Amazon, parla un lavoratore dell’hub di Piacenza: “Precarietà e umiliazioni”

da Fridays For Future Parma

Ieri è avvenuto il primo sciopero nella storia di Amazon Italia. Ed è stata una protesta con un’adesione altissima: i sindacati confederali parlano del 75%, con punte del 90 in alcuni territori. Come Fridays For Future condividiamo l’obiettivo di fermare la macchina per prendere fiato, dopo un anno caratterizzato da un incremento della domanda gestita dalla piattaforma digitale, senza che ci siano stati adeguamenti contrattuali e miglioramenti delle condizioni di lavoro. Durante il lockdown, realtà come Amazon hanno aumentato molto i loro profitti: solo nel quarto trimestre del 2020 ha totalizzato 125,56 miliardi di dollari di fatturato, 4,5 miliardi di pacchi consegnati durante tutto l’anno con circa 20 mila furgoni.

Ma cosa nasconde il colosso dell’e-commerce e quanto può risultare vantaggioso orientare i propri consumi a favore di tale azienda? Abbiamo avuto modo di parlare con un lavoratore dell’hub Amazon di Piacenza (che preferisce mantenere l’anonimato, ndr), che ha accettato di spiegarci le condizioni di lavoro cui sono sottoposti i dipendenti. Parliamo di precariato e annullamento dell’elemento umano che, insieme all’incredibile e sconsiderato utilizzo di materiali per i vari processi di imballaggio, costituiscono la base su cui fioriscono i profitti di questa azienda.

Qual è il tuo ruolo dentro Amazon? Di cosa ti occupi?
«All’interno di Amazon vengono svolti quattro processi: si parte dal ricevimento, si passa allo stoccaggio delle merci, seguito dal picking e, infine, il packing (imballaggio). Io mi occupo del picking, ovvero prelevare la merce dagli scaffali, caricarla su una cesta e metterla sul conveyor (un rullo trasportatore), che porta il prodotto selezionato verso l’impacchettamento. È un lavoro ripetitivo: gestito dagli scan che registriamo, da quando timbriamo all’inizio del lavoro, scegliamo la mansione e scannerizziamo il nostro badge che è dotato di un codice a barre, cioè il nostro numero identificativo. Quindi quando cominciamo il nostro turno, scannerizzando il nostro badge, diventiamo un numero che si muove all’interno delle celle. Il magazzino ha una superficie pari a 12 campi da calcio, una dimensione che difficilmente si riesce a immaginare, suddiviso in 4 piani. Noi picker ci muoviamo su 4 celle e non abbiamo una posizione fissa, lo scanner ci dice dove andare a lavorare».

In che modo influisce su un lavoratore il fatto di essere continuamente monitorati?
«Il lavoro si svolge su turni di 8 ore, con pausa generalmente di 30 minuti (durante la pandemia sono diventati 35) per evitare che turni diversi si incontrino durante l’uscita alla pausa. Lo scanner è un modo per monitorarci, vedere i nostri movimenti e la velocità con la quale lavoriamo. Grazie a questo scanner siamo monitorati per tutte le ore di lavoro, sanno la nostra percentuale di picking, sanno quanto velocemente preleviamo. A quanto dicono, il loro standard dovrebbe essere di 100 articoli l’ora. In una cella che è alta 4 scaffali e ha una lunghezza da percorrere anche di 200 metri tra un articolo e l’altro, mantenere la media di 100 articoli prelevati l’ora diventa molto difficile. Inoltre mentre lavori loro sanno quando prelevi, così che il lavoratore si faccia dei problemi pure per andare in bagno. Alle volte, infatti, i servizi possono trovarsi a 10 minuti dal posto dove sei, quindi anche in caso di necessità devi valutare se andare o meno. Questa è la pressione che riceviamo, totalmente assurda».

Quindi il clima non è tra i più sereni.
«Questa domanda è delicata. Il clima diventa sereno dal momento in cui tu lavori, prelevi i tuoi articoli e non fai domande, se non in merito al lavoro ovviamente. Sbagliare rallenta la produttività, così come rallentarla incide negativamente sul lavoro dei tuoi supervisori, cosa che ti viene ovviamente fatta pesare. Personalmente, durante il primo giorno di lavoro, un errore su cui si potrebbe sorvolare se una persona ha appena cominciato, mi è stato fatto pesare eccessivamente, quasi mortificandomi. Se lavori con la paura di sbagliare lavori male, perché sai che se sbagli rischi di essere umiliato».

Addirittura umiliato?
«Parlo sempre per esperienza personale, poiché sono stato incolpato di essere stato un’ora in pausa. Quando fai lavori del genere, ti devi attenere al ritmo del “passo Amazon”. Se ciò non accade, sicuramente viene notificato ai tuoi supervisori. Andando in bagno a ridosso della pausa, contando il tempo per raggiungere lo spazio dedito alla pausa (ripeto, gli spazi sono davvero grandi), ho fatto il mio primo pick con una decina di minuti di ritardo. Sono stato ripreso e molto probabilmente ho ricevuto un feedback negativo. All’interno di Amazon ci sono delle gerarchie rigide e i lavoratori verdi (a tempo determinato, mentre i lavoratori blu sono a tempo indeterminato) sono sicuramente sono gli ultimi del carro».

Per quello che riguarda i ritmi da mantenere come prestazione lavorativa, quali sono le conseguenze se non si riesce a mantenere tali standard?
«Il magazzino Amazon di Piacenza credo sia il magazzino più grande d’Italia e, quindi, con un numero di dipendenti relativamente alto. Il problema è che in proporzione ci sono tantissimi dipendenti a tempo determinato. Io, come la maggior parte, sono stato assunto tramite agenzia del lavoro, la quale recluta lavoratori durante i picchi stagionali e fa dei contratti di massimo 3 mesi, oppure opta per dei contratti MOG (Monte Ore Garantito). Un altro punto importante è che non si tiene conto dello stato del singolo individuo, dal momento che un giorno il dipendente può soffrire condizioni mediche particolari di qualsiasi genere, ma lo standard rimane quello e deve essere rispettato. Un uomo di 50 anni entra in Amazon con un contratto di somministrazione, con la speranza poi di diventare un badge blu, ovvero un dipendente a tempo indeterminato, per avere poi una sicurezza economica, sapendo che deve marciare come se avesse trent’anni di meno. Parlando con i colleghi, c’è gente che con i contratti di somministrazione lì dentro va avanti da anni, magari saltella da un’agenzia all’altra con la speranza di arrivare al contratto a tempo indeterminato che poi, però, effettivamente non arriva. Loro dicono di tenerci molto alla sicurezza del lavoratore, questo nella pratica non l’ho visto. Detto questo l’agenzia non si preoccupa tanto della condizione dei lavoratori che porta ad Amazon, quanto piuttosto del guadagno che trae dal portare dipendenti affidabili e performanti alla multinazionale».

In cosa consistono i contratti MOG?
«È un tipo di contratto dove, a differenza del full-time o part-time, vengono assicurate al lavoratore delle ore lavorative la settimana. Per fare un esempio, nel MOG ti assicurano dalle 16 alle 24 ore lavorative ovvero dai 2 a 3 giorni la settimana, e tutti i giorni che fai in più si chiamano espansioni. All’interno dell’azienda ci sono molti di questi contratti. Sicuramente un soggetto che ha un contratto MOG lavora 3 giorni a settimana, magari anche altri 3 giorni, ma sotto le condizioni delle espansioni. Sicuramente andrà a lavorare tutti i giorni, anche e soprattutto perché spera in un contratto a tempo indeterminato, o comunque di lavorare quanto più possibile. Il MOG viene utilizzato come contratto tappa buchi, letteralmente solo quando l’azienda ha più bisogno, aumentando il precariato in base alle necessità. Io all’interno dell’azienda mi sento di passaggio. Questi contratti MOG aumentano la frustrazione, perché le persone vogliono lavorare. In questo modo vengono usate solo quando l’azienda ha bisogno, venendo poi lasciate a casa quando non sono più necessarie».

Quanto influisce il tuo lavoro nella tua vita personale?
«Sicuramente il lavoro notturno ti preclude tanto, nel senso che ovviamente tu lavori la notte poi dormi tutto il giorno e il ciclo continua. È un lavoro logorante, a fine giornata ho serie difficoltà a camminare, i problemi alle articolazioni come ginocchia e caviglie si fanno sentire parecchio, anche la schiena non se la passa benissimo. Da un lato, loro ti spiegano come lavorare in sicurezza ma, dall’altro è improponibile se devi attenerti a quegli standard e a quelle tempistiche».

È ben retribuito come lavoro considerando i turni di notte?
«Per ciò che riguarda me, ovvero dipendente con contratto di somministrazione, penso sia pagato il minimo sindacale, soprattutto considerando i turni fatti di notte. Nell’ultima busta paga, per aver lavorato 20 notti ho guadagnato 1400 euro, ma facendo il conteggio delle ore, considerando che si parla di notturno e della fatica che devi fare, il carico di lavoro è sproporzionato rispetto al compenso. In genere, i turni notturni però hanno una maggiorazione del 15%, Amazon dà il 25%».

A proposito dell’impatto ambientale, sapresti quantificarlo all’interno dell’azienda? E per quanto riguarda la plastica monouso?
«Immagina un’azienda enorme che muove montagne di merce, cosa impossibile se non con l’ausilio di mezzi pesanti che si muovono in entrata e in uscita continuamente, e di certo non elettrici. Di elettrico in Amazon c’è ben poco. Per quanto riguarda l’utilizzo di plastiche, basta pensare al modo in cui i dipendenti si idratano: dal momento che non puoi portare cibo e liquidi sul lavoro, ti devi recare in alcune postazioni ben precise dove ci sono dei boccioni d’acqua: lì il consumo di bicchieri monouso è molto alto. Pur non occupandomi del packaging, so che il vestiario (componente prioritaria delle merci gestite da Amazon) è conservato in buste di plastica monouso».

Hai mai notato un qualche interesse per la sostenibilità e l’ambiente da parte dell’azienda?
«Non ho mai sentito parlare di sostenibilità e tematiche ambientali all’interno di Amazon, nemmeno nei giorni di formazione. Non ho mai visto neanche un semplice slogan a favore, quindi la risposta è no, sicuramente non è una priorità per l’azienda. Durante la formazione, oltre alle ipocrisie legate alla sicurezza, l’unica cosa realmente importante è il cliente, sottintendendo quindi che tutto il processo che porta il prodotto a questo sia l’unica cosa importante».