Tanzi e la Parmalat, storia di un paradosso

di Marco Severo

C’è una cosa che forse nessuno ha mai detto a proposito di Calisto Tanzi, morto il primo gennaio scorso all’età di 83 anni. E visto che potrebbe essere la prima volta, meglio essere cauti e porla in forma di dubbio, di ipotesi, così da non allarmare i colpevolisti, i complottisti, il popolo-del-no e i terrapiattisti. E se Calisto Tanzi oltre che mandarla in bancarotta l’avesse anche salvata, la Parmalat?

Non si tratta della fisiologica tendenza alla riabilitazione, se non alla santificazione, dell’uomo pubblico appena scomparso. Anche perché la fazione degli innocentisti ha riscosso successo da sempre, almeno a Parma e Collecchio, fra quanti conobbero l’imprenditore, tra le pie donne e i chierichetti e persino tra gli operai della Parmalat. Dunque non c’entra “l’onda emotiva”, che poi neanche è stata molto onda quanto piuttosto increspatura, stanca risacca, sia alla notizia della scomparsa sia nel giorno dei funerali. C’entra, invece, l’enormità incongrua dell’opera di Calisto Tanzi che, se non fosse irrevocabilmente assurta a dramma epocale, potrebbe con qualche azzardo essere rivalutata nei suoi risvolti più imprevedibili.

Già quando nel 1961 schiodò l’insegna “Calisto Tanzi & figli” dalla bottega di via Grassi 26, a Collecchio, fondata dal nonno e suo omonimo, il 22enne ragioniere saldò in modo indissolubile l’assurdo e il genio, la spregiudicatezza con l’ingenuità più rischiosa. Al posto del negozio di famiglia che vendeva salumi ora c’era la piccola sede della “Dietalat”, la nuova invenzione, un’impresa commerciale che avrebbe imbottigliato latte. Una mezza follia, insomma. O una straordinaria intuizione. All’epoca il latte era distribuito per legge dalle centrali comunali essendo concepito come un bene assimilabile a un servizio pubblico, un po’ come l’erogazione di gas, luce e acqua. Quali attese poteva mai nutrire, pertanto, il giovane imprenditore? Diventare ricco in un settore blindato? E con che margini di crescita, con quali investimenti? Il latte era latte, mica materiale di lusso.

A questi punti di domanda, in effetti, la fulminante avanzata di Tanzi resterà impigliata nonostante i trionfi messi in fila nei decenni. Nel 1961 la miccia iniziò la corsa e arse rapidamente, bruciò con gioiosa intensità, avanzò con trionfante progressione fino al grande botto. Fino al crac del 2003. Si dipanarono così gli anni della dissimulazione: il genio occultò l’assurdo, la spregiudicatezza parve supplire all’ingenuità di fondo. Si rammentano, in ordine, l’introduzione del Tetra Pack e quella del nuovo sistema di “processamento” Uht, cioè la lunga conservazione (combinate con la liberalizzazione del mercato del latte) oltre all’amicizia stretta da Tanzi con Domenico Barili, talento del marketing che mandò in orbita mondiale il marchio di Collecchio attraverso le sponsorizzazioni nello sci e nella Formula uno: Niki Lauda col berretto Parmalat resterà un’icona.

I giornali titolavano sui fatturati strepitosi, saliti dai 300 milioni della Dietalat ai 350 miliardi di lire della “Parmalat”, nuovo nome dell’azienda, negli anni Ottanta. E quando il difetto congenito – la scarsa redditività, nonostante i fatturati – tornava a dare qualche palpitazione la cura veniva trovata nei prestiti bancari, agevolati dal vincolo stretto che univa le banche alla politica e ai partiti, specialmente alla Democrazia cristiana: il partito di Calisto Tanzi. Motivo per cui si parlò della Parmalat come di capitalismo senza capitali. Che insomma non è proprio una battuta di spirito.

Prestito e debito. Debito e prestito. Inizia qui, tra i coriandoli e lo champagne degli anni Ottanta, lo scollinamento verso il traguardo drammatico, prima con il ricorso compulsivo alle obbligazioni bancarie e poi con il passaggio all’illecito, insieme al disvelarsi del miscuglio di ingegno e cialtroneria. L’apoteosi della truffa venne notoriamente raggiunta nel 2003 negli uffici di via Grassi, dove tutto era iniziato, con le forbici e la colla usate per la falsificazione dei documenti intestati Bank of America, quelli dei 3,9 miliardi di euro in teoria di proprietà della Bonlat financing corporation, una società con sede nelle isole Cayman nei Caraibi.

“Dove diavolo puntava? Come poteva illudersi d’un epilogo morbido? Quesiti insolubili” scrisse di Tanzi Franco Cordero, editorialista di Repubblica. L’epilogo fu una condanna a oltre 17 anni per bancarotta fraudolenta, pena che l’anziano e ormai malato imprenditore ha praticamente scontato ai domiciliari, nella sua bella villa di Alberi. “Come ci siamo spiegati questo doppio atteggiamento di Tanzi? A mio parere non c’è spiegazione, ho provato tante volte a indagarne le ragioni, alla fine però ho rinunciato” disse similmente Enrico Barbuti, Rsu per la Flai-Cgil già ai tempi del crac finanziario, il perno su cui s’incardinò il sistema di salvataggio dell’azienda nel 2003. E Antonio Mattioli, all’epoca segretario Flai-Cgil, indole da battaglia e un passato nel Partito di unità proletaria, spiegò che “certo Tanzi non era Pietro Barilla, il quale si recava di frequente in visita negli stabilimenti, che conosceva nome, cognome e data di nascita di tutti i lavoratori. Però era qualcosa di simile. A Collecchio, il modello era quello del padre-padrone che risolve i problemi di famiglia quando c’è bisogno di lavoro. Parmalat, per dire, non faceva scioperi da dieci o quindici anni”.

Tanzi impersonava un determinato paradigma di imprenditore, quello del facoltoso padrone che per certi aspetti resta “uno di noi” e che, così facendo, diventa un simbolico punto di congiunzione fra il territorio e la gente che lo abita. Nonostante i successi e la fatuità degli scenari attraversati Calisto Tanzi non corrispose mai al cliché dell’emiliano definibile con le “tre esse di soldi, sesso e sampagne” (Natalia Aspesi). L’insegna del nonno “Calisto Tanzi & figli” la volle ricollocare sotto quella della Parmalat, quale manifesto dei valori più cari. A capo dell’azienda planetaria – che nel 2003 arriverà a contare 132 stabilimenti in tre continenti – mise pochi e fidati uomini, ad esempio Luciano Silingardi suo compagno delle scuole superiori. “Uomo casa chiesa e latte” lo definì il Wall Street Journal. “Il vescovo di Parmalat” lo chiamò Giampaolo Pansa che lo descrisse come “un prete. Un bel prete”.

A Collecchio l’impronta domestica dello stile padronale si traduceva nell’identificazione con la fabbrica ed era tutt’uno con l’ammirazione per il fondatore. Circostanza che, esplicitandosi in buone pratiche di gestione delle relazioni sindacali, faceva del lavoro operaio una sorta di mestiere di bottega quanto al senso di appartenenza. Nel 2013 Paolo Aceto, direttore del personale agli ordini di Enrico Bondi, osservò: “Senz’altro nel salvataggio dell’azienda ebbe un peso la tradizione sociale ed economica del territorio, ma credo che questo non basti per spiegare tutto, credo che ci fosse qualcosa di più, qualcosa che veniva prima del territorio”.

Il legame con il proprietario e con l’azienda, l’abitudine a condividere alcuni processi decisionali composero un repertorio di competenze che risultò determinante nelle settimane di emergenza, tra il 2003 e il 2004. Non vi fu allora un solo dipendente a Collecchio che pensò di delegare a qualcun altro il salvataggio della Parmalat. E di fatto le linee non si fermarono mai, né a Collecchio né altrove in Italia. Barbuti e Mattioli, tra gli altri, scommisero con Enrico Bondi che la produzione sarebbe andata avanti. La gente veniva fuori dalla fabbrica per applaudire l’arrivo delle autocisterne e le forniture. In questo strano modo, un’impresa che secondo le leggi del mercato sarebbe dovuta fallire, invece sopravvisse. Si disse, anche, che la faccenda era troppo grossa per finire con un fallimento. L’agire complessivo di Tanzi e il suo lascito valoriale in pratica furono così dannosi ma anche così rocamboleschi da confondere e far saltare il tavolo e, in ultimo, contravvenire alle regole fino al paradosso.

Nell’accumulo scombinato di esperienze e simbologie della vita pubblica di Calisto Tanzi c’è tutto questo. Ci sono insieme la modestia e una grande ambizione; il candore e il mistero (il viaggio a Quito, Ecuador, il 22 dicembre 2003 a due giorni dal crac); la mondanità dei successi con il Parma calcio e la frugalità della santa messa ad Alberi; Ciriaco De Mita e la spesa settimanale alla Conad Campus; le gravi condanne penali e Odeon Tv detta “Telebontà” (“Vorrei trovare un creativo che mi aiutasse a fare un Dallas al contrario” disse a suo tempo l’imprenditore, giudicando “diseducative” le trame dello sceneggiato e ritenendo che ci fosse bisogno di “storie di gente che si prodiga per gli altri”); la diffidenza (presunta) che lo attorniava a Parma in principio, in quanto parvenu della provincia, e la successiva riverenza per aver portato il nome della città al successo mondiale, e poi, in ultimo, il cinico sdegno e la ripulsa calcolata.

In questo affannoso, e anche goffo fare e disfare, in questo entusiastico ma nefasto dare seguito alle brame di successo, Calisto Tanzi ha causato afflizione in molte persone, a cominciare dalle migliaia di modesti investitori che credettero nella bontà del marchio Parmalat nel listino di Borsa. Egli deluse e tradì. O più semplicemente illuse. Il latte era latte. Mica c’era da ricamarci sopra. “Dove diavolo puntava?”.

Ma la tenue risacca che invece della solita “onda emotiva” si è generata alla notizia della sua morte, quantomeno a Parma e a Collecchio, porta con sé un’ennesima domanda fra le tante che hanno contrappuntato la vicenda di Tanzi. Meglio porla in forma di dubbio, di ipotesi. E se il miracolo del latte, il salvataggio di tanti posti di lavoro dal crac finanziario, fosse stato possibile grazie al capitalismo spurio che aveva causato l’iniziale sfacelo?