Guido Picelli da Mosca a Mirabueno

di Franco Ferrari

Pubblichiamo questo articolo sull’ultima fase della vita di Guido Picelli uscito già sul sito rifondazione.it [n.d.r.].

In un precedente articolo abbiamo lasciato Guido Picelli, l’ex deputato comunista protagonista delle Barricate di Parma del 1922, alle prese con il clima di sospetto scaturito dai primi effetti di quella che, dalla primavera del 1937, diventerà una pesante ondata di repressione che colpirà indiscriminatamente dirigenti, quadri e militanti del partito al potere e le comunità di esiliati politici insediatisi in Unione Sovietica[1].

Picelli aveva sempre espresso la sua adesione alla politica del Partito e del Comintern ma aveva anche dimostrato una forte insofferenza per quella che riteneva essere una sua scarsa valorizzazione da parte della leadership del PCdI (almeno nella parte che si trovava a Mosca sotto la guida di Palmiro Togliatti). In particolare per quello che riteneva essere il suo principale ambito di competenza: gli aspetti militari della lotta politica.

Fin dal maggio 1933, quando era a Mosca da alcuni mesi, aveva sollecitato una richiesta di iscrizione all’Accademia militare sovietica e aveva anche proposto di realizzare una rubrica sulla rivista ufficiale del PCdI “lo Stato Operaio” che trattasse specificamente “i problemi politico-militari: storia delle insurrezioni armate, teoria e tattica della guerra di strada, sviluppo della tecnica, con la partecipazione dei compagni che più si interessano di tali problemi”. L’accesso dell’Accademia Militare non si poté realizzare, secondo Picelli per le modalità burocratiche con la quale la sua richiesta venne sostenuta dal Partito[2], secondo altri per lo scoglio rappresentato dalla mancata conoscenza della lingua russa[3]. Quest’ultima tesi trova conferma anche in quanto scritto da Ottavio Pastore (che era a Mosca), sull’ “Eco del Lavoro” del 23 gennaio 1953. “A Mosca tentò tenacemente di essere ammesso in qualche istituto di studi militari. – scrive  Pastore – Non fu possibile perché non vi erano né i libri né gli insegnanti necessari, non sapendo egli una parola di russo”.

Poco dopo Picelli potrà entrare a far parte dei “professori rossi” della Scuola Leninista Internazionale, grazie anche all’avallo di Luigi Longo (Gallo), dove terrà un corso sulle questioni militari e della guerra partigiana. Nel maggio del 1935 chiederà di essere utilizzato dal partito per “fare un lavoro” per il quale si sente portato, ma del quale non conosciamo i dettagli[4]. Con lo scoppio della guerra civile in Spagna, a metà luglio del 1936, Picelli ritiene di aver finalmente l’occasione per riprendere il suo posto in prima fila nella lotta contro il fascismo. In una lettera ai suo concittadini che vivono in esilio in Francia, del 10 agosto 1936, sottolinea l’importanza dell’”epica lotta del Fronte Popolare spagnolo” che, aggiunge, “non deciderà soltanto dell’avvenire prossimo dei lavoratori in Spagna, ma altresì dei lavoratori di tutti i paesi sottomessi al fascismo.”  Con una forte sottolineatura retorica, Picelli afferma che “l’Italia dei lavoratori figli del Risorgimento oggi oppressi dal nemico interno, denuncia al mondo la nuova infamia delle “duecento famiglie italiane” mentre afferma la solidarietà cogli eroi del Fronte Popolare che colle armi in pugno difendono la Repubblica Democratica Spagnola”[5].

In questo testo è interessante rilevare il richiamo a due temi ugualmente presenti in quel momento nella propaganda comunista: da un lato il sostegno al “fronte popolare” che difende la “Repubblica Democratica” in Spagna e che è al governo in Francia, dall’altro la condanna della politica delle “duecento famiglie”. Una formula, quest’ultima, ripresa da una classica propaganda del Partito Comunista Francese. Una sua eco si ritrova echeggiata anche nell’Appello per la riconciliazione nazionale che il PCdI pubblica nello stesso 10 agosto e che riporta nella lista dei firmatari e col massimo rilievo proprio il nome di Guido Picelli.

L’impazienza di Picelli nel voler partire e quale sia il ruolo che si attribuisce emerge da una breve lettera del 1° ottobre 1936 diretta a Manuilski, che nel Comintern rappresenta il partito sovietico ed è quindi la figura che dispone, probabilmente, del maggior potere politico per autorizzare o meno Picelli a lasciare l’Unione Sovietica. Scrive Picelli: “il ritardo della mia partenza per la Spagna mi impedisce di fornire, con la sollecitudine che le circostanze esigono, il mio aiuto tecnico alle forze del governo repubblicano. Sono assolutamente convinto che le mie capacità militari, senza volerle sovrastimare, porterebbero un aiuto valido all’organizzazione e allo sviluppo delle azioni sui punti che, in queste fasi particolari della lotta, appaiono i più deboli. La prego quindi di voler far tutto il necessario affinché le formalità già avviate siano velocizzate e portate a termine nel più breve tempo possibile”[6].

Il 3 ottobre, arriva l’autorizzazione definitiva all’espatrio di Picelli, ma viene esclusa la possibilità che a lui vengano affidati incarichi di tipo militare. Il 14 ottobre viene comunicata l’assegnazione di 296 dollari con i quali potrà lasciare il territorio sovietico attraverso il posto di confine di Niegorieloie. Quindi a metà ottobre Picelli si avvia in treno verso la Francia[7].

Qual è il suo stato d’animo? Qui naturalmente si entra sul terreno, sempre scivoloso, delle supposizioni. Sicuramente ha ottenuto ciò che aveva chiesto, di potersi recare a Parigi e poi da lì partire per la Spagna dove dare il suo contributo nel conflitto politico-militare in corso. Era diventato un “dissidente” o un “antistalinista”? In realtà non c’è nessun documento noto, e certamente non quelli di suo pugno, in cui esprima un dissenso di natura politica che lo possa collocare in tale categoria, almeno fino a questo momento. L’Avanti!, giornale dei socialisti massimalisti (quindi una fonte apertamente critica della politica staliniana in quel tempo) scriverà, nel suo necrologio del gennaio del 1937, che “era tornato dalla Russia più ardente che mai per la causa della Rivoluzione Proletaria, irrequieto e preoccupato per gli errori e le oscillazioni del suo partito ma deciso a dare tutto sé stesso per la causa”[8].

Sappiamo per certo che a Parigi Picelli entra in conflitto con il Centro estero del PCdI e prende contatto con il PSI massimalista. Arrivato nella capitale francese riallaccia i rapporti con “Carlo Masi” (pseudonimo di Michele Donati[9]) “ormai da tempo rientrato in Francia dall’Unione Sovietica ed espulso dal PCI nel 1936 e attraverso costui conosce Dino Mariani (Elmo Simoncini), noto esponente del Partito socialista massimalista italiano. Masi avrebbe convinto Picelli, che in realtà era stato scelto come capo dei gruppo dei compagni che partivano per la Spagna (…)”, così riassume la storica Elena Dundovich[10].

Di Donati, alias Masi,  si parla come “trotskista” ma questa etichetta viene spesso utilizzata a sproposito o come indicazione generica di posizioni politiche dissidenti. Funzionario comunista, arrivato a Mosca nel 1930, è stato docente della Scuola Leninista Internazionale e sarebbe stato anche responsabile del gruppo degli italiani (una trentina) che lavoravano alla Kaganovich.[11] Secondo una fonte Donati “nell’estate del 1936 riuscì a convincere Togliatti a chiedere alle autorità sovietiche il visto per poter lasciare la Russia insieme alla famiglia, giustificando la richiesta con l’inclemenza del clima (la moglie soffriva di artrite e il figlioletto Giorgio era morto addirittura per il gelo).” Ritornato a Parigi ruppe con il Partito Comunista e aderì al PSI massimalista, della cui Direzione entrò a far parte e venne anche nominato redattore dell’Avanti![12]. Nel febbraio del 1937, rispondendo ad un articolo polemico del giornale comunista “Il Grido del popolo” motivava la sua rottura con i comunisti affermando che, a suo parere, in Unione Sovietica la rivoluzione era in pericolo e per salvarla occorreva rovesciare la “casta burocratica”. Inoltre sosteneva di “combattere risolutamente” la politica di “fronte popolare” perché “in definitiva serviva alla borghesia per incatenare meglio le masse”. Infine polemizzava con l’Appello alla riconciliazione degli italiani, di cui Picelli era stato uno dei firmatari[13].

Posizioni che riecheggiavano le critiche trotskiste alla politica comunista, ma in questa fase i trotskisti italiani in esilio in Francia svolgono opera di entrismo nell’altro troncone del PSI, quello affiliato all’Internazionale Operaia e Socialista, alla cui guida si trovano tra gli altri Nenni e Saragat[14]. La figura più nota del PSI massimalista è Angelica Balabanoff che però nel 1936 si trova a New York e si occupa soprattutto delle relazioni internazionali dei massimalisti. Segretario del PSIm è il citato Dino Mariani (pseudonimo di Elmo Simoncini), un antifascista romagnolo costretto all’esilio per sfuggire alla repressione fascista[15].

Il PSI massimalista aderisce ad un Bureau internazionale del “socialismo rivoluzionario” nel quale si ritrovano diverse formazioni politiche (per lo più di piccole dimensioni) che si collocano in una posizione critica verso le due grandi internazionali operaie, quella socialista e quella comunista, ma che si differenziano anche rispetto a due correnti comuniste dissidenti minoritarie, quella trotskista, che aveva avviato il processo di formazione della Quarta Internazionale, e quella dei cosiddetti “oppositori di destra” (Lovestone, Brandler, Talheimer, ecc.).

E’ attraverso questo Bureau che i socialisti massimalisti consolidano i loro rapporti con il POUM, partito marxista dissidente che conta una base di una certa consistenza quasi esclusivamente in Catalogna. Il POUM è nato nel 1935 dall’unificazione del Bloc Obrer i Camperol, frutto di una scissione nel comunismo catalano degli anni ’30[16], con l’Izquierda Comunista, organizzazione molto più piccola, ispirata da Trotsky ma che con Trotsky aveva rotto per il rifiuto di seguire la sua indicazione di praticare l’entrismo nel PSOE. Il POUM aderisce all’accordo di Fronte Popolare con socialisti, comunisti e sinistra repubblicana, grazie al quale ottiene un eletto, ma lo considera solo un’intesa finalizzata alle elezioni. Resta invece ostile alla strategia dei “fronti poolari” così come perseguita, in particolare, dai comunisti. Nel conflitto civile spagnolo sosterrà la linea della rivoluzione sociale come condizione per vincere la guerra col fascismo. Propugnerà anche la necessità, almeno in Catalogna, di una presa del potere delle componenti più radicali dello schieramento antifascista (in particolare i settori anarchici più estremisti) per rovesciare la Generalitat, capeggiata dal leader della sinistra catalana Lluys Companys[17].

E’ Dino Mariani a organizzare l’incontro tra Picelli e Julian Gorkin, uno dei principali dirigenti del POUM, responsabile soprattutto delle relazioni internazionali, nella prima metà di novembre, nel quale a Picelli viene promesso di poter guidare una compagnia di miliziani del Partito che combattono sul fronte di Huesca. Un incontro avvenuto quando Gorkin rientra a Parigi dopo essere stato al Congresso di Bruxelles “contro la guerra”, organizzato dalle varie formazioni del “socialismo rivoluzionario”[18].

Per inserire l’azione di Picelli nel reale contesto politico di quelle settimane in cui prende i suoi contatti a Parigi è necessario ricordare che l’antifascismo italiano non è unito nelle iniziative di solidarietà con la Spagna e in particolare quelle che hanno una implicazione militare[19]. Da un lato si è mosso Rosselli di Giustizia e Libertà per dare vita ad una colonna italiana che già da agosto combatte tra le fila del battaglione anarchico “Ascaso”. In questa iniziativa sono soprattutto confluiti anarchici (almeno i due terzi dei suoi componenti), giellini e qualche repubblicano dissidente. Quasi contemporaneamente si forma una colonna internazionale che opera nelle file del POUM. E’ di modeste dimensioni (una cinquantina di uomini di vari paesi, di cui una ventina italiani) e alla sua guida si colloca l’esule napoletano Enrico Russo. Si tratta di un bordighista dissidente che ha rotto con la maggioranza della sua “frazione” per la quale non ci sono sostanziali differenze tra i due fronti della guerra civile spagnola, essendo entrambi egemonizzati dalla borghesia.

Più prudenti sono i comunisti e i socialisti di Nenni, i quali vogliono muoversi avendo l’autorizzazione del governo spagnolo che inizialmente è piuttosto scettico sul dare via libera ad una significativa presenza di combattenti internazionali. Da un lato ci sono i contatti tra il PCdI, il PSI (IOS) e il PRI di Randolfo Pacciardi che portano a fine ottobre a sottoscrivere un accordo per la costituzione di una “Legione italiana”, che combatta in Spagna, dall’altro c’è la decisione del Comintern, presa a metà settembre, di dare il via libera all’afflusso di volontari, comunisti e non per costituire delle Brigate Internazionali. E’ verso la fine di ottobre che viene ottenuta l’autorizzazione da parte del primo ministro socialista Largo Caballero, mentre già diverse centinaia di volontari cominciano ad affluire prima a Figueras (al confine con la Francia) e poi ad Albacete.

Quali sono le ragioni del conflitto tra Picelli e i dirigenti comunisti presenti a Parigi che lo avevano già sollecitato a partecipare alle Brigate Internazionali, pur senza forse potergli attribuire un ruolo militare preciso? Il citato necrologio dei socialisti massimalisti, dopo aver ricordato che “fino al momento della sua partenza” per la Spagna, Picelli “era stato fra noi”, scrivono di “qualche dissenso tattico”. La natura di questo dissenso è esplicitata in un documento riservato del Comintern redatto nel 1940 e firmato da “Edo” (Edoardo D’Onofrio) e Pavanin (Cesare), due dirigenti comunisti che avevano svolto in Spagna un ruolo importante per l’ufficio quadri del Partito.

Scrivono i due dirigenti: “Quando Picelli arrivò in Francia, voleva partire per la Spagna. Era impaziente, ma dato il suo passato e le sue qualità militari, voleva il comando di una brigata e voleva anche applicare certe idee militari alla lotta di Spagna. Per esempio, voleva introdurre nel sistema di lotta l’esperienza delle truppe d’assalto “Arditi” che si era applicato durante la grande guerra italo-austriaca. Non comprendendo che tutto questo non dipendeva solamente da noi egli si arrabbiò e si legò ogni giorno di più con degli elementi massimalisti e poumisti che gli promisero di soddisfare i suoi desideri.”[20]

Senza avvertire i dirigenti comunisti, Picelli si reca a Barcellona dove risiede alcuni giorni nella caserma Lenin, sede militare del POUM. “Nel frattempo, i nostri compagni del Partito, – scrivono “Edo” e Pavanin – a Barcellona riescono a contattarlo e a fargli comprendere la stupidaggine (“bétise”, nel testo originale che è in francese, ndr) che aveva commesso. Picelli, immediatamente (“sur le champ”, ndr) parte per Albacete per andare nella brigata “Garibaldi”.” Questa ricostruzione interna coincide con quanto scrive l’Avanti! massimalista nel gennaio del 1937, riportando che Picelli “in Spagna si era riconciliato col suo Partito”. Queste affermazioni sono importanti perché provengono da una fonte coetanea non comunista (anzi per molti versi ostile al PCdI) e sono pubblicate nello stesso momento nel quale il segretario del PSI massimalista, Dino Mariani, si trova a Barcellona. Vi arriva quando si diffonde la notizia della morte di Picelli e vi resterà fino al 25 gennaio mantenendo contatti diretti col POUM[21].

Anche secondo un informatore dell’OVRA, Alessandro Consani, che era un dirigente del partito di Mariani e che in tale qualità era stato in contatto diretto a Parigi con Picelli (che certamente non poteva conoscere il suo “doppio ruolo”), farà rapporto a Roma dopo la morte del comunista parmigiano spiegando che “poche ore prima della sua partenza per Huesca ha incontrato non sappiamo quale suo amico comunista e, piantando in asso gli impegni assunti col POUM si è recato a Madrid nella colonna internazionale.”[22]

Abbiamo tre fonti diverse, due riservate e una pubblica, relativamente vicine agli avvenimenti, che ci propongono una ricostruzione concordante sui dati fondamentali del comportamento di Picelli.

Non sappiamo con certezza invece chi fu a contattare Picelli a Barcellona. Secondo Giancarlo Bocchi, “il vecchio compagno e amico Ottavio Pastore viene mandato in missione a Barcellona per convincere “il Ribelle” (…) ad aderire alle Brigate Internazionali”.[23] Pastore aveva seguito le Barricate di Parma del 1922 per l’Ordine Nuovo torinese e poi era stato anch’egli impegnato nella Scuola Leninista Internazionale di Mosca. In un intervento giornalistico sulla Gazzetta di Parma, Bocchi precisa, seppure in modo vago, quale sarebbe la fonte della sua informazione: “ Quello che si dissero (Picelli e Pastore, ndr) fu pubblicato negli anni ’50 su l’Unità, il giornale che dirigeva all’epoca.” Per la precisione Pastore fu direttore della pagina torinese dell’Unità nel 1947-48. Una nostra ricerca sull’archivio digitale dell’Unità, che comprende tutto il giornale dalla fine della guerra fino alla sua chiusura non ha dato frutti. Sembra però improbabile che negli anni ‘50 il PCI volesse far sapere che Picelli era stato “recuperato” dal POUM, visto che la logica politica del periodo richiedeva che un “eroe” non avesse “macchie”.  Inoltre Ottavio Pastore scrisse un articolo sull’”Eco del lavoro”, settimanale della federazione parmense del Partito Comunista Italiana, datato 23 gennaio 1953, nel quale scriveva:

“Guido Picelli l’ho visto l’ultima volta a Mosca quando mi chiese di aiutarlo ad affrettare la sua partenza per la Spagna. Nel tranquillo ed elegante caffè Puskin parlammo a lungo, rievocando fatti e uomini, ricordando Roma ed i suoi tiepidi inverni – attraverso le doppie vetrate intravvedevamo la neve cadere senza posa – e discutemmo dell’avvenire. Picelli era impaziente: era l’occasione che la storia ci offriva per battere il fascismo – era anche l’occasione che egli non voleva mancare per uscire da un periodo della sua vita in cui aveva lavorato intensamente; ma che in quel momento, di fronte alle nuove prospettive, gli sembrava paludoso, per tornare alla lotta armata che lo interessava particolarmente”[24].

Il comportamento di Picelli, benché recuperato, quasi in extremis, “da adito a scandalo” tra i dirigenti del PCdI, come scrive Elena Dundovich. In un documento riservato si scrive: “Bisogna fare un’inchiesta severa, conoscere la verità sui suoi legami con i trockisti. Bisogna tenere presente che non può certo ignorare che cosa sono i trockisti. Ha una considerazione esagerata di sé stesso. Non si esclude niente quanto alle ragioni del suo comportamento. Bisogna decidere se utilizzarlo e come utilizzarlo in caso di risposta favorevole dopo il risultato dell’inchiesta”[25].

I rapporti tra i comunisti e il POUM, nel novembre del 1936, sono già improntati a polemiche durissime (influenzate dalle ricadute dell’avvio dei processi staliniani di Mosca), anche se non hanno l’asprezza e la violenza che raggiungeranno dopo i fatti di Barcellona del maggio dell’anno successivo. Dopo quegli eventi il POUM verrà fatto oggetto sia della repressione legale che dell’azione, del tutto illegale, di cui si fa protagonista il gruppo di agenti dell’NKVD sovietico guidato da Alexander Orlov. Tra i crimini commessi, il più noto e che susciterà il maggior scandalo anche al di fuori della Spagna, è quello del rapimento e dell’assassinio di Andreu Nin, leader del POUM. Nel mese di novembre del 1936, quando Picelli arriva a Barecellona, il POUM fa ancora parte del governo della Generalitat, nel quale Nin ha la responsabilità della Giustizia.

Un altro documento interno al Partito Comunista informa che non era stata adottata nessuna misura disciplinare nei confronti di Picelli. Il quale aveva scritto al Comitato Centrale del PCI “dichiarando tutti i fatti e facendo autocritica”.[26]

Ad Albacete (dove si addestrano i volontari internazionali prima di entrare in battaglia), a Picelli viene affidato il comando di una compagnia. A questo proposito dobbiamo fare riferimento ad una testimonianza di qualche decennio successiva (mentre nella nostra ricostruzione abbiamo preferito, in linea di massima, attenerci a fonti più vicine agli avvenimenti), che viene citata anche dallo stesso Bocchi.

“Per definire il suo incarico militare, – scrive Bocchi – Picelli incontra a Madrid Vladimir Eisner, uno dei comandanti degli Internazionali. Anche se Eisner ha ricevuto disposizioni severe di diffidare di chi ha avuto contatti coi trotskisti e con gli odiati compagni del POUM (…) gli affida il comando del 9° Battaglione delle Brigate Internazionali”[27]. La ricostruzione di Bocchi è imprecisa e incompleta e conferma una certa tendenza dell’autore ad utilizzare le fonti in modo approssimativo, selettivo e quanto meno poco scrupoloso.

Aleksej (non Vladimir) Eissner non era un comandante, bensì l’aiutante del generale Lukacs (Mate Zalka) e riferisce una confidenza di quest’ultimo secondo la quale “purtroppo, mi dicono che egli un tempo ha peccato di trozkismo e sia venuto in Spagna per lavarsi questa macchia. Sebbene io abbia ricevuto istruzioni precise – ve lo dico in estrema confidenza – che proibiscono di fidarsi dei trotzkisti pentiti e di assegnare loro incarichi di comando, ufficialmente io non ne so niente del suo passato di trotzkista. Perciò, d’intesa con Gallo (Luigi Longo, ndr) ho raccomandato a Pacciardi di dargli una compagnia.”

Delle memorie di questo Eissner esistono due versioni, una pubblicata in Spagna nei primi anni ‘70, nella quale non c’è riferimento al presunto “trotskismo” di Picelli, e una uscita a Mosca nel 1990, nella quale risulta riportato questo passo[28]. Chi la cita specifica però che il testo sarebbe stato scritto in “epoca chruscioviana”, quindi tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60[29].

Difficile pronunciarsi sulla sua attendibilità, ma è possibile che effettivamente il comandante della XII Brigata Lukacs/Zalka abbia raccolto delle voci sui sospetti circolati intorno a Picelli. Sono evidentemente  riferiti a quanto avvenuto a Mosca, dato che scrive che sarebbe “venuto in Spagna per lavarsi questa macchia”, quindi non hanno nessun collegamento con i contatti avuti col POUM dato che questi si sono realizzati proprio in Spagna (il riferimento al POUM è un’interpolazione di Bocchi). In ogni caso questa testimonianza ci proverebbe che la decisione di affidare a Picelli un incarico di comando sarebbe avvenuta con la conoscenza e il consenso della principale autorità politica del PCdI presente in quel momento nelle Brigate Internazionali, ovvero Luigi Longo.

Quali sono le ragioni che spingono Picelli a rompere i contatti con il POUM, riavvicinarsi al suo partito e recarsi ad Albacete? Se assumiamo che l’interesse (“il sogno” come scrivono i massimalisti) di Picelli fosse soprattutto quello di dare un contributo militare significativo alla lotta repubblicana, la sua scelta non poteva che essere obbligata.

La colonna internazionale del POUM era entrata in crisi a metà ottobre perché molti internazionali respingevano la decisione dell’inquadramento militare delle milizie, che lo stesso Nin, come membro della Generalitat, aveva approvato. Enrico Russo, il bordighista dissidente che ne è alla testa, decide di lasciare la Spagna e sarà a Parigi tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre e in quei giorni incontrerà proprio Picelli[30]. La “colonna Rosselli” ha anch’essa difficoltà per lo stesso motivo (il processo di militarizzazione) e per i difficili rapporti tra lo stesso Rosselli e la componente anarchica.

Nel frattempo invece le Brigate Internazionali hanno cominciato a strutturarsi, ad acquisire un numero notevole di volontari, compresi quelli italiani e soprattutto entrano a metà novembre sulla linea del fuoco. Le milizie del POUM sono impegnate in un settore che in quel frangente è del tutto secondario nel conflitto (come attesta anche il racconto di George Orwell). La battaglia per la difesa di Madrid dall’assalto delle truppe franchiste è quella dove si gioca la partita decisiva in quelle settimane per il futuro della Repubblica. E’ a Madrid che nasce la leggenda delle Brigate Internazionali. Mettendosi dal punto di vista di Picelli, delle sue convinzioni politico-militari e del suo “sogno”, non c’era altra collocazione in quel momento che tra le fila della Brigata Garibaldi nella battaglia di Madrid. E’ quello scontro ad essere al centro dell’attenzione di tutta Europa e a sollecitare il sentimento di solidarietà degli antifascisti, emozionati  dal “No pasaran!” pronunciato dalla Pasionaria (Dolores Ibarruri).

Picelli, dopo il periodo di addestramento nel quale cerca di impartire la logica militare a centinaia di volontari italiani, lo troviamo impegnato al fronte nella seconda metà di dicembre del 1936. Di questi giorni abbiamo anche gli ultimi testi scritti da Picelli stesso. Il  19 dicembre esce un suo articolo, intitolato  “La Spagna è la trincea dove si difende il pane , la pace, la libertà di tutti”, uscito su “Il Grido del popolo”, settimanale del Partito Comunista stampato a Parigi[31]. Presumibilmente degli stessi giorni è l’ultima lettera alla moglie Paolina, che è rimasta a Parigi, datata 11 dicembre 1936 e pubblicata dall’Unità clandestina dopo la sua scomparsa. Il giornale mette in evidenza il passaggio nel quale Picelli scrive:

“Sì, compagna, bisogna voler bene al nostro Partito e al Paese dove abbiamo trascorsi quattro anni della nostra vita, perché è il più grande paese del proletariato, il paese delle più grandi vittorie rivoluzionarie, che sono le vittorie del mondo intiero. Bisogna difenderlo. Sempre!”.

Formule retoriche ma che allo stato delle nostre conoscenze non possiamo considerare insincere. Così come afferma il suo ottimismo e il desiderio di vittoria che è in tutti i volontari “per le masse lavoratrici di tutti i paesi!”[32].

Esistono varie ricostruzioni sulle giornate cruciali che si chiudono con la tragica morte di Picelli, ma ci atterremo prevalentemente a quella di Luigi Longo, contenute in una relazione scritta a Parigi, in francese, tra l’aprile e l’agosto del 1939. Il testo è poi stato pubblicato in Italia nel 1956 come base del volume “Le brigate internazionali in Spagna”.

A fine dicembre, il comando delle Brigate elabora il seguente piano:

“partendo dalle posizioni di Las Inviernas, tenute da milizie spagnole, occupare di sorpresa Almadrones, Mirabueno e Algora, liberare la strada nazionale di Saragozza fino al chilometro 113 e proseguire in seguito, l’attacco contro il monte di San Cristobal, che dall’alto dei suoi 1888 metri domina tutta la regione circostante, fino a Siguenza. All’operazione devono partecipare i tre battaglioni della XII brigata, una brigata spagnola, due squadroni di cavalleria, una decina di carri armati, una batteria internazionale e una spagnola di artiglieria, alcune squadriglie di aviazione. Tutta l’operazione è posta sotto il comando del generale Lukacs della XII brigata, che viene sostituito al comando di brigata da Pacciardi e questi da Picelli, al comando del battaglione Garibaldi.

I movimenti della truppa devono incominciare il mattino presto di capodanno. La notte di San Silvestro è festeggiata dai volontari nel fervore dei preparativi dell’attacco. La sveglia è alle cinque. Alla destra i francesi dovranno puntare su Algora; al centro, i garibaldini punteranno su Mirabueno; e, alla sinistra, i polacchi si indirizzeranno verso Almadrones. Il cammino da fare prima di arrivare al contatto con il nemico è lungo; il terreno difficile e privo di strade carrozzabili. Bisogna camminare per boschi e campi. Per un buon tratto – per non affaticare i compagni – i lancia bombe, le cassette di munizioni e le mitragliatrici sono trasportate sul dorso dei cavalli. Poi, ognuno deve avanzare trascinandosi dietro il proprio fardello di armi e equipaggiamento.

Dopo alcune ore di marcia, le avanguardie garibaldine vedono profilarsi, a uno o due chilometri davanti, il campanile del paese da conquistare. Alcuni nostri caccia perlustrano il cielo e il terreno, sganciano qualche bomba e scendono a mitragliare i posti fascisti e i loro difensori. Arrivati alla strada Madrid-Saragozza, i garibaldini incontrano le prime resistenze. Avanzano i carri armati repubblicani, seguiti dai nostri arditi guidati da Braccialarghe: dopo brevi raffiche di mitraglia e qualche colpo di cannoncini dei nostri carri, i fascisti abbandonano a gambe levate le posizioni e lasciano via libera ai nostri.

Mirabueno è attaccato di fronte, mentre gruppi di garibaldini avvolgono il villaggio da destra e da sinistra. Dopo meno di un quarto d’ora, il villaggio è completamente in mano nostra: qualche decina di fascisti sono riusciti a salvarsi con la fuga, ma una ventina sono rimasti sul terreno, morti o feriti e una sessantina si dànno prigionieri. Buona parte di questi sono scappati da Almadrones, attaccato dai polacchi per cadere, con i camion che li trasportano, nelle mani dei garibaldini.

Le vie e le case del paese conquistato e circondato sono immediatamente rastrellate (…) tutto il bottino di guerra è incamerato dal battaglione Garibaldi, che diviene così, improvvisamente, molto ricco di armi, di viveri e di mezzi. (…)

Picelli fa subito mettere il villaggio in stato di difesa. Finora tutto è andato ottimamente: gli obbiettivi sono stati raggiunti brillantemente; le perdite si assommano a due feriti leggeri soltanto. Ma ora incominciano i guai. Riappare la aviazione repubblicana. I nostri, dal basso, le fanno festa, agitano armi e berretti, si fanno vedere per le strade e per i campi. Gli aerei girano e rigirano, ma non vedono i segnali convenuti, non pensano che Mirabueno sia già in mano dei repubblicani, perciò, dopo aver esitato un bel po’, scendono a mitragliare il villaggio e gli armati che scorgono sparsi per i campi.

E’ una caccia all’uomo in piena regola. Gli apparecchi repubblicani si abbassano, scivolano raso terra, sgranano i nastri micidiali delle loro mitragliatrici di bordo, s’accaniscono anche sul singolo uomo, inseguendolo per i campi. (…) L’errore compiuto dal comando garibaldino[33] di non avere indicato all’aviazione, nei modi convenuti, il punto raggiunto nell’avanzata, costa una decina di morti e altrettanti feriti; più di tutta la vittoriosa operazione che ha fruttato la conquista del villaggio. (…)

I polacchi hanno incontrato le maggiori difficoltà nella loro avanzata. Il 2 gennaio, con l’appoggio di una brigata spagnola, continuano l’attacco contro Almadrones, Ma i fascisti difendono la strada con nidi di mitragliatrici ben piazzate. Impossibile avanzare. Il maggiore Kochanek, durante la battaglia, sale su un carro armato per incoraggiare i suoi uomini. E’ raggiunto da una raffica di pallottole e ucciso, Il ritardo nell’avanzata polacca mette in pericolo la stessa posizione raggiunta dai garibaldini che hanno il fianco sinistro scoperto. (…)

Il giorno 5 gennaio riprende l’azione offensiva su tutto il settore. Il peso principale cade sul battaglione Dombrowski che deve avanzare verso il monte San Cristobal, il punto più alto del luogo. Il battaglione Garibaldi deve solo appoggiare alla sinistra i polacchi, occupando un’altura il cui possesso assicura loro il fianco e le spalle. Due compagnie garibaldine, sotto il comando diretto di Picelli, assolvono a questo compito.

La marcia d’avvicinamento, fra boschi e avvallamenti, è faticosa, difficile, lenta. I volontari devono trascinarsi dietro il solito pesante fardello. I portatori di armi pesanti e delle cassette di munizioni tribolano nel salire e nello scendere per il terreno impervio, impacciati dai viluppi dei rami e dalle coperte messe a tracolla. L’aria è fredda, il vento sferzante, ma il sudore cola abbondantemente sulla schiena. Si procede tranquillamente per un’ora e più, ma poi, quando incomincia la salita del monte da occupare, si va più cauti, si teme qualche imboscata, non si vuol cadere in bocca al lupo. Non si sa se la cima del colle è occupata o meno dai fascisti.

Guido Picelli procede in testa a tutti, con il fucile in mano, come se andasse a caccia. Già Pacciardi, che segue con Roasio l’operazione, l’ha richiamato, bruscamente, più volte. Il suo posto è quello del comandante, non della pattuglia d’avanguardia, gli spiega. Parole al vento. Picelli acconsente con tutte le ragioni addotte, ma poi continua come prima, per istinto e slancio di combattente generoso, senza nemmeno aver coscienza di disobbedire.

La cima dell’altura è raggiunta senza molte difficoltà. I pochi fascisti che la presidiano sparano qualche colpo di fucile, poi, vista l’importanza delle forze che attaccano, tagliano la corda. I garibaldini si fanno avanti per occupare la posizione. Picelli, naturalmente, è tra loro e subito cerca dove far piazzare le mitragliatrici. Una raffica nemica lo stende a terra fulminato. Picelli è caduto sotto il tiro di una mitragliatrice fascista, piazzata su un costone di fronte, a circa cinquecento metri in linea d’aria. Impossibile, per il momento, ricuperarne il cadavere.

La notizia della morte di Picelli si trasmette subito di gruppo in gruppo e arriva a tutti i garibaldini spiegati lungo le pendici del monte, Picelli non è più! L’annuncio colpisce e lascia incredulo e attonito ognuno.”

Longo ci consegna anche un ritratto più complessivo, umano piuttosto che politico, di Guido Picelli. “Picelli da nemmeno un mese è alla brigata. Ha portato al battaglione Garibaldi il rinforzo dei trecento uomini ch’egli ha inquadrato ed istruito ad Albacete. Ne ha immediatamente conquistato l’animo e la stima, con quel suo fare brusco ed affettuoso nello stesso tempo. Imperioso e militaresco all’apparenza, non riesce però a nascondere una grande comprensione dei sentimenti e delle esigenze dei volontari. Sa far scattare  gli uomini schierati in fila, ma ne sa anche distendere lo spirito con una barzelletta o un rilievo affettuoso. Picelli è il capo energico, beffardo, spericolato che proprio ci vuole in questa guerra. Gli uomini lo capiscono e lo amano; con lui vanno volentieri all’assalto.”[34]

Una testimonianza più diretta degli ultimi istanti di Guido Picelli è quella che ci ha consegnato il garibaldino Anacleto Boccalatte scrivendo, nel gennaio 1938, un ricordo del suo comandante su “Il Volontario della Libertà”, organo della XII Brigata Internazionale. Era il giornale destinato ai combattenti italiani presenti in Spagna.

“Il 4 gennaio riprendemmo l’avanzata. Assieme al Battaglione polacco, marciammo alla conquista del Monte di San Cristobal. Su una piccola altura (El Matoral, ndr) – dopo qualche chilometro di marcia – sorprendemmo una compagnia di fascisti che si rifugiò nelle trincee costruite sulla cresta. Pacciardi ordinò al grosso delle truppe di fermarsi mentre la nostra prima sezione si trovava in un posto avanzato. Brevi secondi di riflessione: dovevamo proseguire o ritirarci? Noi ci trovavamo in basso, se il nemico fosse arrivato prima di noi sulle alture delle colline ci avrebbe falciati tutti con il fuoco delle sue mitragliatrici. Decidemmo di proseguire, costasse quello che costasse. A marcia forzata, ci slanciammo all’attacco, ed inviammo un agente di collegamento a Pacciardi per dirgli che facesse proseguire il grosso della truppa. Così fu fatto, Picelli, coraggioso e gagliardo come sempre, alla testa dei militi della nostra compagnia, ci guidava all’attacco…Fu lui che ci fece rimarcare che su una cresta che dominava una parte delle alture dove ci trovavamo, vi era un nido di mitragliatrici. Dette subito l’ordine di piazzare una mitragliatrice pesante per non essere preso ai fianchi. Io e Picelli con tre o quattro volontari andammo a piazzare la mitragliatrice. Ma prima che ci raggiungesse il grosso della compagnia fummo scoperti e fatti segno a scariche nemiche. Picelli cadde colpito a morte. Accorsero i porta-feriti, ma le scariche di mitragliatrice impedirono il trasporto del nostro capitano. Fummo costretti a metterlo nella barella ed attendere la notte per trasportare la sua salma. Così cadde Guido Picelli, eroe purissimo”[35].

La tragica fine di Picelli verrà riportata da tutta la stampa madrilena repubblicana. E’ Nicoletti (ovvero Giuseppe Di Vittorio) a comunicare la morte di Picelli, comandante militare della prima compagnia del battaglione Garibaldi. Il “Diari de Barcelona”, quotidiano di Estat Català (una formazione politica catalanista radicale), riprende il comunicato intitolandolo: “La morte di Guido Picelli, eroe della difesa di Parma.” Nicoletti/Di Vittorio ricorda che Picelli è “un vecchio militante della classe operaia italiana”, scolpito nella memoria dei lavoratori italiani soprattutto per la difesa di Parma, quando “l’eroica popolazione trincerata in un quartiere popolare, l’Oltre Torrente riesce a resistere agli assalti nemici, dando al popolo italiano più forza e più coraggio in una lotta che era già perduta da parte del proletariato”.

Sarà un altro dirigente di primo piano del Partito Comunista ha diffondere alcuni giorni dopo un giudizio più politico della figura del comunista parmigiano. “Il testamento politico di Guido Picelli – scrive Grieco – è nell’esperienza stessa della sua vita. Questa esperienza dice: la spontaneità, lo spirito di azione dei combattenti per la libertà, vanno disciplinati e diretti. Guido Picelli è caduto nel fronte spagnolo della libertà, come cade un soldato disciplinato del Partito Comunista d’Italia”. E’ evidente che in questa lettura di Grieco viene fortemente sottolineato l’elemento della disciplina che deve guidare la spontaneità, un messaggio che in quel contesto spagnolo vuole che risuoni molto chiaro.

Passeranno alcune settimane prima che si possa procedere ai funerali di Picelli. Vi saranno ben tre commemorazioni: a Madrid, nelle cui vicinanze era morto combattendo, a Valencia dove aveva sede il governo repubblicano e poi il vero e proprio corteo funebre a Barcellona.

Quest’ultima cerimonia, che vide una grande partecipazione popolare, ebbe inizio alle tre e mezza del pomeriggio, partendo dal Casal “Carlos Marx”, in Avenida Pi y Margall. La marcia era aperta da una sezione delle Gioventù Socialiste Unificate del “Cuartel de Sarrià” seguita dalla banda di trombe e tamburi della stessa organizzazione. Venivano poi le corone di fiori che erano state esposte nella camera ardente che aveva ospitato la salma di Picelli. Il feretro era coperto da una grande bandiera del Battaglione “Garibaldi” dietro al quale si trovavano le autorità politiche, la vedova di Picelli e il console sovietico. Chiudevano il corteo le bande del Cuartel Carlos Marx e del Partido Federal Iberico. La comitiva partita dal Casal Carlos Marx si era diretta, attraverso la Plaza de Catalunya e le Ramblas fino al CADCI, il Centre Autonomista de Dependents del Comerç i de la Indústria de Barcelona (CADCI) de la UGT, dove il corteo è sciolto e la salma è stata accompagnata al cimitero.

Nella sede del CADCI si terrà un anno dopo un meeting commemorativo presieduto Bruno Sartironi del Club Internacional Antifascista. Intervennero rappresentanti del PC Italiano e di quello spagnolo, rappresentanti di varie organizzazioni di solidarietà, un esponente delle Brigate internazionale (probabilmente Gallo, ovvero Luigi Longo) ed anche il “vecchio amico” Massimo Masetti a nome del Partito Socialista Italiano.[36]

Masetti era stato, all’inizio degli anni ’20,  segretario della federazione socialista di Parma e a Picelli dedicherà un articolo di ricordo sul giornale comunista “Frente Rojo” dell’8 gennaio 1938, a un anno dalla sua “morte eroica” per la libertà della Spagna repubblicana. Anche l’anarchico Antonio Cieri aveva pubblicato un articolo in memoria di Picelli, il 28 marzo 1937, sul “Grido del popolo”, settimanale comunista stampato in Francia.

D’Onofrio e Pavanin scriveranno nel loro rapporto biografico riservato del 1940:

“La sua condotta in Spagna è stata buona. Picelli aveva buone qualità militari, una grande volontà e amore per le cose militari e ha sempre cercato di fare del suo meglio. Ma le sue conoscenze militari erano soggette al suo temperamento di partigiano impulsivo e temerario. Era amato dai soldati tanto quanto era stato amato dai cittadini di Parma quando ne era stato il tribuno. Dal punto di vista politico, Picelli era debole, ciò che faceva era dovuto soprattutto ai suoi sentimenti e alla sua impulsività di tribuno popolare. Questo spiega gli errori che ha commesso. Picelli è morto come ha combattuto, di fronte al nemico”[37].

[1] Ferrari, Franco, Un intervento inedito di Guido Picelli al Comintern http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=49304

[2] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245.

[3] Questa tesi è sostenuta da un informatore dell’ambasciata italiana a Mosca, Luigi Tolentino, citato in Sicuri, Fiorenzo, Il guerriero della rivoluzione, Uni.Nova, Parma, 2010, p. 250.

[4] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245

[5] Guido Picelli, La mia divisa, a cura di W. Gambetta, BFS edizioni, Ghezzano (PI), 2021, 141-142.

[6] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245.

[7] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245.

[8] Avanti!, edizione di Parigi, del 17 gennaio 1937.

[9] Bocchi, Giancarlo, Il ribelle. Guido Picelli una vita da rivoluzionario, International Media Productions, 2013, p. 106.

[10] Dundovich Elena, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, https://www.comune.parma.it/dizionarioparmigiani/cms_controls/printNode.aspx?idNode=374

[11] Leonetti Luparini, Clotilde, Roberto Anderson, un idealista nel paese dei Soviet, 2005 (senza altre indicazioni), p.57.

[12] Landi, Gianpiero (a cura di), La fine del socialismo? Francesco Saverio Merlino e l’anarchia possibile, Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti, 2010, p. 210n.

[13] Avanti!, 14 febbraio 1937.

[14] Francescangeli, Eros, L’incudine e il martello, Morlacchi Editore, Perugia, 2005.

[15] Sozzi, Sigfrido, Il Partito Socialista Italiano Massimalista in esilio ed Elmo Simoncini (Dino Mariani), pp. 186-333 in Antifascisti romagnoli in esilio, La Nuova Italia, Firenze, 1983.

[16] Durgan, Andrew Charles, BOC 1930-1936. El Bloque Obrero y Campesino, Laertes, Barcelona, 1996.

[17] Alba, Victor, Histoire du POUM, Champ Libre, Paris, 1975.

[18] ACS, CPC, appunto n. 500/32938 del 13 novembre 2016.

[19] Canali, Giulia, L’antifascismo italiano e la guerra civile spagnola, Manni, San Cesario Lecce, 2004.

[20] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245, Picelli Guido (Italien), 21.8.1940, Edo (Edoardo D’Onofrio), Pavanin (Cesare).

[21] Sozzi, Sigfrido, Il Partito Socialista Italiano Massimalista in esilio ed Elmo Simoncini (Dino Mariani), p. 280 in Antifascisti romagnoli in esilio, La Nuova Italia, Firenze, 1983.

[22] Sicuri, Fiorenzo, Il guerriero della rivoluzione, Uni.Nova, Parma, 2010, p. 256.

[23] Bocchi, Giancarlo, Il ribelle. Guido Picelli una vita da rivoluzionario, International Media Productions, 2013, p. 112.

[24] Ringrazio Fiorenzo Sicuri per avermi segnalato questa pubblicazione.

[25] Dundovich Elena, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, https://www.comune.parma.it/dizionarioparmigiani/cms_controls/printNode.aspx?idNode=374

[26] Dundovich Elena, Storia di ieri: Gli anni di Guido Picelli in Unione Sovietica, https://www.comune.parma.it/dizionarioparmigiani/cms_controls/printNode.aspx?idNode=374

[27] Bocchi, Giancarlo, Il ribelle. Guido Picelli una vita da rivoluzionario, International Media Productions, 2013, p. 112.

[28] Sicuri, Fiorenzo, Il guerriero della rivoluzione, Uni.Nova, Parma, 2010, p. 258.

[29] Kolpakidi, Aleksander, La barricata spagnola (1936-1939), pp. 145-146, in Bertelli Sergio, Bigazzi, Francesco, PCI. La storia dimenticata, Mondadori, Milano, 2001.

[30] Giliani, Francesco, Cercando la rivoluzione. Vita di Antonio Russo, un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973), RedStar Press, Roma, 2019, pp. 98-99.

[31] Sicuri, Fiorenzo, Il guerriero della rivoluzione, Uni.Nova, Parma, 2010, p. 263n.

[32] L’Unità, n. 2, 1937. Questa lettera si conclude con la frase “Saluti a Lusignoli e a tutti i parmensi”. Si tratta presumibilmente dello stesso Lusignoli che fu suo segretario quando Picelli era deputato (ne parla Regolo Negri nella sua testimonianza pubblicata in Guido Picelli (a cura di Sicuri, Fiorenzo), Centro di documentazione Remo Polizzi, Parma, 1987, p. 96. Un passaggio che Bocchi in un suo articolo sull’Espresso del 3 ottobre 2008 interpreta come un possibile “messaggio in codice”.

[33] Nel rapporto riservato sulla sua presenza nel Battaglione Garibaldi, Roasio, che sfugge per poco ai colpi di mitragliatrice di un aereo repubblicano, attribuisce la responsabilità a Picelli, che era a conoscenza del segnale convenuto. Questa responsabilità viene riconosciuta anche da Giorgio Braccialarghe, che la motiverà con la velocità inaspettata dell’avanzata dei garibaldini. Sia Longo che Roasio, nei loro libri, omettono il riferimento a Picelli. Si veda il libro di Cuppini, Marco, Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, Udine che a pagina 67, confronta la versione di Roasio contenuta nella sua relazione “Organizzazione del Battaglione Garibaldi” e quella di Braccialarghe contenuta nel suo libro Diario spagnolo, SEGE, Roma, p. 135 e l’autobiografia di Roasio, Antonio, Figlio della classe operaia, Vangelista, Milano, 1977, p. 130.

[34] Longo, Luigi, Le Brigate Internazionali in Spagna, Editori Riuniti, Roma, 1956, pp-183-190.

[35] Sicuri, Fiorenzo, “Cosi vidi morire Picelli. Un testimone oculare: “L’eroe cadde mentre guidava un attacco”, Gazzetta di Parma. A mia conoscenza esistono altre tre testimonianze dirette della morte di Picelli, raccolte in momenti e occasioni diverse e comunque successivi a quella di Boccalatte. Quelle di Achille Benecchi (detto “Frisé”), Giovanni Bruno Passeri e Alcide Leonardi.

[36] Queste informazioni sono tratte dall’archivio digitale de “Diari de Barcelona” e del “Noticiero Universal”

[37] RGASPI, f. 495, op. 221, d. 1245, Picelli Guido (Italien), 21.8.1940, Edo (Edoardo D’Onofrio), Pavanin (Cesare).