di Salvo Taranto
Non esiste comunità senza cultura condivisa e quando la cultura è debole, è debole anche il nostro modo di essere comunità. Quando la cultura non giunge agli occhi e alle orecchie di noi cittadini, quando non accoglie e nutre i sentimenti che avvertiamo nell’abitare il nostro quartiere, la nostra città, quella cultura ha il fiato corto, è monca, impalpabile.
Essere di Parma, per nascita o per scelta, è un privilegio: significa poter cogliere ogni giorno la bellezza ovunque, attraverso i nostri sensi. È cultura ciò che vediamo, respiriamo e tocchiamo grazie al nostro meraviglioso centro storico, ai parchi, ai musei (il nostro patrimonio storico, artistico e ambientale); è cultura quel che ascoltiamo (la nostra tradizione musicale e lirica); è cultura quello che assaporiamo con la nostra bocca (il nostro straordinario tesoro enogastronomico). La cultura, a Parma, è quindi una ricchezza della collettività, qualcosa di tangibile e concreto che permea la nostra quotidianità: è per questa ragione che deve trasformarsi nel mattone con il quale costruire il nostro senso di appartenenza, il nostro essere comunità, essere cittadini di Parma.
Non esiste comunità senza una cultura condivisa, vuol dire che il modello culturale che iniettiamo nel tessuto sociale di una città incide sulla capacità di una comunità di attingere dalla cultura stessa per creare pluralità, benessere, apertura al dialogo e alle differenze. Se i rami in cui è appesa la cultura sono troppo alti, se nessuno può o vuole raccoglierla per metterla a disposizione degli altri, i suoi frutti cadono e marciscono. Sul frontone del Teatro Massimo di Palermo campeggia un’epigrafe che può essere d’ispirazione anche per Parma: “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita”. L’arte, la cultura, la bellezza sono le bussole del cambiamento. Ci indicano la via in tempi incerti e squassati come il nostro in cui le comunità hanno bisogno di reimpostare la rotta, di ritrovarsi, di trovare nuovi modi di stare insieme.
La cultura che serve a Parma non è un feticcio, un brand da sventolare con nostalgica supponenza, un bene che appartiene a pochi. Abbiamo bisogno di un’interpretazione nuova e differente dell’essere e fare cultura: una cultura che non mira alla conservazione ma al rinnovamento, che promuove e produce inclusione sociale, educazione alla bellezza. Una cultura che sa volare altissimo, ma anche sporcarsi le mani.
Nelle stesse potenzialità e punti di forza della cultura parmigiana (incredibili, ma altrettanto innegabili) si trovano le criticità che qualunque produttore e promotore di cultura è in grado, purtroppo, di osservare e rilevare. La prima di queste è la tendenza a operare secondo la logica dei compartimenti stagni. Si fa un genere di cultura che non comunica con altra cultura, depotenziando così l’effetto di quanto si produce. Tranne rare eccezioni, i vari insiemi culturali non si toccano: ambientalismo, contrasto alla violenza di genere, antifascismo, antimafia, conquista dei diritti civili, lotta sindacale, ecc.: tutti da soli, appassionatamente, a volte anche poco interessati, se non per nulla, a estendere le proprie fila, a far giungere il proprio messaggio al più vasto numero di persone.
Un’altra criticità è l’autoreferenzialità che caratterizza molti degli attori culturali, la loro incapacità o disinteresse riguardo al creare cultura per gli altri. Si fa cultura nella speranza di meritare un articolo sulla Gazzetta, forse, non per il desiderio di esprimersi, prendere posizione, affermare una visione di città: non perché la cultura parli e neppure perché si parli di cultura, ma solamente affinché si parli di sé stessi. Questo non è affatto cultura. È gratificazione personale, ostentazione, vanità: un passatempo sterile e sciocco, il giochino dei soliti nomi del panorama locale che, in una perversa e asfissiante alleanza per impedire una rigenerazione della cultura parmigiana, sguazzano nelle pozzanghere di una città innamorata dei monopoli.
Infine, l’altra grande criticità è l’assenza di luoghi di condivisione e produzione della cultura dal basso: un elemento che è strettamente connesso alle difficoltà di tutelare la “biodiversità culturale”. Dove possono fare cultura gli outsider, gli esclusi dal sistema? Dove possono fare musica, teatro, ecc.? Dove possono andare in scena, esibirsi, mostrare le proprie opere? Senza la presenza di spazi parrocchiali e di centri giovani, sarebbe quasi il deserto. Mancano nei quartieri dei luoghi in cui si scoprano e valorizzino i talenti, in cui affrancare i dimenticati da un destino già segnato di povertà affettiva, educativa, economica: dall’assenza di avvenire.
Le politiche giovanili sono cultura. Il contrasto al degrado è cultura. La risposta al fenomeno delle baby gang e dello spaccio è cultura e non soltanto una questione di ordine pubblico, di dispiegamento di forze dell’ordine. Tutto è cultura. E la cultura, quella vera, appartiene al popolo, perché la sua ragion d’essere è seminare speranza, opportunità, bellezza ovunque, partendo dai luoghi in cui queste parole non si possono neppure pronunciare. Seminare, seminare e seminare soprattutto nelle periferie, se non vogliamo raccogliere la tempesta, la violenza, l’assenza totale di condivisione e rispetto delle regole civili. Coltivare la cultura, in sintesi, per rafforzare il senso di partecipazione, solidarietà e responsabilità della cittadinanza, per rigenerare il territorio, la vita e l’abitare delle persone. Una cultura, pubblica e democratica, che non contribuisce a scavare il solco tra il centro e le periferie, tra le classi sociali, tra parmigiani tradizionali e nuovi parmigiani. Una cultura che contrasta le disuguaglianze e il degrado, che permette alla comunità di immaginarsi ed essere migliore non di altri, ma rispetto a ciò che è adesso.
Si può fare e, per farlo, servono risorse economiche, perché la cultura ha bisogno di sostegni finanziari e va rispedita al mittente l’idea malsana per la quale chi fa cultura debba vivere di pacche sulle spalle e complimenti. È doveroso sostenere le associazioni, le librerie, le biblioteche, le gallerie d’arte, le compagnie teatrali, i collettivi artistici che, spesso rimanendo invisibili, non rendono piatto l’encefalogramma della cultura locale. Ciò implica che, in uno scenario in cui le risorse economiche sono sempre esigue, un’amministrazione comunale scelga le priorità con attenzione, magari preferendo al rombo delle auto d’epoca che scorrazzano in un parco il silenzio fecondo della cultura, che riscatta e prende per mano chi è più fragile e vulnerabile, chi è considerato uno scarto.
Cosa rimane di Parma Capitale italiana della cultura? Molto poco, purtroppo. E non perché vi sia stata incompetenza o scarsa dedizione, ma perché è mancato soprattutto il ruolo del pubblico come cabina di regia, pianificatore e aggregatore di cultura. Si è puntato sulla quantità degli eventi e non sul portare la cultura dove non si è mai vista: è da questa angolazione che Parma 2020+21, per quanto attanagliata dall’impatto della pandemia, appare deludente. Un’occasione mancata per fare di Parma qualcosa di diverso, di unico.
Occorre cambiare paradigma: Parma ha bisogno di rinnovarsi tramite una cultura diffusa al servizio dei cittadini, in grado di presidiare gli spazi e il futuro. È necessario avere fantasia, riappropriarsi simbolicamente anche di luoghi che rappresentano stagioni politiche che vorremmo definitivamente metterci alle spalle: aprire il Ponte Nord non soltanto in occasione di iniziative esclusive e, così come per il Teatro dei dialetti, metterlo a disposizione di chi fa cultura e non ha una propria casa. Ogni quartiere, soprattutto quelli che spesso vengono descritti come terre di nessuno, devono avere dei luoghi in cui tutti, dai giovani agli anziani, possono produrre cultura e fruire della cultura, perché è anche così che si costruisce una società per tutte le età, una città non di diversi ma una città diversa. Certo, per fare cultura in una città come Parma servono i grandi eventi (mostre, concerti, ecc.) in grado di richiamare visitatori, ma la vera priorità è restituire la cultura ai cittadini, creare un modello di cultura che faccia di Parma l’attrazione, che genera e distribuisce bellezza intorno a quella ereditata dal passato.
Le strade del centro vanno restituite alla convivialità, al piacere di camminarci, devono essere vive, suonare: non è più possibile ricoprirsi di ridicolo con le multe inflitte ai musicisti di strada. Piazzale della Pace, piazza Ghiaia, i nostri parchi possono e devono divenire luoghi in cui dagli artisti di strada agli studenti del conservatorio, chiunque possa esibirsi, fare musica, teatro, performance grazie a uno spontaneismo virtuoso, alimentato dall’alto, da chi amministra. Ma soprattutto è nelle cosiddette periferie che è urgente trasformare la cultura in alternativa al nulla, in antidoto al disagio: è tra il cemento che devono fiorire le rose. Questo è cultura, questa è la cultura da condividere, la cultura alla quale dare e fare spazio.