con un poco di ritardo rispetto al piano – nemmeno troppo, a dire il vero – nell’autunno del 2020 i testi erano pronti per essere “lavorati”. Un serie di intoppi editoriali, però, ci attendeva al varco, costringendoci più di una volta a riprendere e abbandonare il progetto. Non neghiamo una grande soddisfazione quando, pochi mesi fa, Alessandro Bosi, direttore della collana LeggereScrivere della Editrice Unicopli, ha manifestato un serio interesse al compimento della ricerca, che l’Editrice stessa ha pienamente condiviso, in seguito. Rinfrancati, ci siamo messi al lavoro e, dopo aver sollecitato un ultimo giro di revisioni, ci siamo dedicati agli scritti introduttivi.
Richiamo queste vicende per dare conto a chi leggerà dello iato temporale che separa lo sguardo “retrospettivo” dei testi che aprono il libro – per i quali la nuova natura del nesso clima-diseguaglianza è un dato – dai vari contributi che, al contrario, lavorano l’intuizione menzionata poc’anzi per così dire in medias res, ignari degli sviluppi più recenti. L’esito di questo iato, tuttavia, è una prospettiva multi-stratificata che a noi pare di grande utilità sia per dare profondità storica a uno snodo politico che, crediamo, ci accompagnerà per il prossimo futuro, sia per abitare con accresciuta consapevolezza una congiuntura in cui la riproposizione di soluzioni «antiquate e obsolete»[4] è divenuta un lusso che non ci si può assolutamente permettere – pena la compromissione potenzialmente irreversibile delle condizioni di abitabilità della Terra.
Breve storia politica del nesso clima-diseguaglianza
Vale la pena di richiamare qui, a grandi linee, l’evoluzione del rapporto tra crisi climatica e politiche di contrasto alle diseguaglianze.[5] Quando, attorno alla metà degli anni Settanta del Novecento, équipes scientifiche statunitensi presentarono alla propria Amministrazione disparate evidenze dell’aumento antropogenico della temperatura media, ricevettero una certa attenzione – nacque il registro politico dell’adattamento ai cambiamenti climatici, con annessi finanziamenti per fronteggiare i danni – e un fermo rigetto della soluzione prospettata: ridurre le emissioni di Co2-equivalente.
Le ragioni erano primariamente militari – “c’è una Guerra Fredda da vincere e noi dovremmo disfarci del produttivismo?!?” –, ma non deve passare inosservato un elemento importante, di natura sociale. Il modello di sviluppo fordista si fondava infatti sull’inclusione della classe lavoratrice nella dinamica capitalistica – alti salari > accesso al consumo di massa > politiche di welfare > aumento della produzione > crescita dell’occupazione > alti salari… e così via –, il che implicava da un lato (nell’area Nord-Atlantica) una crescita basata sulla riduzione delle diseguaglianze tra imprenditori e salariati e, dall’altro lato, uno “scarico” dei costi legati a questo meccanismo (nel resto del mondo, ma anche rispetto alle dimensioni di genere).
Dal punto di vista ecologico, tale modello ipertrofico ha comportato la moltiplicazione delle nocività e il superamento di un gran numero di limiti planetari – tra cui evidentemente il livello “sicuro” di concentrazione di Co2-equivalente in atmosfera. Tale superamento multiplo, inoltre, aveva cominciato a mettere a repentaglio la redditività di un numero significativo di produzioni, contribuendo alla diffusione di uno specifico inquadramento del rapporto tra economia e natura, tipico di quegli anni e trasversale agli schieramenti politici: aut–aut – o si privilegiano le ragioni dello sviluppo (e, con esse, della riduzione delle diseguaglianze), oppure si privilegiano le ragioni della biosfera (nel qual caso, però, tocca abbandonare i programmi sociali inscritti nelle politiche di welfare). Tertium non datur.
Poiché il modello fordista concepiva l’ambiente come mera condizione della produzione di valore – per giunta pensata come infinita e gratuita, tanto all’inizio quanto alla fine del processo economico – è comprensibile che, volendo risolvere la questione ambientale, le élite si siano poste il problema di ripensarlo, a partire perlomeno dalla metà degli anni Ottanta. E se il legame tra crescita (del Pil) e (parziale) uguaglianza aveva amplificato la crisi ecologica, poteva allora risultare ragionevole tentare di legare la protezione ambientale all’accumulazione di capitale, sacrificando con ciò l’ideale egualitario – che, peraltro, cominciava a erodere i margini di profitto che un tempo aveva garantito.
È in questa temperie che prima emerge e poi si consolida la green economy, cioè l’idea – di cui lo sviluppo sostenibile (1987) è la prima, imperfetta rappresentazione – secondo cui la crisi ecologica non sarebbe un male necessario, cioè un vincolo alla libera intrapresa, bensì un potenziale vettore di crescita, anzi: un’inedita strategia di accumulazione. Va sottolineata la portata dirompente di questa innovazione concettuale: la green economy non è un settore del sistema produttivo, bensì un orizzonte valoriale e politico di trasformazione della società nel suo complesso: includendo l’ambiente nella definizione del valore – non più condizione, dunque, bensì fattore –, il mercato diveniva il locus non del problema, ma della sua risoluzione (Rullani, 2010).
Lo stesso modello di sviluppo ne usciva profondamente mutato: da “crescita contro l’ambiente” a “crescita per l’ambiente”. Come mostra con precisione Francesco Laruffa (2022), per divenire “verde ed inclusiva” (in opposizione a “inquinante ed equa”), la crescita doveva finalizzarsi non al raddrizzamento per via politica delle storture del mercato, bensì alla colonizzazione, da parte della lex mercatoria, di aree dell’esperienza umana – per esempio l’educazione, il linguaggio, gli affetti – un tempo appannaggio di logiche irriducibili all’homo œconomicus. Perciò, il ciclo non comincia più con il salario (magari sostanzioso), bensì con il capitale umano (preferibilmente con competenze plurime); l’attore sociale par excellence non è più collettivo (la classe lavoratrice, con la sua esigenza legittima di redistribuzione, oppure la classe capitalista, con la sua esigenza, egualmente legittima, di profitto), bensì individuale (le singole persone, con le proprie insindacabili preferenze). Conseguentemente, i soggetti dell’equità democratica (corpi intermedi, in particolare sindacati, e organi legislativi) perdono la propria centralità a favore dei soggetti dell’inclusività governabile (forma-impresa smart, flessibile e green – si pensi alle start-up – e organi esecutivi) (Sassen, 2006).
Questo processo è chiaramente riscontrabile anche rispetto alla politica transnazionale di contrasto al riscaldamento globale. Essa si basa, infatti, sull’idea che quest’ultimo rappresenti un esempio perfetto di fallimento del mercato – incapace, storicamente, di contabilizzare le cosiddette esternalità negative (in questa fattispecie, le emissioni di Co2-equivalente) –, cui tuttavia si può porre rimedio solo mercificando quelle stesse esternalità negative, di modo che finalmente si possa “dare un prezzo alla natura” e farne commercio. In questo modo può finalmente affermarsi il registro politico della mitigazione (cioè: riduzione in termini assoluti delle emissioni di gas a effetto serra): un’opzione ormai “stabilizzatrice”, piuttosto che “anti-sistemica”.
Ed è ancora qui che qualcosa come un capitalismo verde diviene plausibile, sulla base – bisogna enfatizzarlo nuovamente – di una grande ambizione: quella non solo di limitare le conseguenze indesiderate dello sviluppo economico, ma di spingere tale sviluppo “disaccoppiando” l’accumulazione dall’impatto ambientale. Il che significa, nella lingua del cambiamento climatico, produrre valore emettendo meno gas a effetto serra, cioè – appunto – mitigando. Semplifico: laddove la strategia dell’adattamento mette in atto una sorta di “riduzione del danno”, quella centrata sulla mitigazione punta decisamente più in alto, cioè alla “soluzione del problema alla radice”.
La giustizia climatica: smottamenti semantici
La complessa impalcatura della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (istituita tra il 1992 e il 1994), pur nella mutevolezza che ne ha contraddistinto la trentennale traiettoria, si è retta – almeno fino a oggi – su questo connubio inestricabile tra mitigazione e mercato, tra il fine dell’azione politica e i mezzi monetari del suo conseguimento. Porrò la domanda, a breve, se dopo tutto questo tempo sia possibile fare un bilancio. Per ora, però, mi limito a notare che il Sistema delle Cop – strumento attuativo della Convenzione Quadro – appare uno strano ibrido tra progressismo politico (si raccoglie una sfida inedita, basata sul riconoscimento che l’origine dello sconvolgimento atmosferico sia antropogenica – cioè: sono le attività umane, in particolare l’utilizzo di combustibili fossili, a causare il riscaldamento globale) e neoliberismo economico (si sostiene che solo i mercati possano risolvere la crisi: non l’intervento pubblico, non la cooperazione internazionale, non la partecipazione della società civile planetaria – solo i mercati).
Ed è su questo sfondo – meglio: in costitutiva tensione con questo sfondo – che prende forma l’idea di giustizia climatica. Una definizione preliminare potrebbe essere la seguente: quadro analitico secondo cui il riscaldamento globale non designa in primo luogo una questione atmosferico-ambientale, bensì una situazione di iniquità. All’epoca della sua nascita – 1999 – questa idea-movimento si collega al riconoscimento che i Paesi che sono stati storicamente meno responsabili delle emissioni climalteranti sono anche i Paesi più vulnerabili rispetto alle conseguenze nefaste del riscaldamento globale. In questa prospettiva, la giustizia climatica emerge originariamente come critica per lo più geopolitica che si occupa soprattutto della responsabilità storica per l’accumulo di emissioni e del (pagamento del) debito climatico. In questa veste per così dire “terzomondista”, i movimenti per il clima intrattengono con la governance climatica transnazionale un rapporto che, con Paola Imperatore (2023), abbiamo definito di “prossimità critica”. La ragione è la seguente: si riconosce che l’arena a guida Onu ha saputo cimentarsi con la sfida-chiave del xxi secolo, cioè fare della stabilità atmosferica una posta in gioco politica; lo ha fatto mettendo in scacco il negazionismo climatico, vale a dire l’avversario “naturale” di questi movimenti; sebbene la strategia di mercato non convinca, si ritiene che prendere parte al processo – magari proponendosi di “spingerlo in avanti”, di accelerarlo – possa essere una strategia vincente. Insomma: la scommessa è fornire legittimità politica in chiave antinegazionista tentando di ampliare lo spettro di soluzioni plausibili al di là dei meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto, in ottica oltre-mercatista (nonché autenticamente pluralista).
Particolarmente dopo il rilancio dell’Accordo di Parigi (2015), si impone – come anticipavo – una sorta di bilancio. Del resto, tra tutte le politiche pubbliche, quelle climatiche (e in generale, ecologiche) sono le più sensibili al criterio dell’urgenza. Quindi, com’è andata? La sentenza è impietosa: non solo le emissioni hanno continuato ad aumentare in termini “assoluti”, ma anche il tasso di emissione è cresciuto. In altre parole: non solo non si è riusciti a invertire la rotta, riducendo le emissioni; si è anche proceduto più speditamente nella direzione opposta rispetto a quella auspicata. Ironia della sorte, si è recentemente appreso che dal 1990 (anno-base del Sistema delle Cop) al 2021 è stata emessa più Co2-equivalente di quanta non ne sia stata emessa dal 1750 – anno convenzionale della prima stima – al 1990 stesso. Insomma: da che si è riconosciuto un problema e si è approntato un insieme di politiche volte a farvi fronte, esso si è ingrandito invece di ridursi (Thunberg, 2022).
In questo scenario, si inaugura una fase di ripensamento, all’interno della giustizia climatica. Ci si domanda se la “prossimità critica” stia dando frutti o meno. Decisivo è qui il triennio 2016-2018, che si apre con i primi dati sulla sproporzione emissiva non già tra Paesi bensì all’interno di ciascuno di essi, tra gruppi di reddito: il rapporto Oxfam del dicembre 2015 mostra che il 50% più povero della popolazione mondiale è responsabile del 10% delle emissioni, mentre il 10% più ricco è responsabile del 50% delle emissioni. Tale dato prenderà corpo politico nello “strappo” di Greta Thunberg alla Cop 24 di Katowice, in Polonia. Queste le sue parole, che non sono prive di una dimensione tragica (Stiegler, 2020) e che inaugurano la postura che definiamo “contestazione aperta”:
Voi parlate solo di una crescita verde e infinita, perché avete paura di diventare impopolari. Parlate solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino, anche quando l’unica cosa sensata da fare è affrontare l’emergenza. Non siete sufficientemente maturi per dire le cose come stanno, nemmeno riguardo a questo fardello che state lasciando a noi giovani. Ma a me non importa di risultare impopolare, mi importa della giustizia climatica e di un pianeta vivibile. La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. […] Non siamo venuti qui per pregare i leader di occuparsene. Tanto ci avete ignorato in passato e continuerete a ignorarci. Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene al popolo. (Thunberg, 2018)
A partire da quel momento, e sempre più di sciopero in sciopero, la giustizia climatica impone una vera e propria torsione al regime di visibilità del riscaldamento globale: anno dopo anno vengono affinate le statistiche sull’impatto emissivo sia dei consumi – oggi sappiamo, per esempio, che il 50% più povero della popolazione mondiale non solo emette solo il 10% del totale, ma avrebbe diritto, in una situazione di completa uguaglianza “carbonica”, a raddoppiare le proprie emissioni – sia degli investimenti (tanto produttivi quanto speculativi).
A questo proposito, analizzando nel dettaglio le posizioni di investimento di 20 “miliardari carbonici” (su un campione di 253), Oxfam (2022) è in grado di affiancare al rapporto climatico tra un individuo appartenente all’1% più ricco e uno appartenente al 50% più povero (il primo emette circa 100 volte di più) il ben più significativo rapporto – in termini di effetti sulla struttura economica – tra un individuo dotato di grande potere finanziario e un individuo che, in quanto appartenente al 50% più povero, non muove alcuna leva di finanziamento. Ebbene, data l’assai rilevante quota di investimenti in aziende legate direttamente al capitalismo fossile, Oxfam sostiene che ogni “finanziere fossile” emette oltre un milione di volte più Co2-equivalente rispetto a un “povero climatico”. In conclusione: alla dimensione prettamente geopolitica, la giustizia climatica ha saputo affiancare una forma specifica di questione sociale, finalmente adeguata al tempo presente.
La transizione giusta: una nuova alleanza tra lavoro e clima
In questo contesto, segnato dal fallimento del tentativo neoliberale di legare crescita economica e protezione ambientale – a discapito della riduzione delle diseguaglianze – si pone la questione cruciale di come produrre un terreno sufficientemente solido per l’alleanza tra ragioni del lavoro e ragioni del clima. In altri termini, emerge come prioritario il tema del connubio tra redistribuzione e protezione ambientale, con la messa in secondo piano – ma non con la squalifica: qui un tertium datur è quantomeno ipotizzabile – della crescita economica. Lo dimostrano un certo numero di elementi: in Italia, la convergenza tra avanguardie del movimento operaio e avanguardie della giustizia climatica (Aa.Vv., 2022; Lovati, 2023); a livello di Ong, l’insistenza di Oxfam e altre realtà sul ripensamento in termini climatici della progressività fiscale (Oxfam, 2023); sul piano delle mobilitazioni globali, la diffusione delle campagne politiche per l’occupazione climatica [Climate Jobs Campaigns] (Neale, 2020) – sostenute, sia pure indirettamente, da papa Francesco (2023), che richiama l’ipotesi di fondo che le anima nella sua più recente Esortazione Apostolica; rispetto alla governance climatica transnazionale – ma pure rispetto al mondo sindacale –, un approfondimento dei riferimenti alla Just Transition (Benegiamo, Guillibert, Villa, 2023).
È proprio su questo punto che vorrei terminare il mio invito alla lettura: infatti il Global Stocktake (2023) è stato alternativamente salutato come “storico” o bollato come “fallimentare”, a seconda che i commentatori si focalizzassero sulla presenza, per la prima volta, della formula “combustibili fossili” [fossil fuels] in un testo conclusivo, oppure che scegliessero di enfatizzare la vaghezza del contesto di riferimento – si parla di “allontanamento” [transitioning away] in luogo dell’atteso “fuoriuscita” [phase out]. Si tratta di una discussione legittima, che tuttavia inizia e finisce con la Cop 28 di Dubai. Lo sguardo che abbiamo qui messo a punto – succintamente, senz’altro – ci permette però di ragionare sul medio periodo, e perciò di leggere tale testo come fosse un sismografo. In questo modo, a me pare emergano due spinte opposte, dalla cui interazione dipenderà la prosecuzione, su basi rinnovate, del Sistema delle Cop; oppure il suo collasso.
Il punto politico è capire se e in che misura un sistema nato per “mitigare” attraverso la centralità del mercato possa reggere assumendo come orizzonte esclusivo quello di facilitare la tecnologia dell’“adattarsi”. Rispetto a ciò, la prima spinta – che procede in direzione del crollo, ma si potrebbe pure dire sabotaggio – si condensa nella scelta di Baku, Azerbaijan, come sede del prossimo appuntamento: per il terzo anno consecutivo i negoziati si terranno in uno Stato le cui entrate dipendono primariamente da fonti fossili. Potrebbero però non mancare elementi di potenziale contro-bilanciamento.
In questo senso, la seconda spinta va in direzione del rinnovamento, e si cristallizza attorno all’onnipresenza della formula Transizione Giusta – menzionata dieci volte! – cioè di una proposta sindacale che nasce, negli anni Novanta del Novecento, come strumento di difesa dalla transizione ecologica (intesa come fattore di rischio per l’occupazione) e che pian piano sta evolvendo – anche sulla base di esperienze virtuose: non solo quella dell’ex-Gkn di Campi Bisenzio (Andretta, Gabbriellini, Imperatore, 2023), ma pure la Marelli di Crevalcore (Bo), e molte altre a livello internazionale – in strategia complessiva per la transizione ecologica (in questo caso “dal basso”, produttrice cioè di occupazione di qualità, a discapito di una sempre più irragionevole polarizzazione sociale, in termini sia di redditi sia di emissioni).
Questo interesse per il mondo del lavoro – inedito se non altro nella frequenza del richiamo, ma forse anche nella qualità dell’interlocuzione – potrebbe rappresentare, se adeguatamente supportato e se tradotto in effettiva pratica politica, una svolta positiva nell’economia delle negoziazioni globali. Si tratterebbe di mettere al centro del processo non più i mercati ma, da un lato, l’azione pubblica e, dall’altro, i movimenti per la giustizia climatica. Sarebbe l’opportunità tanto attesa di lasciarsi alle spalle il clima diseguale che ancora ci invischia, per sperimentare invece sentieri di convergenza verso un mondo non solo ecologicamente abitabile, ma pure socialmente desiderabile. Come cantavano i gilets jaunes, mobilitazione la cui rilevanza ecologica è ancora troppo poco apprezzata (Chédikian, Gallo Lassere, Guillibert, 2020): “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”.
È chiaro che, affinché tale svolta positiva avvenga, occorre che l’alleanza clima-lavoro sappia sovra-compensare l’inerzia della Convenzione Quadro a lasciarsi trainare da interessi consolidati. Questa nuova alleanza dovrà dunque affinare la propria prospettiva sul mondo, sedimentare la propria forza sociale, dotarsi di spazi e procedure per aggregare attorno a sé soggettività capaci tanto di politica quanto di futuro (Pellegrino, 2019, 2020; Deriu, 2022). La mia speranza, come del resto quella di Sergio Manghi, è che questa raccolta di testi possa contribuire alla causa. Buona lettura, e buona fortuna.
Bibliografia
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Andretta M., Gabbriellini F., Imperatore P. (2023), Un ambientalismo di classe. Il caso Gkn, in Sociologia del lavoro, vol. 165, pp. 133-154.
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[1] Ottobre 2023: https://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/20231004-laudate-deum.html.
[2] Novembre 2023. Le traduzioni dall’inglese all’italiano sono mie.
[3] Dicembre 2023.
[4] Si veda l’Esergo di Sergio Manghi, qui sotto.
[5] Per una trattazione più approfondita, si veda Leonardi (2023).